Quattro Figlie. Verità e finzione
In sala dal 27 giugno il film in concorso a Cannes. Intervista alla regista Kaouther Ben Hania
In concorso ufficiale al Festival di Cannes 2023, Quattro figlie (Les Filles d’Olfa) arriva nelle sale italiane il 27 giugno 2024 dopo la partecipazione al Biografilm di Bologna. La regista tunisina Kaouther Ben Hania ha accompagnato il suo film: un ibrido tra realtà e finzione basato sulla storia di una famiglia tunisina in cui due delle quattro figlie un giorno spariscono, scegliendo di dedicare le loro vite al terrorismo religioso e lasciando un vuoto enorme nella casa natale. Ben Hania prova a colmare quel vuoto con il cinema, con due attrici chiamate a riportare tra quelle mura le due ragazze “sparite” (e un’altra che in qualche modo “sdoppi” la loro madre), costruendo un oggetto filmico raro e stimolante.
Quattro figlie è molto difficile da definire: non è fiction, non è documentario, non è mockumentary, ma è un po’ tutte queste cose insieme, unendo fiction e realtà in un modo molto originale e cinematograficamente innovativo. Lei ha una definizione precisa o le piace che rimanga indefinibile?
Per me è e resta un documentario, perché per me questa parola ha un significato molto vasto, non ha frontiere, un po’ come non ha frontiere la realtà (sono solo sulle mappe, disegnate dall’uomo, non esistono in natura). Volendo proprio definirlo potremmo dire che è un meta-documentario, ma questo aspetto ibrido mi piace molto. È stato un processo molto lungo quello di creazione, originariamente (nel 2016-2017) avevo in mente di fare un documentario più classico. Mi sono però resa conto a un certo punto che quella forma non era all’altezza di ciò che stavo raccontando.
Il film era in lavorazione da anni, nel tempo si sono susseguite diverse idee su come realizzarlo: quanto di tutto questo è servito per renderlo quello che è adesso?
Lo ammetto, avevo filmato moltissimo effettivamente quando ancora pensavo di farne un documentario classico, ma ho buttato nella spazzatura tutto quello che avevo girato quando ho capito che non era la strada ideale. Ho dovuto farlo. Quando a un certo punto ho trovato la forma giusta per narrare questa vicenda tutto è andato al suo posto, e addirittura – forse non casualmente – ho anche trovato i soldi per produrlo, cosa che prima non riuscivo a fare. Tutto si è sistemato.
Quando avete scelto le attrici vi siete comportati come a un normale casting oppure servivano delle caratteristiche diverse, oltre al talento?
Devo essere sincera, non mi interessava per nulla in questo caso il loro talento come attrici, dovevano essere persone che portavano la loro verità nel film e davano il loro parere su ciò che veniva raccontato. Ero più interessata a trovare una particolare empatia in loro, soprattutto per le attrici che avrebbero dovuto interpretare le due sorelle: avevo bisogno di persone particolarmente empatiche e che tra l’altro fossero a loro modo buffe, serviva che avessero lo stesso humour delle altre sorelle in modo tale che potesse crearsi questa connessione tra loro quattro. Invece per il ruolo della madre ho scelto Hend Sabri, una star nel nostro Paese: mi serviva un’attrice che doveva essere un po’ in contrapposizione con Olfa, le doveva fare da specchio e dirle le cose in faccia, mi serviva un personaggio più forte di lei.
Ha menzionato Close Up e Dogville come film che in modi diversi hanno ispirato questo film: quanto era consapevole di questa ispirazione mentre scriveva?
Sicuramente nel momento in cui si fa un film in una maniera un po’ speciale, come questo, ti viene automatico andare a vedere le esperienze che sono già state fatte, che idee hanno avuto altre persone in contesti simili. Ho visto Close Up per la prima volta a vent’anni e mi aveva davvero colpito moltissimo, è un film di una intelligenza incredibile nel modo di filmare il reale, è il film di un Maestro. Dopo ci sono tanti film che hanno tentato la forma ibrida ma questo di Abbas Kiarostami è stato per me un punto di partenza fondamentale. Dogville è invece stato un riferimento principalmente per l’aspetto scenografico: qui non è astratto come in quel caso ma c’è una scenografia unica, la definirei di avvicinamento a quella reale. Non mi servivano set elaborati, mi serviva coerenza visiva e stilistica.
Mentre guardiamo il film, anche se sappiamo chi sono le persone reali e chi sono le attrici, a volte questa consapevolezza si perde. Era questo il risultato che cercava?
Olfa e le sue figlie sono personaggi veri che raccontano la loro vera vita, invece le attrici raccontano una vita che non è la loro. Ma se ci pensiamo bene in realtà – e in questo caso soprattutto – le persone spesso recitano: anche loro sono delle attrici sensazionali nel raccontare la loro vita, quando si ha a che fare con il passato, del resto, non si dice mai una verità assoluta, non si può ravvivare un ricordo senza abbellirlo o cambiarlo, senza fare buonismi, senza edulcorare la realtà. Il nostro passato è in qualche modo un po’ finzione, perché il ricordo passa attraverso gli occhi di chi ha vissuto quegli episodi e da quello che è effettivamente rimasto. Se questo è un metodo che si può ripetere? Dipende dai progetti, è sempre la storia che mi suggerisce il metodo, non è di certo una cosa che vorrò fare per forza.