Roberta Garzia: la rossa stupisce…

Zigzagando in una carriera mossa e fiammeggiante
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La mattina in cui la dovevo intervistare, mi sono trovato il suo volto nella pubblicità di un Postamat. Un segno… Roberta Garzia, da quando venne lanciata in Camera Café, staziona nella mente di chiunque con l’inconfondibile precisione di una presenza “segnante”. E il suo segno è il rosso: colore e movimento associati, così nel look come nell’espressione di sé. Sugli schermi e oltre gli schermi. Oltre gli schemi… Ha in uscita diversi film e cova un progetto segreto: la prima delle sue “seconde occasioni”…

… Ma noi abbiamo un’amica in comune, anche se non ci siamo mai incontrati di persona, giusto? 

E sì, Marina Loi! Marina, infatti, mi parlava sempre di te qualche anno fa: stavate facendo qualcosa insieme… 

Stavamo facendo una sitcom, che purtroppo non è mai uscita. Ed è stato un peccato, perché era una cosa molto carina. Ma ci sono stati dei problemi con la produzione, non so quali guai siano intervenuti. Alla fine rimase bloccata. C’era anche Barbara Foria, però… niente, si arenò. Ma era molto divertente, peccato. Una delle tante cose che non escono: non è l’unica cosa che ho fatto e che rimasta nel limbo.  

Ecco, visto che siamo sull’argomento di lavori ai quali hai partecipato e di cui si è persa traccia: trovo nella tua filmografia una cosa che risulti avere fatto con Francesco Cinquemani che si intitolava The Place, risalente al 2012… 

Sì, tra l’altro è proprio notizia di queste ore la scomparsa di Francesco, un fulmine a ciel sereno. Mi dispiace moltissimo, perché l’ho conosciuto bene, avendo lavorato spesso insieme… Facciamo un passo indietro: con lui io avevo fatto, nel 2010, se non sbaglio… più o meno… sì erano quelli gli anni, un programma di intrattenimento che si chiamava Virus, a metà tra sitcom e programma di informazione sul cinema, con il quale siamo stati in ballo per cinque edizioni, mi pare, facendoci i vari Festival e iniziando proprio dal Festival di Venezia. Abbiamo fatto Cannes, abbiamo fatto anche Cortina, il Festival di Venezia appunto, anche per due o tre edizioni. Lì io ero in coppia, all’inizio, con  Gip, quello delle Iene. Fu una cosa molto bella, devo dire. Un programma intelligente, per Rai Movie. Poi cambiarono i capi a Rai Movie e Virus si interruppe. Però da quella cosa nacque uno spin off di Virus che divenne una vera e propria sitcom: a Francesco venne l’idea di questo The Place, che all’inizio fu una sorta di “pilota”. Era un thrillerone, mezzo horror, di quelli che piacevano a Cinquemani. C’erano alcuni attori presi da Virus e anche Roberto Ciufoli. Poi, però, The Place è diventato un’altra cosa: lui lo ha realizzato in America, prendendo attori americani, tipo Alec Baldwin e non so quali altri. Ne ha fatto una sorta film. Nasceva come progetto italiano ma poi ha avuto questa “mutazione”… 

(Foto Beniamino Finocchiaro)

Al netto di tutta la tua ricca carriera, c’è un sacco di gente che ti ricorda per Camera Café 

