Ricordando Sergio Sollima
Il regista che aveva quadrato il cerchio
E’ scomparso ieri, 1 luglio 2015, all’età di 94 anni, Sergio Sollima. Tutto il mondo lo ha conosciuto e celebrato per il successo del Sandokan televisivo con Kabir Bedi. Nocturno lo vuole ricordare anche e soprattutto per il resto della sua carriera.
Abbiamo pianto da pochissimo la scomparsa di Alberto De Martino, e siamo ora a piangere anche Sergio Sollima. Due nomi che non si legano solo dal caso della partenza da questo mondo in date ravvicinate ma che ebbero un legame, di amicizia e professionale, in anni lontani. Lo ricordava proprio De Martino in un pezzo scritto per Nocturno. Si erano conosciuti, De Martino e Sollima, nel 1952, avevano legato moltissimo e avevano addirittura pensato di fare la regia in coppia “come allora facevano Steno e Monicelli: dirigemmo, infatti, due documentari, Intervista al cervello e Turismo col pollice, firmati ‘regia Alberto De Martino e Sergio Sollima’. Avemmo un buon successo, ma la produzione di documentari era destinata a chiudere’. Poi con Sergio, capimmo che riuscire a debuttare in due nella regia era più difficile che debuttare da soli e così rinunciammo al progetto”. Sergio Sollima non siamo mai riusciti a intervistarlo per esteso e come avrebbe meritato il personaggio, su tutta la sua carriera. Abbiamo avuto con lui rapporti rapsodici: Gomarasca dice che da qualche parte, in uno dei Nocturno archeologici, ci deve essere, più che un’intervista vera e propria, una sua lunga dichiarazione raccolta da uno dei nostri collaboratori dell’epoca. Ma forse si sbaglia. Mi capitò di parlare a Sollima quando stavamo preparando una collana per Shendene e Moizzi dedicata al poliziesco, in cui era ricompreso anche Città violenta, il suo noir con Charles Bronson e Telly Savalas, scritto insieme a Lina Wertmuller, in cui era stato operato un tentativo, forse il primo del genere in Italia, di destrutturare il plot. “Destrutturare il plot” fu l’esatta espressione usata da Sollima, il quale raccontava che quando gli proposero per la prima volta il soggetto di Città violenta, lui lo respinse con una certa energia: “Perché mi sembrava veramente stupido, il solito killer che smette di ‘killerare’ perché si innamora della solita “black lady” e così via. Non era allettante, il soggetto come tale, ma con la prospettiva di andarlo a girare in America avrei accettato di fare anche le purghe di Maria Teresa”. Destrutturare il plot era “un tantino azzardato” nel 1970: “Andavamo con molti flashes back, anche se si diceva che i flashes back portano iella. Poi, vai a vedere e tutti i grandi film prevedono dei flashes back”. E Bronson, che faceva per la prima ma non ultima volta nella sua carriera, la parte di quello che in America chiamano un “meccanico”, cioè un sicario a contratto? “Bronson era un rozzo, un ex ‘minatorello’ ma sono stato molto contento di averlo avuto – ricordava Sollima –; non lo sposerei mai, ecco… però abbiamo lavorato molto bene insieme”.
