Z: vuole giocare
2019
Z: vuole giocare è un film del 2019, diretto da Brandon Christensen.
Elizabeth (Keegan Connor Tracy) è una giovane mamma molto premurosa e un poco ansiogena, che vive con il marito Kevin (Sean Rogerson), la mamma gravemente malata perennemente a letto e il suo unico figlio di otto anni, Joshua (Jett Klyne). Quest’ultimo parla continuamente a un amico immaginario di nome Z. La presenza di Z si fa talmente ingombrante e oppressiva, che Beth inizia a dare di matto, temendo che la sua famiglia possa essere in grave pericolo. Episodi terribili non mancano a verificarsi, gettando la famiglia nella disperazione più nera. Brandon Christensen torna a collaborare con il regista/sceneggiatore Colin Minihan (ESP – Fenomeni Paranormali, Deserto rosso sangue). I due filmmakers, che qualche anno fa hanno dato vita al film Still / Born, esordio di Christensen alla regia, tornano con un horror piuttosto teso, approdato sul ricchissimo canale Midnight Factory di Prime Video. Z segue il filone dei bimbetti maledetti (Il presagio) e psicotici-disagiati (Babadook, The Prodigy), e il suo sporco lavoro riesce anche a farlo bene. Brandon Christensen dimostra di conoscere perfettamente gli stilemi dei creepy kids più famosi, restituendoci il ritratto di una “comune” famiglia oppressa da forze maligne, che prendono via via il sopravvento.
Incursioni malevole che sembrano attingere direttamente dai blockbuster degli anni 80, dove giocattoli, fotografie e videocassette, diventano i mezzi tramite i quali l’orrore diventa tangibile, nascosto nel passato di una famiglia in apparenza come tante. Aristotele sosteneva che la capacità morale si acquisisce nel tempo, e che veniamo al mondo sotto forma di creature prive di moralità, interrogandosi su quali abitudini siano funzionali a un buon ordinamento sociale e quali, invece, siano motivo di corruzione. Il bene, dunque, non è un valore assoluto, non nasciamo buoni e confezionati per fare del bene, ma le nostre azioni sono frutto del confronto con ciò che ci circonda e delle influenze determinate dai fatti della vita. Ma il piccolo Joshua, come tanti altri bimbi “immaginari” del cinema, è solo una pedina, parte di un gioco ben più grande, radicato nel DNA della sua famiglia. “La studiosa Barbara Creed afferma che sono proprio le funzioni riproduttive della donna che la identificano come elemento mostruoso. L’utero è visto come un terribile buco nero in grado di produrre il disumano” (E. Ercolani, Nocturno 140).
Il mostro, il disumano, che esista o meno, è nella nostra testa di adulti-bambini, che si chiami Z, Tony – l’amico immaginario di Danny in Shining (Stanley Kubrick, 1980) o Frank, il coniglio inquietante che appare a Donnie in Donnie Darko (Richard Kelly, 2001) non ha poi molta importanza. Il mostro, si trova principalmente nel nostro passato, tramandato attraverso il cordone ombelicale dalla pancia della madre al figlio. Z non è un film perfetto, e lo svolgimento della trama segue di pari passo il registro classico della paura, arrendendosi all’orrore puro solo verso il finale. Nota di lode alla recitazione molto credibile, anche nei momenti meno credibili del film, dove su tutti si fanno notare la Connor Tracy (Final Destination 2), e Stephen McHattie (più o meno inquietante come in Come to Daddy), oltre al piccolo Jett Klyne, in un ruolo che non si scosta molto dal silenzioso e monoespressivo Brahms di The Boy.