Ebbene sì (ride), pregi e difetti o vantaggi e svantaggi… 

Stiamo parlando del 2003, 2004… 

Sì, bravo, erano quegli anni. Camera Café arrivò in un modo del tutto imprevisto, nel senso che non me l’aspettavo proprio: ricordo ancora che feci un provino in estate. Ma tipo a inizio estate, forse era giugno. Mandarono anche la lettera, che avevano preso visione del mio provino, eccetera eccetera. Però sai, poi passa un mese e tu te lo dimentichi. Mi chiamarono ad agosto. Io ero appena tornata da Cuba, tra l’altro zoppicante, perché mi ero fatta male a un piede. Mi dicono di andare a Milano e io ero titubante, perché credo che fosse il 16 o 17Agosto. Dico: “Ma che vado a fare a Milano, adesso, per fare un ennesimo call-back?”. Ero un po’ diffidente, dico la verità. “Ma no, non hai capito: ti vuole vedere il regista! Vieni subito su, sei tutta spesata, ti dobbiamo vedere!”. Insomma, io salgo a Milano e non sono più scesa. Quello di Gaia è un personaggio che ho amato molto e che ancora adesso, come giustamente dici, mi è rimasto un po’ addosso. Tanti mi riconoscono ancora per Gaia. Mi ha insegnato anche tanto… E  pensa che io ero andata per Ilaria, dovevo essere un altro personaggio, ma poi si resero conto che ero più giusta per Gaia. In effetti è così, perché è un personaggio più solare, stronzetta però solare, e mi ha insegnato molto, devo dire. Gaia era particolare, aveva questa ironia un po’ tagliente, un po’ cattiva. Tirava fuori un lato di me che invece non c’è, in realtà. Ecco, ho imparato da lei, certe sottigliezze le ho imparate da Gaia (ride).  

Riandando un attimo agli inizi inizi: la fascinazione per il mondo dello spettacolo, dell’arte, com’è che è cominciato tutto? 

Rimarrà sempre un grande interrogativo. Come lo fu per mia madre che (poverina, non c’è più), quando le dissi che volevo fare l’attrice… questo quando facevo il ginnasio, rimase basita, perché io ero una bambina super timida: “Com’è che è questa vuole fare l’attrice? Da dove le viene?”, visto che mi vergognavo di ballare pure alle feste. Sai, io credo che spesso accada che la timidezza e la voglia di salire su un palco e di esprimere se stessi, siamo due facce della stessa medaglia. Ero timida, veramente una bambina introversa, credimi.  Mia madre mi ha mandata ai corsi di ballo, ha cercato di tirarmi fuori da questa situazione, perché era preoccupata per quanto ero timida. E credo che, però, quella timidezza facesse da contraltare, in realtà, a una voglia di esprimersi, una voglia di creatività. E quindi, a un certo punto, io ho espresso, al ginnasio, la voglia di fare teatro. Tanto che mia madre mi mandò a un corso di recitazione, sai di quelli di quartiere… anche se un po’ particolare, perché era fatto con i carcerati di Rebibbia. 

Oddio… 

Beh, fu una cosa anche sociale… Parliamo di carcerati tipo politici, gente perbene, comunque. E da lì è cominciato. Poi, finito il liceo, mi sono iscritta a una scuola di recitazione professionale. Non ho frequentato la Silvio D’Amico, perché mia madre ci teneva al “pezzo di carta”, alla laurea. Quindi mi sono laureata, contemporaneamente, in Lettere moderne, indirizzo spettacolo. Quella che oggi è il Dams,  all’epoca non si chiamava così, ma Lettere moderne indirizzo spettacolo. E ho continuato a studiare, facendo anche dei workshop… In sintesi, fu una passione che probabilmente nasceva in questa bambina che si sentiva un po’ compressa, intimidita, e che però aveva voglia di esprimersi. Perché, tu pensa, io imparavo tutte le pubblicità a memoria: le pubblicità le sapevo tutte a memoria. Mi piaceva raccontare la poesia e la ricettina di Natale, quindi controbilanciavo… Ah, ecco, ci fu questo di fondamentale, stavo dimenticando un passaggio importante: nel 1981 presi parte a uno spettacolo teatrale, per pura casualità, con la regia di Aldo Terlizzi. Si intitolava Bambini cattivi e tra gli attori protagonisti c’era Pietro Longhi, l’attuale direttore del teatro Manzoni. Che all’epoca era collega di mia zia al Ministero delle Ferrovie dello Stato. Lui chiese a mia zia se conoscesse dei bimbi da inserire in questo spettacolo in cui ne servivano tre o quattro. Così, presero me, mio fratello più piccolo e mio cugino. Da lì mi si aprì un mondo, da questo spettacolo, con cui facemmo anche delle piccole tournée. Il seme fu quello, che negli anni ha continuato a crescere, finché al ginnasio espressi il desiderio di fare l’attrice. Proprio stamattina ne parlavo con mio cugino, che era uno dei bambini dello spettacolo di Terlizzi. Lui ha intrapreso un’altra carriera, è un po’ più grande di me, ma ha sempre avuto il germe della passione. E adesso, a più di cinquant’anni, ha cominciato a fare teatro… 

