6 Novembre 2018
Pascal Laugier – I bambini fanno ancora paura ?
Analisi e spunti sull'intero percorso creativo del regista francese
Al tempo di Martyrs, Pascal Laugier aveva 37 anni. Non conosciamo bene i dettagli della sua vita privata, ma sappiamo, perché ce l’ha detto lui fino a farlo diventare un ritornello privo di senso durante tutta la campagna promozionale del film, che veniva da un periodo di crisi profonda, uno di quelli in cui non vedi luce, pensi che siamo tutti condannati e che niente ha senso, a parte il dolore e la morte, elargiti comunque in modo che ci appare ingiusto e crudele. Se c’è un dio se la sta ridendo di noi e basta. Ed ecco quindi un film come Martyrs. Una sorta di Salò ma più catartico e meno definitivo. E davanti a un film così estremo e allo stesso tempo vivo e duro, la gente salutò la prodigiosa opera prima di un altro esordiente prezioso che madre Francia non smetteva più di espellere dal suo ventre dilaniato: una progenie rabbiosa e inarrestabile che prendeva a calci l’assuefatto pubblico horror come non succedeva dai tempi di Clive Barker. Ma non era un esordiente, Laugier. Alle spalle aveva Saint Ange: al registro della critica solo un esercizio di stile spocchioso con fantasmi bambini che suscitano più irritazione che spavento. Non poteva essere lo stesso autore! Come era possibile? Saint Ange era così innocuo, narcisistico, privo di alcun guizzo vitale. Probabilmente si trattava della presenza di Christophe Gans, padrino di Laugier. Il giovane regista si poteva definire suo protetto, per non dire cocco, ma in quel primo film era trattenuto e traviato dalla passione del regista di Silent Hill per il cinema del mistero. Gans doveva aver stemperato colpevolmente la furia di un arrabbiato come pochi, trasformando una storia di massacri infantili, nazisti e infestazioni in una specie di Shining senza Jack Torrance; o se volete un Suspiria senza le streghe. Martyrs era senza dubbio il primo vero film di Laugier; il suo madornale inizio. Era per forza così. E quindi i più rimasero male quando videro I bambini di Cold Rock. Pascal si era di nuovo lasciato castrare dai produttori. Stavolta erano gli americani ad avergli messo il guinzaglio. E lui se ne era uscito con un altro film «misterioso» ma stavolta senza neanche gli spettri.
Che scherzo era? E poi non doveva rifare Hellraiser? In effetti la partenza del regista francese per gli Stati Uniti era dovuta a un reboot dell’esordio filmico di Barker e dopo Martyrs, scegliere Laugier era quasi inevitabile: solo l’autore di quel film così spietato poteva misurarsi con la cattiveria del regista inglese. Quindi la gente pensò che il vero motivo della decisione di tirarsi indietro dal progetto Hellraiser, da parte di Pascal, fosse solo la sua innata tendenza a distinguersi dagli altri. Non avrebbe fatto la fine di Aja o Bustillo & Maury, incastrati a fare remake di vecchi film horror USA degli anni ’70. Lui avrebbe tentato la via del successo guardando a Shyamalan e il suo cinema dentro e fuori dai generi. Errore. Quale errore! Laugier aveva voluto fare soldi con una cosa commerciale, con una star nel cast, ma gli era andata male. Chissà, forse il nuovo insuccesso l’avrebbe ricondotto sui territori senza speranza di Martyrs? Come se I bambini di Cold Rock fosse un film per famiglie e non un nuovo atto di un percorso autoriale di grande coerenza, all’insegna della disperazione e l’incapacità di mettere in salvo qualcosa da cui ripartire. I figli portati via alle famiglie di origine e dati in adozione, in una specie di mercato nero «buono», in fondo non è la soluzione al problema e Jessica Biel lo dice da dietro le sbarre. Il suo personaggio, l’infermiera orco Julia Denning fa una specie di comizio in cui è Laugier a parlare. Stavolta usa un’attrice di richiamo per esprimere lo stesso allarmante concetto di Martyrs. E di Saint Ange. Saint Ange è un film fragile ma orgoglioso. Un mingherlino che sfida tutti agitando un ramo secco e ripetendo una formula magica senza alcun effetto. Eppure dentro quel fiasco c’è già l’intero Laugier. E in un certo senso Martyrs è una sorta di remake cattivo di Saint Ange e I bambini di Cold Rock una versione mainstream degli altri due. Cambia la veste, cambiano i toni, ma lo scheletro è sempre il medesimo: quello di una donna le cui ossa raccontano tutta la violenza e il dolore che ha dovuto provare prima di abbandonarsi ai vermi. L’orfanatrofio, i fantasmi che ossessionano Lucie… siamo sempre lì, con gli spettri che forse non lo sono e forse sì. Laugier non dice se il fantasma esiste.
