Rampage – il film che visse due volte
L'ingiusto flop di Friedkin
Rampage (Assassino senza colpa?) è il più grosso fallimento commerciale di William Friedkin, il fondo della sua carriera di regista in concomitanza con il periodo più nero della sua vita privata. Molti cineasti non avrebbero retto a un tale disastro e anche lui nel 1987 ha preso seriamente in considerazione l’idea di mettersi a fare qualcos’altro nella vita. Esatto, l’artefice de L’Esorcista e Il braccio violento della legge, alla fine degli anni 80, ci stava salutando. Per fortuna ci ha ripensato. Oltretutto Rampage è uno dei film più belli di Friedkin e forse un caso unico nella storia del cinema perché ne esistono due versioni quasi antitetiche sul piano ideologico: almeno questa è la leggenda.
La prima versione infatti non è, come si dice, contraria alla pena di morte, piuttosto resta sospesa sul dilemma se sia giusto o no friggere un maniaco assatanato. La seconda versione, rimaneggiata nel 1992, propende nettamente per il sì ma non testimonia un cambiamento morale nella mente di Friedkin. Perché non c’è dubbio, e anche lui lo dice chiaro nella sua autobiografia Il buio e la luce (Bompiani, 2013) che per certi assassini non esiste riabilitazione che tenga, vanno eliminati per il bene della società. L’idea però non matura in lui dopo il 1987 ma sul finire degli anni ‘60, pensando a gente come la Family di Charles Manson e all’assassino di J.F.K (quello ufficialmente riconosciuto), Lee Harvey Oswald. Meglio morti che in galera a spese dei contribuenti e con il rischio che per qualche cavillo legale o seguendo un certo percorso terapeutico possano di nuovo uscire e compiere altri delitti. William Friedkin, dal 1969 l’ha sempre vista così.
Quando legge il libro di William P. Wood, Rampage (St. Martin’s Press, 1985), basato sulla vicenda del Vampiro di Sacramento, Richard Chase, Friedkin decide di opzionarne i diritti. Non è la prima volta che si occupa di un serial killer (Cruising) ma in questo caso il regista non vuole dedicare attenzione principalmente alle gesta di un maniaco e a quelle di un detective che cerca di fermarlo, bensì al dibattito sociale che ne può scaturire. Ma da bravo regista lui decide di astenersi dal mostrare dove pendano le proprie idee. William infatti non è tipo da bandiere e partigianerie. Da oltre 40 anni, guardando L’Esorcista, per dire, ancora non si è capito se sia un credente o meno e se parteggi per Pazuzu o Padre Karras. E come per il capolavoro del 1973, con Rampage si mantiene ancora freddo, distante, mostra tutto quello che c’è da vedere; il pubblico può decidere cosa credere e pensare, non c’è bisogno che venga imboccato. Friedkin gestisce Rampage quasi come un documentario. Si domanda cosa abbia a disposizione la società per accogliere, gestire o smaltire un serial killer da prima della cattura a dopo la sentenza. È come una sorta di inventario. La società vuole salvare un mostro che massacra degli innocenti? Bene, ma come? Lo vuole salvare dalla galera e consegnare a qualche centro psichiatrico, ok, ma come fa a decidere che il maniaco è davvero un folle e non un briccone che ha capito in che modo evitare la prigione?
