You were never really here
2017
You were never really here è un film del 2017, diretto da Lynne Ramsay
Il mondo suona intorno al taciturno Joaquin Phoenix, intonando una canzone costante di rumori, note, ritmi e silenzi, al posto di ciò che il suo grugno perenne non dice. Il montaggio traduce i suoni in una sfilza di oggetti espressivi: i sacchetti di plastica, i martelli che pendono dallo scaffale del ferramenta, i treni che passano e i telefoni fissi che Joe usa in tempi di smartphone, ecco i puntini mnemonici da unire per comprendere quale genere di violenza abbia creato il divoratore di carogne che si dilegua lungo i vicoli più nascosti. Nel rapporto con la madre (Judith Roberts) c’è una sorta di sodalizio edipico hitchcockiano fin troppo palese: un padre violento poi scomparso, il figlio Joe adulto che per scherzo fende l’aria con un pugno in direzione della mamma rifacendo con la bocca i violini di Bernard Herrmann. Tutto questo è inevitabilmente didascalico e aggrappato alle solite solfe freudiane. Il cinema americano, compreso quello che vuol essere meno banale, sovente si rifugia nei teoremi psicanalitici nel tentativo di trovare una quadra alla follia dell’esistenza. You were never really here (in uscita nelle nostre sale il 3 maggio col titolo di A Beautiful Day – You were never really here) non fa eccezione, miscelando in uno sciroppo di sottesi la solita vicenda dell’uomo sperduto in cerca di redenzione.
Talvolta la Ramsay tenta di scartare il binario logico e morale dello spettatore rifilandogli momenti di leggerezza dove meno potrebbe aspettarselo e soprattutto di surrealismo in seno all’iperrealismo. Non ci si riferisce al funerale subacqueo bensì alla scena in cui i due killers, sdraiati sul pavimento della cucina si tengono la mano, cantando una canzone che arriva dalla radio in lontananza. È la solita panzana dell’amore che la vittima, al momento decisivo, rigurgita verso il suo stesso carnefice, ma poco importa; le puttanate sono inscindibili dagli americani, anche quelli che vorrebbero privilegiare la realtà più cruda.
In You were never really here i rimandi a Taxi Driver si sprecano: il reduce alienato, la prostituzione minorile, le carrellate lungo i quartieri sordidi, la brezza impetuosa del putridume cittadino che soffia e leviga il volto stremato del personaggio, il senatore corrotto come simbolo della base di tutto il male che c’è in giro; persino il metodo stanislavskijano di Phoenix, con cui trasforma se stesso nel fisico e nell’attitudine, sa di quell’irresistibile De Niro. Secondo Lynne Ramsay la storia era già appassionante in fase di scrittura ma il personaggio non aveva uno spessore così prima che Phoenix non decidesse di entrarvi e nutrirlo fino a renderlo imponente, quasi biblico, con la sua barba patriarcale.
Travis Bickle sì, ma anche John Rambo, con i suoi tagli, le saracinesche di carne gonfie di demoni, alcuni raccattati in missione e altri, come si vede nel flashback di violenza domestica del bambino, dietro i polpacci striati di tagli risalenti all’infanzia travagliata. Joe è un personaggio che nel dolore autoinflitto trova una sorta di anestesia a dolori ben più grandi, al punto che l’operazione dentistica fatta in autonomia, comparata con quell’ago e filo impareggiabile del vecchio film con Stallone, non sembra neanche scombussolarlo troppo: il suo Vietnam era già dentro casa. Dico Vietnam non a caso: che sia l’Afghanistan, l’Iraq o qualsiasi luogo da cui Joe è tornato, quando si tratta della figura di un reduce, è significativo che gli americani continuino a raccontarne la follia come se si trattasse sempre di Saigon. Il funerale della madre nel fondo di un lago, mentre i violini galleggiano intorno ai due corpi abbandonati in un addio placentare, è la poesia del sogno e non più la banalità del racconto. Essa esplode silente nel cuore dello spettatore più cinico e disincantato. L’ennesimo tentativo di suicidio, ora che la mamma non c’è più, fallisce: la ragazzina da salvare (Ekaterina Samsonov) appare come Juliette nell’Atalante di Vigo e lo richiama a tentare un remake di Léon. Un carro di ragazze trucidate è il focolaio del suo trauma di reduce e in qualche modo il salvataggio di Nina e tutte le altre giovani violentate prima di lei è il suo tentativo di sciogliere i propri sensi di colpa e rimpattare sul bilancio esistenziale alla voce: colpa mia. E alla fine, nonostante il suicidio sublimato alla tavola calda, questo giochino gli riesce: il sorso di frullato che Joe succhia via rumorosamente con la cannuccia dal fondo del bicchiere è la chiusa beffarda di una sinfonia nera e sembra voler sdrammatizzare tutta la violenza e la tetraggine, mandando definitivamente a puttane la parte più terrigna e retorica di un film possente sul piano dei sensi quanto ordinario su quello della trama.