(Foto Beniamino Finocchiaro)

Operativamente, come hai cominciato a lavorare? Qual è stato il primo passo?  

Il primo step è stato il teatro: dopo la scuola di recitazione, la Teatro azione, di Isabella del Bianco e Cristiano Censi, cominciai a fare teatro. Anzi, prima feci parte di un gruppo di cabaret, che si chiamava Le tutte esaurite. Facemmo un po’ di spettacoli, girammo per piazze eccetera eccetera. Poi arrivarono i primi spettacoli teatrali, con la regia di Massimo Milazzo. In quegli anni lavoravo spesso al Teatro dei Piccoli, in via Beniamino Franklin, qui a Roma, poi ho cominciato a fare anche provini per la televisione. In contemporanea, lavoravo come presentatrice, per Gambero Rosso, per la 7, condussi un programma in coppia con Corrado Tedeschi. Ma quello che mi ha dato il lancio è stato proprio Camera cafè. In quell’occasione, mi sono trasferita a Milano, dove ho vissuto cinque anni. 

Invece il primo film, Roberta, qual è stato? Ma quando arrivano le ragazze? di Pupi Avati

Sicuramente tra i più importanti, sì, fu quello di Pupi Avati. 

Ma avevi già messo un piede nel cinema, avevi già cominciato a fare delle particine? 

Sì… mi ricordo Il regalo di Anita, in quel periodo, un piccolissima parte. Forse avevo già fatto della fiction. Insomma, un po’ di cosettine le avevo già fatte, ma il primo film importante è stato quello di Pupi Avati. Facevo già Camera cafè, all’epoca, e contemporaneamente anche Un posto al sole. Più o meno era il 2005. Poi, a un certo punto bisognava scegliere: Mediaset o Rai e io scelsi di fare Camera cafè… Pupi Avati mi insegnò tante cose, perché anche se il ruolo non era molto esteso, lui, da grande regista qual è, dedica a tutti quanti i personaggi attenzione. Mi insegnò un po’, insomma, a recitare nel cinema, che è un pochettino diverso. 

(Foto Beniamino Finocchiaro)

C’è una differenza rispetto alla televisione?  

La differenza, dal mio punto di vista, esiste certamente rispetto al teatro. Mentre oggi si è invece un po’ più assottigliata quella tra cinema e fiction. Perché le fiction sono diventate molto più cinematografiche e l’offerta delle piattaforme ha avuto il suo peso, anche per la presenza dei modelli stranieri, che hanno standard elevati e bisogna stare al passo. Prima questa differenza era più evidente, adesso, devo dire, sempre meno: molte fiction assomigliano più ai film, anche nello stile. Il problema talvolta è legato ai tempi di realizzazione, che nelle serie tv sono per forza più rapidi, per cui può essere che qualcosa si perda. Si perdono delle sfumature… 

Fin qui tutto bene? di Cosimo Bosco è un lungometraggio che ti vede, adesso, tra i protagonisti, in un ruolo dove il tuo registro brillante lascia il posto a un’interpretazione, all’opposto, molto drammatica, cupa, nevrotica: un personaggio complesso e immagino non semplice da rendere…   

Cosimo Bosco era alla sua opera prima, anzi era la seconda, perché aveva già realizzato una parodia degli Avengers

Avanzers – Italian super heroes, sì, ed era stato coinvolto anche in un’altra commedia a carattere parodistico-surreale, Anatar 

Fin qui tutto bene?  racconta qualcosa che lo ha toccato in prima persona, perché è la storia vera di sua madre, che durante il Covid si è tolta la vita. Diciamo che, nella sceneggiatura del film, lui ha un po’ romanzato i fatti, nel senso che non ha raccontato per filo e per segno la vicenda. Che infatti viene presentata come “ispirata” alla sua storia, quindi alcune cose, alcuni particolari sono cambiati. Però, in sostanza, è quello che gli è accaduto durante il Covid. Un tema duro, aspro e io mi sono trovata a interpretare proprio sua madre. 