E così ecco che più che sullo spazio dedicato alle indagini e poi al processo, Friedkin punta molto sulla fase degli esami clinici. In un certo senso siamo ancora dalle parti de L’Esorcista. Il mostro stavolta è un bel ragazzone dalla faccia volpina ma dentro di lui alberga qualcosa di incontrollabile e oscuro (o forse no). Quindi viene sottoposto ai più avanzati controlli che la neurotecnologia offra negli anni ’80, così come la bambina posseduta un decennio prima, subiva le più elaborate ricerche di allora. Il parallelo con il film demoniaco del ’73 però prosegue anche quando davanti all’orrore che il killer mette in scena in una casa privata, mutilando e mangiando una tranquilla famigliola, viene montato in alternato un prete che distribuisce il “corpo di Cristo” ai fedeli durante la funzione, lo stesso prete che più avanti diventerà sangue e carne del serial killer stesso fuggito temporaneamente di prigione. Con un’evasione che fa pensare a Ted Bundy/Dr.Lecter, il maniaco si rifugerà in chiesa e oltre a fare polpette del sacerdote si lascerà andare a una serie di atti sacrileghi molto in linea con le sciarade notturne della piccola Regan/Pazuzu nella casa di Dio a Georgetown. In entrambi i casi, nel tempio dove alberga il sangue e la carne del creatore si lascia – senza intervenire – che un demone compia degli scempi. Fosse stato Blatty avrebbe fatto scoppiare a piangere il killer davanti alla statua della Madonna, magari dopo un’invettiva alla Cattivo Tenente, mentre Friedkin lascia, così come a Georgetown, che il Signore dell’Altromondo non interferisca con le scemenze del Signore di questo mondo e i suoi figli devoti.
Alla fine della prima versione, quella dell’87, l’assassino si suicida con un’overdose di psicofarmaci (stessa sorte del vero Vampiro di Sacramento). La conclusione non lascia grandi sospetti sul pensiero di Friedkin o meglio, non ne avrebbe lasciati se la gente avesse potuto vedere il film. Purtroppo la De Laurentiis dichiara fallimento e la pellicola del povero William non esce nemmeno. Da lì il regista si ritrova a dover rispondere lui dei debiti contratti dal produttore e, oltre a quello, non ha neanche la possibilità di mettere il film in mano a un altro distributore e vedere cosa succede.
Qualche anno più tardi, il giovane e scalpitante producer Weinstein contatta Friedkin dicendo che vuole mettere le mani sul film che è ancora negli archivi della De Laurentiis e farlo uscire, magari dopo che il regista gli abbia dato una risistematina, se lo ritenga necessario. Il regista accetta e decide di rimaneggiare il film perché la versione originale non lo convince più per nulla. E così aggiunge una scena all’inizio in cui mostra quanto sia semplice per un pazzo scatenato in America comprare una pistola rispondendo a un ridicolo questionario che il negoziante gli legge prima di impacchettargli l’arma e prendersi i soldi (se ai quesiti si dice sempre no poi si è liberi di entrare nella prima casa che si vuole e far fuori tutti quanti). Questo inserimento è già di per sé abbastanza pesante per la bilancia dell’imparzialità che Friedkin voleva tenere in equilibrio nella versione precedente. E a esso si aggiunge il finale, in cui l’omicida non si suicida più ma scrive lettere ai parenti delle vittime e spera, grazie al percorso di riabilitazione terapeutica e farmacologica, di poter chiedere entro qualche mese una parziale scarcerazione. Conclusione sardonica, chiaro che un mostro simile non può essere lasciato libero e non ha speranza di poter guarire. Ecco quello che vuole farci capire il regista: meglio togliere di mezzo un tipo così aberrante.
Le modifiche del 1992 peggiorano il film. Si può essere o meno convinti che occorra la pena di morte, in certi casi, ma tecnicamente le aggiunte che rendono la tesi di Friedkin così esplicita appesantiscono e sciupano una versione che al di là delle idee, sul piano cinematografico, funzionava alla grande nel 1987 e funziona molto meno cinque anni più tardi, mantenendo in tutti i casi il suo status di pellicola misconosciuta e ignorata. Quindi la vera differenza ideologica che ha spinto William Friedkin a modificare il cut di un film molto buono e sfortunato non è legata a ciò che pensava prima e dopo il 1987 sulla pena di morte bensì a ciò che pensava sul ruolo di un regista nella realizzazione di un film. Anziché essere imparziale e tenere per se stesso ciò che pensa, eccolo lì che mette le didascalie per indirizzare il plauso degli spettatori nella propria direzione etica.