Ricordando Gunnar Hannsen alias Leatherface
La sega è la famiglia
Onore al merito: l’originale tetralogia di Non aprite quella porta, fra alti (il primo e il secondo) e bassi (il quarto), ha rodato una propria teoria di forme che, proprio perché al contempo dinamiche e statiche, ne hanno fatto una delle più coerenti e vitali saghe horror di ogni tempo. Figura centrale, monolitica e insostituibile, è il personaggio di Leatherface, interpretato dall’anzitempo scomparso – due giorni fa, a 68 anni – Gunnar Hannsen, il quale si è guadagnato sul campo gli onori della “hall of fame” del nuovo cinema dell’orrore statunitense, assieme a Freddy Krueger, Jason Voorhees e Michael Myers (nel remake anche faccia-di-pelle ebbe un nome & cognome: Thomas Hewitt). Accanto all’infernale macellaio, col trascorrere degli episodi, sono apparsi nuclei famigliari che, a differenza dell’immutabile forza della natura armata di motosega, hanno subito una serie di importanti variazioni all’interno dei meccanismi della saga: si è partiti dalla famiglia nucleare e allegorica dei primi due lungometraggi (in cui l’unico ad avere un nome anagraficamente accettabile era il padre/The Cook/Drayton Sawyer), per arrivare a quella allargata e superficialmente schizoide del quarto (in cui, non solo ogni personaggio aveva un nome “civile”, ma agiva pure sotto l’egida di un’istituzione statale, benché deviata).
Anche le vittime, pur simili nell’aspetto (tutti giovani, adolescenti e “whitewashed”), col tempo sono mutate: il primo gruppo di ragazzi rappresentava, in modo schematico, la gioventù pacifista e ribelle dei ‘65ers (che si contrapponeva alla reazionaria famiglia di cannibali). Già dal secondo episodio i conti non tornavano più: i due protagonisti (la dj “Stretch”, che riappare in un cammeo cimiteriale nel terzo episodio, e il tenente Lefty Enright) si dimostrano piuttosto combattivi e difficili da ridurre (non tanto metaforicamente); per non parlare del survivor del terzo episodio, che tiene testa agevolmente al gruppetto di affamati antropofagi. Nel quarto episodio, poi, si perde completamente il valore cannibalico della caccia e si sposta l’attenzione sulle meccaniche proprie della paura (peccato che sceneggiatore e regista si siano distratti per tre quarti del film): i cadaveri si contano su poche dita, e alcuni sopravvissuti riescono pure ad arrivare all’ospedale. Su tutto, come una nube di polvere, si deposita un disordine per certi versi primordiale.