Nel 2024 I Soliti Idioti non sono più volgari, ma solo “cringe”
Analisi della serie di Fabrizio Biggio e Francesco Mandelli
Imbarazzante, osceno, inopportuno…
Se penso al termine “cringe”, che va tanto di moda oggi soprattutto fra i giovani, la prima immagine che mi viene in mente è quella delle capre belanti di Thor: Love and Thunder (2022) – e oggettivamente sarebbe difficile sostenere il contrario. “Ma davvero sta succedendo questo?” “Ma come cazzo è possibile?”, viene da chiedersi. È questo, insomma, l’effetto che ho provato – e sicuramente non sono il solo – già quando seppi della realizzazione di un nuovo film dei Soliti idioti e che si è poi effettivamente confermato nella visione. Il terzo, a undici anni di distanza dal secondo (uscito a Natale 2012) e a dodici dal primo (novembre 2011). La serie originale risale invece al 2009 e durò quattro stagioni. Una serie a tratti deliziosa, che mostrava già dei limiti a livello di scrittura soprattutto per la ripetitività di certe battute e situazioni, ma che si faceva apprezzare per i suoi toni volutamente scanzonati, grotteschi e assurdi e per quella comicità fulminea (anche nella durata) che colpiva in modo diretto ed efficace. Con i due film di cui sopra, Fabrizio Biggio e Francesco Mandelli – sotto produzione Valsecchi – arrivarono al grande pubblico, al successo importante, lasciando la “nicchia” di MTV per il mainstream tout-court e perdendo, in termini di qualità, tutto – veramente Tutto – ciò che di buono avevano realizzato in precedenza. Il debutto cinematografico fece quasi 11 milioni (4,5 solo nel primo weekend) ed era niente di più che un “fan service” estremamente povero dal punto di vista filmico, che dimostrava quanto poco i tempi comici del prototipo televisivo si adattassero al grande schermo. Il secondo film (che incassò 8 milioni) fu ancora peggio, perché se da una parte si percepí il tentativo di imbastire un minimo di trama con qualche sviluppo narrativo, dall’altra ne venne fuori un “mappazzone” sgangherato con una comicità che già all’epoca mostrava davvero il fiato corto.
Nel mezzo di questo decennio, ci fu (nel 2015) La solita commedia – Inferno, per quanto mi riguarda il Vero – e unico – progetto cinematografico della coppia, con una rivisitazione dell’Inferno Dantesco in chiave (ovviamente) dissacratoria e un risultato niente male, soprattutto perché libero da tutti quei meccanismi “sicuri” ma ormai logori che avevano fatto la fortuna, ma anche la “maledizione” di Biggio e Mandelli come “Soliti idioti”. Il film bucò però in modo piuttosto clamoroso al box office, raccogliendo meno di 800mila euro e decretando lo scioglimento del duo, anche a seguito di litigi e incomprensioni di cui Biggio e Mandelli non hanno comunque mai fatto mistero. Ci hanno provato entrambi, in questi anni, a portare avanti dei progetti autonomi – Mandelli con dei film da regista e Biggio con delle conduzioni televisive – ma, al di là degli stucchevoli sentimentalismi del caso che si leggono in Rete, pare che i due si siano effettivamente resi conto di poter “funzionare” (in termini economici) solo come coppia, quindi come I Soliti idioti. E il botteghino ha in effetti ricominciato a sorridere a Biggio e Mandelli, registrando cifre più che lusinghiere (nel weekend di debutto hanno raccolto poco meno di 2 milioni) anche se lontane da quelle di un tempo, ma il periodo è pur sempre quello che è. In dieci anni sono cambiate tante cose e tante sono rimaste uguali, o forse non è cambiato niente. O forse ancora, ed è l’ipotesi che più mi sento di abbracciare, le cose sono davvero solo cambiate in peggio.
In quest’epoca confusa, paradossale e senza identità come quella che stiamo vivendo, il “Ritorno” sul grande schermo dei Soliti idioti non è nient’altro che la cartina tornasole dell’epoca stessa. È fin troppo chiaro – anche solo dal trailer – che la formula de I Soliti idioti abbia detto e dato tutto già un decennio fa. E lo sanno, Biggio e Mandelli, ai quali sembra non interessare più neanche la satira sociale e il “politicamente scorretto” che animavano la serie e che si sono via via affievoliti sin dal primo passaggio sul grande schermo, lasciando spazio a una reverenza nei confronti degli spettatori che qui diventa addirittura cuore pulsante. L’anima centrale di I Soliti idioti 3 risiede, infatti, nei personaggi dei tamarri milanesi Patrick e Alexio, che sono per l’appunto il prolungamento cinematografico della quasi totalità dell’odierno pubblico del format: ragazzini perlopiù (in)stupidi(ti) il cui lessico difficilmente va oltre le espressioni “Minchia”, “Figa” e “Porco Dighel”, appunto. Non si capisce di cosa – e per cosa – si debba ridere, oggi, guardando I Soliti idioti al cinema, dal momento che la proposta comica del duo non solo è stantia e superata in ogni sua parte, ma denota soprattutto l’incapacità di una benché minima evoluzione. I ragazzini ridono – nemmeno più in modo così fragoroso, per la verità – perché rivedono se stessi. È un aggancio facile e sicuro, insomma. Lo sberleffo sugli omosessuali, sugli impiegati delle poste, sul perbenismo forzato e la volgarità come sempre esasperata e insistita del mattatore Ruggero De Ceglie è ormai solo una cantilena da scuola materna che si ripiega e contorce su se stessa, stridendo come le unghie sulla lavagna. E quello che ne rimane è letteralmente un senso di nausea, di impulsi fisiologici. “Letteralmente” anche perché la sala che proietta il film è invasa dai maranza e l’odore che si respira è una commistione di iqos, genitali e marijuana. Imbarazzante, osceno, inopportuno… Oggi si dice “cringe” e mi tornano quindi in mente le capre di “Thor”, però mi chiedo: qui le capre stanno dentro o fuori dallo schermo? E la risposta che mi do è: sia dentro che fuori, probabilmente.