Sollima è naturalmente il Sandokan televisivo, nel ricordo di quasi tutti quelli che riescono immediatamente a collegare il suo nome a un titolo. Noi addetti ai lavori ci spingiamo e dobbiamo spingerci più in profondità. I western con Tomas Milian, la trilogia di Cuchillo, La resa dei conti, Faccia a faccia, Corri uomo corri; e indietro, fino agli spionistici con protagonista l’agente 3S3, Giorgio Ardisson anch’egli buonanima, ormai; e ancora prima, arrivando a Le donne, il debutto alla regia nel lungometraggio, nel 1962, all’interno del film collettaneo L’amore difficile – firmato con Lucigniani, Alberto Bonucci e Nino Manfredi. Ma negli anni Settanta, oscurati dal Sandokan, esistono giacimenti auriferi sollimiani ai quali si ha l’impressione non si sia ancora attinto come meriterebbero. Il diavolo nel cervello, del 1972, da anni introvabile dopo qualche cursorio passaggio a notte fonda sulle reti Rai, è un grande giallo controcorrente, per nulla effettato – imperavano Argento e soci, al’epoca – che Sollima scrive con Suso Cecchi D’Amico e si gioca su personaggi improbabili per il genere ma fatti funzionare al meglio: Tino Buazzelli, Keir Dullea – che aveva addosso la maledizione di 2001 odissea nello spazio –, Stefania Sandrelli. Grande colonna sonora di Morricone che, bisogna dirlo, amplificava la potenza della regia di Sollima con degli score magnifici. Alla fine di Città violenta ci fu un contrasto, su come risolvere la scena in cui Bronson inchioda Umberto Orsini e Jill Ireland mentre sono in un ascensore con i vetri che danno sulla città: “Ennio aveva preparato un bellissimo pezzo musicale per quella scena. Ma dovetti lottare per convincerlo che lì non c’era bisogno di nessun altro suono che non fosse quello delle pallottole che perforavano il vetro. Alla fine la spuntai io: lo avevo convinto lì la musica più bella era quella del silenzio”. Vidi di persona Sollima a un piccolo Festival dedicato al cinema di genere italiano che si teneva a Gradara. Proiettarono Revolver, un suo film meno conosciuto ma non meno valente, sempre nel territorio del noir. Con Oliver Reed e Fabio Testi, legati in una vicenda in gran parte ambientata in Francia, con dei toni di simbiosi quasi omosessuale tra i due protagonisti. Un film sfortunato perché in fase distributiva la società che lo aveva preso in carico lo dovette cedere a un’altra e quindi la sua circolazione nelle sale fu abbastanza tormentata. Un film che si finisce di vedere con il nodo alla gola, disperato, con uno spleen che è obiettivamente raro trovare inoculato dentro storie tanto dure. Strinsi la mano a Sollima a fine proiezione e mi accorsi che anche lui, come tutti gli altri spettatori, era commosso. Non vedeva Revolver da anni: “Un film d’azione particolarmente maudit, che non è andato bene, misteriosamente. Ebbe una bizzarrissima gestazione e poi pagò lo scotto di una distribuzione fallita in fase di uscita del film, che fu ceduto a un’altra società. Non era una cosa per la quale passare alla storia – minimizzava Sollima –, era un film d’azione che però, commercialmente, avrebbe potuto funzionare”.
Sandokan ebbe anche una ridondanza cinematografica oltre al riaggiustamento per adeguarlo al metraggio in sala del montaggio televisivo, con la Tigre è ancora viva: Sandokan alla riscossa. Parliamo invece dello splendido Il corsaro nero, sempre con Kabir Bedi e Carol André, che metteva i brividi vedendolo allora, nel 1976, in sala, e mette i brividi oggi quarant’anni dopo, quando si ascolta Bedi pronunciare la battuta: “Ho stretto un patto con un alleato molto potente!”, riferendosi al Diavolo, che nella notte tempestosa dell’Oceano gli porta subito come regalo la nave di uno dei suoi nemici. Sollima era un esperto nel girare film per i quali non riesco a trovare migliore definizione di “quadrati”, anche nel senso che quadravano il cerchio della sintesi tra il cinema di genere e il cinema che nutriva ambizioni più elevate, quello che si chiama d’autore. Autore Sollima lo è stato certamente, ma non c’entrava niente, questo, con il cinema che egli ha praticato. L’autorialità è una condizione dell’essere e non certamente funzione di quel che si sceglie di mettere su pellicola come tema. Un’altra parte un po’ carsica, con gli occhi profani dell’oggi, nell’attività di Sollima è quella legata ai lavori per la televisione, che contraddistinsero negli anni Ottanta la sua carriera di regista. Anche qui, a parte il più noto I ragazzi di Celluloide, ci sarebbe da fare archeologia tra Uomo contro uomo, Passi d’amore, Solo per dirti addio, fino alla crux desperationis di Il figlio di Sandokan, la serie del 1998, l’ultimissimo lavoro in assoluto di Sollima, che non abbiamo, purtroppo, mai visto trasmessa per controversie legali.