Infatti, tu hai addosso quel personaggio, che è un personaggio assolutamente focale, rispetto alla vicenda… 

Che lui racconta dal suo punto di vista, dal punto di vista del ragazzo protagonista, che è il suo alter-ego, Francesco Isasca 

Che tra l’altro è molto bravo… 

Sì, è molto bravo, e questa è una delle sue prime cose importanti… Abbiamo girato il film nel 2023 e di recente, a novembre, al Bloody Festival di Roma sono stata premiata come miglior attrice non protagonista di Fin qui tutto bene?, che ha ricevuto il riconoscimento come “Miglior Thriller”. Anche Maurizio Mattioli, che nel film interpreta mio marito, e la ragazza protagonista, Marta Moschini, sono stati premiati. Entrare nella pelle di questa donna non era per niente facile, ma sono stata felice di essere stata scelta per confrontarmi con un ruolo veramente drammatico e, diciamo pure borderline. Significava staccarmi dai cliché della commedia, del registro più brillante… Anche se mi era già capitato di affrontare ruoli fortemente drammatici. Nella serie tv L’allieva facevo una madre a cui è morto il figlio, quindi anche lì non era una passeggiata di salute. Anche in Crimini 2 avevo un ruolo abbastanza intenso, però devo dire che una prova così importante come nel film di Bosco non l’avevo mai affrontata. E quindi ne sono contenta. 

 

Roberta Garzia, Maurizio Mattioli e Francesco Isasca, Fin qui tutto bene?

È difficile, quando si ha l’etichetta di attrice brillante, non dico scrollarsela di dosso, perché quella è la capacità dell’attrice, ovviamente, la sua versatilità, ma proprio, pragmaticamente, trovare ingaggi che vadano in direzione opposta, nel senso del drammatico, dell’intenso?  

Per me sì, il problema esiste. Ed è un problema non tanto dell’attore, ma di chi chiama l’attore. Perché, comunque, è vero, tendono a vederti sempre un po’ con quell’etichetta che ti trovi appiccicata. Sì, sì, sì, non c’è niente da fare. Anche, forse, per comodità. È più facile per chi ti deve scegliere: “L’ho vista in quella cosa, allora va bene, funziona!”. Senza essere polemici, se noi vediamo anche la fiction, spesso troviamo lo stesso attore che fa prodotti differenti, ma, più o meno, il personaggio è sempre quello. Quindi, perlomeno nel nostro sistema cinematografico e televisivo, l’andazzo è un po’ questo. Infatti spero che, di fronte a questo film, magari qualcuno dica: “Ah, vedi che può fare pure cose drammatiche, la Garzia?”.  

Come ti sei preparata, anche psicologicamente, per entrare nella figura di questa donna, di questa madre sopraffatta dalla nevrosi, dalla paranoia del Covid, fino alle estreme conseguenze? 