Laugier semplicemente dice che il fantasma insiste. E lui con esso. Non lo dice per Martyrs e non si schiera nemmeno in Saint Ange. Forse gli spettri sono una proiezione nevrotica della partoriente; forse sono un senso di colpa da sindrome della sopravvissuta per la pazzia di Judith. O magari si tratta davvero dei bambini che mettono paura. Il vero motivo per cui Laugier rifiutò di cimentarsi con i cenobiti di Barker è perché l’animo di questo regista non si era avvicinato al cuore dell’Inferno carnografico per motivi estetici e creativi; con una sorta di gusto e fascinazione per il proibito. Pascal era davvero addolorato nel momento in cui aveva scritto Martyrs e se non si fosse mosso da quel fondo lì, probabilmente sarebbe morto suicida prima di portare a termine il terzo film. Provate a rivedere Martyrs per rendervi conto davvero di quanto sia nocivo. Più lo si riguarda e più è difficile resistere fino al fondo, perché i colpi di scena ormai si conoscono e non bastano a trascinarci avanti. Non abbiamo più bisogno di capire. E tutto ciò che rimane da vedere e da sentire, duro e insopportabile ancor più della prima volta, è il dolore. Uno che fa Martyrs non dura molto, a meno che non provi a cambiare, a fare cose diverse, a dire in modo diverso quello che ha da dire. Laugier ha evitato di riproporre al suo pubblico un altro film del genere, non per smanie economiche o più facili consensi e tanto meno per impedire che il mondo lo chiudesse in una gabbia insieme alle mosche mangia-cadaveri. I bambini di Cold Rock mantiene una visione pessimistica sul futuro della razza umana, il paesino è una chiara metafora del mondo. E la via di fuga orchestrata da Julia e suo marito è una falsa via d’uscita. Non saranno felici, quei ragazzini. Cresceranno, avranno un’istruzione migliore, un tenore di vita più alto, ma cosa li salverà dalla solitudine, dall’indifferenza, dalla depressione, dai mostri insensati per le strade, che si aggirano azzannando l’aria. I bambini di Cold Rock, oltre a essere un film molto più complesso di quello che la gente crede, ha una struttura narrativa mutaforme ed esprime concetti sempre terribili. L’unica cosa che sbaglia Laugier è ingannare il pubblico in modo deliberato per un fine che lui reputa superiore: il messaggio finale da far arrivare a quelle zucche piene di bisturi sporchi e pop-corn all’amarena. Ma non ce la prendiamo con gli spettatori americani per aver punito il film decretandone il fallimento commerciale.
E nemmeno il pubblico europeo che si è sfogato a spernacchiarlo in rete anche prima di averlo visto. Tutti volevamo solo altro sangue, altra crudeltà, altra violenza. Pascal ha pulito via il sangue fino all’ultima goccia e da lì ha deciso di usare l’horror solo come combustibile da cui sprigionare una fiamma in grado di espandere odori di speranza perduta su noi, i bambini di ieri e i genitori di oggi e domani. Quanta ingenuità! O forse quanto coraggio? I bambini di Cold Rock è una truffa che si conclude con l’imperdonabile rivelazione che non c’è neanche il mostro, il fantasma, l’uomo nero del titolo inglese: The Tall Man. Tanta tensione e mistero per cosa? Pascal ha pure usato Jennifer Biel come fosse Emma Thompson (mai stata così poco truccata e priva di fascino) e non la consueta figona inarrivabile da desiderare. Ha scelto la fotogenica provincia americana per raccontare una storia che poteva essere ambientata ovunque. Non siamo nei meandri della desolazione estetizzata di Gummo di Korine. Qui non c’è nessuna critica alla società dei consumi. Cold Rock è il mondo intero lasciato ad avvizzire a causa di un sistema economico al collasso e prosciugato dei suoi valori basali. La nostra grande terra è ormai fredda roccia e noi siamo rettili in cerca di un po’ di sole in attesa dell’estinzione. E ora sta per uscire La casa delle bambole – Ghostland, atteso ingiustamente al varco come ultima possibilità prima della condanna. Dovremmo accoglierlo senza tutta questa ansia, con la smania di riconfermare Laugier oppure di ridimensionarlo. Il quarto film di Laugier, però, non è il nuovo Martyrs e tantomeno Saint Ange con più soldi. Qualcuno ha azzardato dicendo che si tratta di una fusione dei due. C’è di nuovo la violenza, citata dai recensori quasi a voler rassicurare il pubblico che Pascal è tornato sui suoi passi ed è arrabbiato e fa il cattivo come abbiamo imparato ad amarlo, e allo stesso tempo però Ghostland è un’altra storia di spettri ma piena di crudeltà e disperazione. Molti si sono sbrigati a gridare al capolavoro, addirittura più dello stesso Martyrs. Altri hanno riconosciuto nel film l’impegno di Laugier a provare – senza riuscirci – a lasciare il segno. Un gruppo di centristi, più audace, ha parlato invece di «dolce» maturazione. La verità forse è che La casa delle bambole non voglia misurarsi con il passato e nemmeno dire qualcosa di nuovo ma solo raccontare la storia di spettri più violenta e malata possibile, un incrocio tra fiaba e incubo metropolitano in cui una vecchia magione come quella de L’evocazione è invasa da predoni degni di un torture porn. Questo crossover lascia poi il campo al solito Laugier, con i suoi spettri, i suoi twist inquieti e la bravura un po’ fine a se stessa.