Nella bellezza oscura de Il cacciatore
Il capolavoro di Michael Cimino torna al cinema. La nostra analisi
UN COLPO SOLO
Il più grande film sulla guerra in Vietnam è Apocalypse Now, il più grande film sulle persone e, in particolar modo, su un gruppo di amici, è Il cacciatore. E non lo dico io, lo disse Michael Cimino stesso quando invitò il pubblico a non cercare strani simbolismi, discorsi politici sulla guerra in Vietnam o altro: Il cacciatore parla di amici, degli amici che ti scegli come famiglia alternativa rispetto a quella disfunzionale di origine (come nel caso di Linda, interpretata da Meryl Streep, che non è mai stata più bella di così); parla del passaggio dalla gioventù all’età adulta; parla di cosa succede quando una tragedia colpisce la tua famiglia. Ci sono tante e troppe cose da dire su questo film e vi chiedo scusa se non sarò all’altezza, ma è incredibile quante e quali sfumature emergano visione dopo visione: che sia la piega sulla bocca del berretto verde al bancone del bar, al non troppo velato razzismo di un medico di campo americano che sembra sottolineare con fastidio il cognome di Nick (Nikanor) ‘Chevotarevich’, non pago che quell’americano, per quanto di diverse origini, abbia rischiato la vita come tutti loro.
È un film che mischia sacro e profano, alto e basso, di attori che arrivano e vanno: Robert De Niro e John Cazale erano le due star del cast, mentre Christopher Walken e Meryl Streep erano ad un battesimo di fuoco. Se non ci fosse stato un nome forte come De Niro, per la produzione, le riprese non sarebbero mai partite. Ma De Niro era in uno stato di grazia, poco prima di salvare l’amico Martin Scorsese con la sceneggiatura di Toro Scatenato (mentre il regista si trovava in ospedale per abuso di cocaina), dava a Michael Cimino – così come gli altri attori – la prova della vita, il metodo applicato ai suoi massimi estremi, alle più tragiche conseguenze: dalla pallottola vera usata nella scena tra Mike (Robert De Niro) e Stan (John Cazale), agli attori realmente appesi all’elicottero, per poi cadere – durante il salvataggio – da una notevole altezza. Ognuno era la controfigura di se stesso. Come racconta lo stesso Cimino, in una rara intervista, gli attori hanno dormito per più di un mese nelle uniformi, senza lavarsi o radersi, esattamente come accadeva per i soldati in Vietnam; senza dimenticare la dieta folle di Christophen Walken tra riso, banane e acqua per dimostrare la sofferenza di Nick e il trauma del dopoguerra.
E, ancora, la seconda sceneggiatura scritta da Cimino nel caso Cazale morisse durante la lavorazione: infatti Cazale morirà da lì a poco, per un cancro ai polmoni, alla fine delle riprese. Di fronte a una produzione recalcitrante, non solo tutte le scene con Cazale hanno avuto la priorità sulla tabella di marcia, ma l’assicurazione fu coperta da De Niro. E come dimenticare le bugie di Cimino stesso sul suo servizio militare, come gli errori tecnici di un regista che si è sempre vantato di non aver studiato cinema? Solo per l’aneddotica Il cacciatore meriterebbe un film o un libro a parte. Per quanto sia figlio della sua epoca e di un modo – non convenzionale – di fare cinema, il film rimane eterno, un classico come il Notturno no.6 di Fréderic Chopin suonato da John (George Dzundza) alla fine della prima battuta di caccia: i ragazzi smettono di fare casino, rimangono tutti in ascolto come in attesa dell’inevitabile tragedia. La fine dei giochi, la fine di un’era. Ultima danza e poi guerra. Poesia e orrore. Tutti guardano altrove, tranne Nick che beve e poi, stranamente, sembra brindare all’aria e a una metaforica campana che suona. E solo lui capisce che suona per tutti.
MI SENTO LONTANO
Questo film è un dono splendente e spaventoso. Credo che per parlarne al meglio, come per l’arte migliore, sia necessario in qualche modo parlare di se stessi e non intendo quella scrittura egoriferita portata ai massimi estremi di oggi da gente che non ha nulla da dire e si nasconde dietro il gonzo journalism o Lester Bangs. Intendo che l’opera di Cimino ti capita davanti agli occhi quando ne hai bisogno, che sia un momento felice o triste della tua vita, è di te che parla, indipendentemente dal fatto che tu sia Mike, Nick, Steve o Linda. “Parla di persone” per citare, ancora una volta, il regista stesso. Sia lui che noi – come pubblico e critica – non guarderemo mai più la vita in faccia come abbiamo fatto guardando Il cacciatore. È l’equivalente cinematografico di un bar mitzvah: dopo avere visto questo film si diventa grandi, si diventa uomini (con buona pace delle femministe).
Del Vietnam vediamo una scena dove Mike ha in mano un lanciafiamme, poi lui, Nick e Steven diventano prigionieri di un branco di sbandati vietcong, soldati annoiati, che si divertono a usarli come pedine e giocatori (manco fossero usciti da un videogame) con la roulette russa. Attenzione, per quanto il regista abbia trovato delle testimonianze indonesiane su questa barbara pratica non ci sono prove del suo utilizzo durante il Vietnam. È il geniale quanto crudele escamotage di Cimino per mostrare ciò che più tardi avrebbe cantato Leonard Cohen: ‘Tutti sanno che i dadi sono truccati/Tutti li lanciano con le dita incrociate’. Mike e Nick, uno davanti all’altro, due persone non più complementari ma l’antieroe e l’eroe: in guerra o durante la caduta di Saigon, sono sempre stati loro due, davanti a un tavolo, dove non è cambiato nulla e al contempo tutto: per quanto Mike non voglia ammetterlo, perché uno possa continuare a vivere l’altro deve morire.