Non è stato semplice. Diciamo che qui, in modo particolare, è stato un po’ un gioco di specchi, perché io sentivo, non dico un doppio peso, però due emozioni differenti: cioè da un lato mi immedesimavo nei panni anche del regista, per il quale interpretavo la madre e quindi io da madre – sono diventata mamma tre anni fa – in qualche modo pensavo a questo figlio che vede la madre, che sarei io, in quel momento, che sta rappresentando una cosa che gli ha provocato un grande dolore…  

Un gioco di specchi, appunto, di riverberi emozionali… 

Eh sì: mi rivedevo, io, come madre, quello che ho provocato a mio figlio. E poi, contemporaneamente, pensavo a mia madre, che morì quando ero molto giovane, avevo 22 anni: per cui, ti dico la verità, sono stata proprio travolta da tutta una serie di emozioni, forti, che mi hanno, però, aiutato a entrare in questo personaggio. È stato davvero un gioco di specchi incredibili. Per me era molto importante guardare Cosimo perché lui vedeva sua madre, e quindi, io, quando facevo una scena, guardavo Cosimo e da lì capivo se l’avevo toccato o no. Non dimentichiamoci che per lui era qualcosa che aveva vissuto in modo diverso. Non abbiamo parlato tantissimo. All’inizio, io lo guardavo e da lì capivo: è stato molto bello, molto profondo. E anche adesso, quando ci siamo rivisti, ho visto suo padre, credo di avere compreso che questo film sia stato molto catartico, per lui e per tutta la sua famiglia. 

Il tuo personaggio, nelle prime scene domestiche, con il marito, parte abbastanza lieve, è delineata, questa donna, con una personalità solare, frizzante e poi man mano avviene il declinare nella paranoia, nella nevrosi ossessiva. Anche questo è molto efficace, perché ti coglie alla sprovvista… 

Eh sì, lei entra in un tunnel… Era una donna che aveva sicuramente delle fragilità importanti, questo è ovvio. Ora, nel film, essendo raccontata la storia dal punto di vista del ragazzo, chiaro che non è stato forse tutto sviluppato, però, come dici tu, c’è questo ingresso nel tunnel, fino alla paranoia. E per questo si è voluta sottolineare la parte iniziale, più allegra, più leggera, per non dare l’idea di una persona che stesse già così e dalla quale ci si potesse aspettare una cosa del genere. La verità è che coglie tutti quanti alla sprovvista, perché non c’erano stati segni o, comunque, quei segni non sono stati interpretati. Ecco perché parte in una maniera molto leggera per poi debordare nella paranoia: alla fine, è una persona che non ragiona più, vede il giornalista dappertutto, cerca persino di uccidere il marito. 

Il ragazzo, dopo che ha perso la madre, comincia a sbandare, ad entrare in un mondo che è anche percorso da allucinazioni, da ossessioni. Una trasfigurazione di fiction o qualcosa che lui ha davvero sperimentato? Il dubbio viene… 

Non te lo so dire. Questa è una parte, diciamo, privata, sua. Probabile che abbia covato tanta rabbia, e questo è stato un modo per esternarla, per oggettivarla… È inevitabile che ci fosse tutta quella rabbia, in lui, no? Un figlio pensa: “Mamma, ma perché l’hai fatto? Non hai pensato a me?”. Immagino che il meccanismo psicologico, emotivo, fosse un po’ questo… Ecco perché ti dicevo che è stato un gioco di specchi. Io da madre dico: “Ma io lascio mio figlio”? Pensa a cosa è scattato in questa donna per arrivare a un gesto simile. Perché tu, da mamma, la prima cosa che pensi è: “No, io non posso lasciare mio figlio!”, anche se è grande. Già la rabbia, davanti a qualsiasi lutto, è presente, perché comunque c’è, una mancanza di perdono. Ripeto: ho perso mia madre a 22 anni, per un tumore, però all’inizio la rabbia ce l’hai. Di altro tipo, però ce l’hai… 

Roberta Garzia con la crew di Io non sono nessuno

Fin qui tutto bene? ora attende la fase distributiva, come anche altri film che hai interpretato nel passato prossimo. Come La volpe e l’uva.  

Sì, di Pier Maria Cecchini. L’ho girato sempre a seguire, dopo quello di Cosimo Bosco, nel 2023. Lo abbiamo fatto in Toscana, con Cecchini regista ma anche protagonista, ed è una bella storia, però non è uscito ancora, per via di qualche inghippo produttivo. Siamo in attesa. So che è stata fatta una bella colonna sonora, da Davide Cerqueti. Quindi lo stanno portando avanti, speriamo che si sblocchi. 

