Featured Image

Working Class Goes to Hell

2023
Titolo Originale:
Working Class Goes to Hell
REGIA:
Mladen Djordjević
CAST:
Lidija Kordić (Danica)
Tamara Krcunović (Ceca)
Leon Lučev (Miya)

Il nostro giudizio

Working Class Goes to Hell è un film del 2023, diretto da Mladen Djordjević.

Ve lo ricordate The Life and Death of a Porno Gang? E chi se lo scorda… Forse per il clamore che suscitò in quegli anni nel circolo della cinefilia più underground, forse per l’intelligenza e/o furbizia del prodotto, lanciato sulla scia di A Serbian Film, o forse per la potenza effettiva del racconto. Resta il fatto che per alcuni fu un piccolo cult, discusso e discutibile, come quasi tutto d’altronde, e il regista era Mladen Djordjević: serbo, provocatore, abile nell’intreccio corale, che sostanzialmente per quello è rimasto noto ai più. Adesso il suo nome – e il suo sguardo – torna, nello specifico con Working Class Goes to Hell, proiettato al Working Title Film Festival di Vicenza, dedicato all’intreccio tra cinema e lavoro, che da sempre mostra acume nel comprendere l’ibridazione dei registri. Perché è un film sul lavoro che diventa horror. Il titolo parafrasa ovviamente l’opera di Elio Petri del 1971, ma non è una boutade bensì c’è un senso preciso: il paradiso viene trasformato in inferno perché qui c’è l’ombra dall’angelo caduto, cacciato proprio dal regno dei cieli, insomma il diavolo.

Andiamo con ordine. Siamo in una piccola cittadina della Serbia senza nome: nel luogo si è consumato l’incendio di una fabbrica, che ha avvolto nel fuoco gli operai e i loro familiari, disegnando i contorni di una tragedia collettiva. Ovviamente senza colpevoli. Per renderne la portata già sintomatica è la prima sequenza, in cui una bella ragazza a nome Danica (Lidija Kordić) si aggira tra le macerie senza parlare, dopo aver perso la voce insieme alla mamma nel rogo. Ceca (Tamara Krcunović) è un’attivista sindacale che vuole vederci chiaro, non si rassegna al buco nero della giustizia e continua la campagna per la verità. Tra le righe, seppure fumoso l’evento è abbastanza chiaro: c’è almeno una triade di responsabilità, che va dalla proprietà dello stabilimento al sindaco passando per la mafia locale, che ha deciso di “smaltire” lo stabilimento per aprire un cosiddetto albergo, che presto si rivela essere un bordello. Del resto, l’economia della prostituzione è più redditizia del lavoro operaio novecentesco… E la chiesa ortodossa locale è ben lieta di essere complice. Davanti a tali poteri forti, non è facile scalfire il muro: un primo colpo arriva col ritorno nel paese di Miya (Leon Lučev), un uomo maturo appena uscito di prigione che si unisce alla mobilitazione. E propone un metodo diverso: per colpire i bastardi responsabili non basta l’azione concreta e tangibile, bisogna evocare la zampa caprina del maligno.

È qui, dopo un’ora di film, che la storia si denuda e rivela il suo portato di genere: inizia una sorta di horror satanico, in cui Miya prepara l’evocazione con tanto di pentagramma dentro cui si consuma carne cruda. Quando gli astanti gli chiedono chi sta davvero chiamando, egli risponde candidamente: “Il portatore di luce, il principe cacciato dal paradiso”. Chiaro… Mentre Ceca e Miya intrecciano una relazione, che si fa sempre più estrema e disturbante, ecco gradualmente emergere lo scopo del rituale: se l’uomo non vuole arrivare alla giustizia, in quanto stronzo e corrotto, perché allora non rivolgersi a Satana? Non è detto che sia un male in sé. Djordjević ha un’idea del diavolo come ce l’aveva Carducci nell’Inno a Satana, insomma, un demonio eversivo in grado di spaccare l’omertà e seminare un disordine giusto e costruttivo con la furia del suo artiglio. Il regista allestisce un racconto corale che supera le due ore, a tratti con troppa carne al fuoco, come si dice, che significa in soldoni alcune figure più approfondite e incisive di altre che si perdono per strada; ma su tutto mantiene un’estetica del brutto, una desolazione vera e profonda, che serve a comporre un affresco nerissimo della Serbia oggi. E nella mattanza finale si collega veramente a Porno Gang, mostrando la vendetta come unica ipotesi possibile, insomma si morde la coda che poi è quella del diavolo. All’ultima immagine potrebbe spuntare il Nicholas Cage di Longlegs che dice: “Ave Satana”, ma anche questa chiusura non è male. Una nota di merito va al Working Title per averlo portato in Italia. Speriamo in una migliore diffusione domani. Un film lavorista e satanista.