Mike è l’antieroe per eccellenza: è un uomo pragmatico e razionale e in questo suo pragmatismo (dove fa breccia solo l’amicizia con Nick e, in minor misura, l’amore per Linda) c’è la freddezza di chi ragiona con logica; inizialmente non vuole salvare Steven ma viene incentivato da Nick che, a modo suo, sta crollando psicologicamente quanto e più degli altri; Mike benché incontri Nick in una bisca e provi a inseguirlo (così come Nick cerca Mike), dopo che lui e gli altri ricevono le cure dall’ospedale di campo, a un certo punto desiste e torna a casa. ‘Mi sento lontano’, la battuta che esplode nel cuore della notte come una bomba al centro del mondo, tra le vite di Mike e Linda. Lui potrebbe avere tutto, gli onori del ritorno e la donna che ama e che era promessa al suo migliore amico, ma se può ‘tradire’ gli amici non può girare le spalle alla sua bussola morale che gli dice che non troverà pace finché non saranno tutti a casa. Preleva Steven dall’ospedale militare, ormai ridotto a un troncone umano, e lo riporta da moglie e madre nel loro paesello, quella Clayton siderurgica che pare un non luogo tanto comune e tanto anonimo nella cintura della vera America dimenticata da tutti.
Poi Nick, l’unico che oltre le donne di Clayton (la madre di Steven su tutte) non era convinto di quella guerra e si sentiva sicuro solo con Mike vicino. Le donne nel cinema di Cimino, in apparenza, hanno un ruolo marginale, ma non è così. Se è vero, come dice un proverbio messicano, che le fondamenta di una casa si poggiano su una donna, la vita di questo gruppo di amici si basa su donne che si disperano, piangono e vengono menate, ma rimangono in piedi, in attesa, granitiche come eterno approdo per l’ingenuo mondo maschile. Le donne sanno più cose e sembrano saperle prima di questi uomini che giocano ancora come bambini. In prossimità della guerra preferiscono fare un’ultima battuta di caccia ignorando moglie e fidanzate; sembra quasi ci sia una omosessualità latente ne Il cacciatore quando, in realtà, è solo l’atteggiamento ancora infantile di un grappolo di amici che si ama – in modo platonico – e che ancora non è pronto a inglobare “l’altra parte del cielo” (e diciamolo, Stanley sembra il prototipo di un tenerissimo incel).
MI PIACE COME SONO GLI ALBERI SULLE MONTAGNE
Nick è sempre stato il contraltare di Mike e, se prima della guerra quest’ultimo aveva certezze incrollabili – tanto da farlo passare per altezzoso davanti agli altri -, nel pieno del Disturbo da stress post-traumatico le fondamenta di ogni sua certezza vengono meno. Morire durante una battuta di caccia non è come morire in Vietnam, uccidere con un colpo solo non ti rende meno cinico e sadico dei soldati al fronte, e per che cosa e chi è morta un’intera generazione? Nell’ultima scena nel locale di John, luogo in precedenza deputato alla leggerezza, l’atmosfera è pesante come in un racconto di Joyce: si leva un canto ed è God Bless America, l’America che ha dato e tolto tutto a un altro figlio di immigrati (di seconda generazione) come Cimino, l’America descritta con tanta cura quanto chirurgica crudeltà ne Il cacciatore quanto ne I cancelli del cielo.
L’America del destino manifesto che usa e abusa di questi americani a metà (perché di prima generazione) in un colonialismo brutale che non è fatto solo di confini e territori da depredare, ma anche di vite, mente e cuori di uomini che credono in una causa fasulla. Nick che, dal canto suo, non aveva certezze (se non sposare Linda) squarcia il velo di Maya e vede, al di là delle sue amate montagne e degli alberi, un mondo di nichilismo e distruzione, dove la corrente autodistruttiva avrebbe fatto da padrone negli anni ’70 e, ancora oggi. Nick sa di essere solo uno spettatore dell’orrore, a differenza di Mike che crede – fino all’ultimo, ma non del tutto ormai- di essere un attore, di poter fare qualche differenza, se non nel mondo, almeno nel suo piccolo universo. Mike come Orfeo, Nick come Euridice, condannati entrambi: nel momento in cui Mike guarda Nick quest’ultimo svanisce.
Il cacciatore dovrebbe essere visto ogni anno – un capitolo a parte andrebbe scritto per il sorriso del berretto verde durante il matrimonio di Steven – come le grandi opere letterarie di cui si colgono nuove cose in diverse età della vita. Nelle ore insonni della notte o persi in macchina nel grembo del vostro Paese, in quei rari momenti tra il sonno e la veglia potete cogliere la bellezza oscura e dolente di questo film: qualsiasi tragedia capiti nella nostra famiglia (che sia di sangue o quella scelta), è una vera dichiarazione di guerra da parte della vita, e se alla morte possiamo trovare stanchi e più saggi un senso logico, alla guerra segue solo il dolore supremo che chiamiamo orrore e da cui nessuno ci può salvare.