What Josiah Saw
2022
What Josiah Saw è un film del 2022, diretto da Vincent Grashaw.
Con buona pace di quel gran genio di Hirokazu Kore’eda, sarebbe forse opportuno parlare di un vero e proprio ritratto di famiglia con tempesta. Anzi, con fantasmi per esser più precisi. Va da sé tuttavia che, a volerla dire proprio tutta, le minacciose e impalpabili presenze che aleggiano fra le cupissime inquadrature di What Josiah Saw non sembrano avere una chiara e specifica connotazione, rivelandosi ai nostri occhi e a quelli dei personaggi stessi come qualcosa di inquietantemente concreto ancor prima che sovrannaturale. Spiriti della carne e della mente – entrambe impietosamente violate – piuttosto che semplici anime dannate, pronti a implodere nel sangue fra le quattro diroccate mura di una scalcinata e isolata fattoria come in una stramba e orrorifica versione di una delle tante querelle domestiche filmate da Xavier Dolan. Ma, in fin dei conti, che cosa mai avrà davvero visto il buon vecchio Josiah? Una angelo? Un demone? Uno spettro? Oppure semplicemente la propria folle immagine allo specchio come in un perturbante racconto di Poe? È questa la domanda da un milione di dollari che permea come un’infestazione fungina le ben due ore dell’inquietante opera terza di Vincent Grashaw, dimostrando tuttavia come la risposta, per quanto brutale e inconcepibile possa essere, appare forse quanto di più vicino e familiare si possa credere. Ed è appunto dell’ombrosa e disfunzionale famiglia Graham che questo lugubre e goticheggiante racconto di frontiera ci narra, smembratasi all’ombra della dolorosa e apparentemente insensata impiccagione della matriarca Miriam e costretta a ricomporsi, dopo molto tempo, sotto la minacciosa ombra di una spietata società petrolifera intenzionata ad acquistare la casa e il terreno di tutta una vita.
Ma non è certo sangue caldo e buono quello che corre fra l’alticcio pater familias Josiah (un Robert Patrick in assoluto stato di sciroccata e temibilissima grazia) e i suoi tre figli, a ciascuno dei quali viene per l’appunto dedicato un intero capitolo della narrazione attraverso cui far emergere pian piano l’estenuante lotta contro i demoni di un passato tanto individuale quanto dolorosamente condiviso. Tommy (Scott Haze), il più giovane e ancora il più traumatizzato dalla violenta dipartita dell’amata madre, fervente adoratore del buon Gesù e unico ad essere rimasto accanto al devastato genitore nella completa solitudine della vita campestre. Eli (Nick Stahl), tossico e disperato delinquente di quart’ordine con un’accusa di pedofilia sul groppone e un’altrettanto opprimente dose di debiti da saldare, costretto a tentare il tutto e per tutto sottraendo, per conto di un gangster, una gran quantità d’oro custodita da una carovana di zingari. E infine la cara, dolce e mentalmente instabile May (Kelli Garner), segnata da un’oscura cicatrice del passato che le ha a lungo fatto aborrire la sola idea di maternità e che ora, nonostante i tremendi incubi (forse profetici) che l’assillano, sembra voler finalmente tentare la strada dell’adozione. Saranno infatti questi ultimi due a voler spingere il bigotto fratellino e l’arcigno paparino a rompere il forzato esilio e a vendere l’ormai decaduta proprietà, intascando una discreta somma con la quale far pace col passato e con il piangente portafoglio. Incuranti del fatto che, come molto spesso accade, le ombre del tempo che fu sono ancora in agguato sull’uscio e pronte a saldare col sangue i contri rimasti in sospeso.
Nonostante gli oscuri presagi di sventura profetizzati nel corso della pellicola a ciascuno dei tre fratelli quali vaticinio di un brutale e scioccante epilogo – durante il quale, attraverso una vera e propria raffica di plot twist degni dello Shyamalan più indiavolato, la disturbante e ansiogena stasi viene finalmente scossa e le triple facce di un’unica verità possono finalmente coesistere –, è nei primi minuti che la viscerale opera di Grashaw pone le proprie fondamenta, in quell’improvvisa e apparentemente sovrannaturale rivelazione che viene consegnata, proprio come un biblico verbo divino, nelle mani dell’ombroso e indecifrabile patriarca. What Joshia Saw è infatti ciò che davvero importa: quel qualcosa di terribile e al contempo misterioso che ha spinto un padre e un figlio a non cedere alle lusinghe del denaro e a rimettere a nuovo l’amata – o odiata? – magione di famiglia, poiché forse solo così la tormentata anima della povera moglie e madre potrà essere redenta dalle implacabili fiamme dell’inferno. Ed è proprio al suono dell’infernale colonna sonora di Robert Pycior che avviene il tanto agognato ritorno dei due restanti figli prodighi, accompagnati dallo stridulo e dissonante pizzico degli archi in un quadruplo stallo alla messicana nel quale non certo le pistole ma bensì le altrettanto letali armi della colpa rinfacciata e dei segreti sepolti preannunciano un ben poco felice ultimo atto. D’altronde, come ci ha insegnato di recente il buon Bryan Bertino col suo altrettanto incubotico The Dark and the Wicked, le ripatriate di famiglia in vecchie ed infestate fattorie non sono mai destinate a finire a tarallucci e vino, quanto piuttosto ad accettate sul muso e parecchi litri di emoglobina sparsi sulle tarlate assi del pavimento. Ma a ben vedere di violenza grafica e gratuita Grashaw dimostra di voler e saper fare a meno, preferendo alle consuete stereotipate truculenze del genere la costruzione di un’angoscia viscida e strisciante che, così come il già decantato folgorante finale a triplo scoppio, continuerà a far dolere occhi e ventre anche ben oltre quell’ultima enigmatica – o forse finalmente chiarificatrice – inquadratura.