Io non sono nessuno è un altro film recente, ispirato alla prima donna che in Italia dichiarò pubblicamente il proprio lesbismo… 

Sì, Maria Silvia Spolato, interpretata da Erica Zambelli. Con la regia di Geraldine Ottier: bella storia, vera, forte. Un’opera d’autore che sta ottenendo vari riconoscimenti internazionali, in Brasile, al For Rainbow ha vinto come miglior colonna sonora. Adesso abbiamo partecipato a Firenze, al Queer Festival. Uscirà ufficialmente in occasione della Festa della donna, quindi a Marzo. Io nel film interpreto Gianna, la fondatrice del movimento femminista, una donna forte ma che allo stesso tempo, in quel contesto ha il maggior senso di maternità. Anche questo è un ruolo serio: c’è una scena un po’ drammatica con la protagonista che anche lì esce di testa. Maria Silvia Spolato piano piano viene emarginata, viene lasciata da sola, tanto che morirà da mendicante, dopo essersi ridotta a vivere sui treni. Anche la madre non la riconosce più, le chiude la porta in faccia. Lei era una professoressa di matematica, molto brava. Viene allontanata da tutti, dalla scuola, dalla madre. E alla fine anche dal Movimento, che comunque le era stato vicino… perché lì succede qualcosa, lei si innamora di una ragazza, ha una storia con lei… E io, Gianna, sono quella che la comprende, animata da spirito materno. Ho una scena con lei dove cerco di aiutarla però, alla fine, la mente umana, quando parte, parte. 

Saltando nel tempo: hai fatto anche un film con Franco Nero: Calibro 10… 

Sì, di Massimo Ivan Falsetta. Diversi anni fa. Lì facevo il ruolo di una taxista e caricavo a bordo uno dei coprotagonisti. Era un ruolo serio, un po’ poetico, se vuoi… Purtroppo, anche quel film non ha avuto i dovuti riconoscimenti. Sai, uno le cose le fa, ma, purtroppo, ogni volta che fai un film per il cinema, in Italia, poi non sai mai quale sarà la sua sorte… 

Roberta Garzia con Marina Marchione sul set di Io non sono nessuno

La distribuzione resta la grande pietra d’inciampo, in Italia. Se ne lamentano tutti, grandi e piccoli… Invece, mi è capitato di vedere Mi rifaccio il trullo 

(ride), un filmetto, però molto divertente. Ma Un figlio a tutti i costi, lo hai visto? È un film di cui sono protagonista femminile, scritto e diretto da Fabio Gravina, del Teatro Prati. Era una bella commedia, io dico “familiare”, un film di Natale anche, se vuoi. Racconta il desiderio della donna, che io interpreto, di avere un figlio a qualunque costo. Alla fine, anche vessando il marito in tutti i modi possibili e immaginabili. Una commedia divertente con degli spunti di riflessione sulla maternità: fin dove è giusto spingersi per avere un figlio? Chiaramente il rapporto entra in crisi, in questa coppia, addirittura arriveranno quasi a lasciarsi. Lei si spinge fino al punto di chiamare a casa un donatore, che ha un catalogo dove si possono scegliere i bambini: “Come lo vuoi? Lo vuoi di colore?”. In realtà, lei fa questo per provocare il marito a darsi una mossa. C’è tutto un ballo fighissimo, una sorta di tango… Insomma, fa ridere, è una commedia che in alcuni momenti vira un po’sul surreale. Devo dire che anche in quel caso non abbiamo avuto i giusti riconoscimenti, perché il film è uscito in poche sale. Se non sbaglio, credo sia su Prime adesso…  

Fu una delle varie occasioni in cui hai lavorato con Maurizio Mattioli, che anche in Fin qui tutto bene? interpreta tuo marito… 

Come no? Un sacco di volte siamo stati sullo stesso set e lui fa sempre mio marito, anche in Italian Business. In Un figlio a tutti i costi interpretava vari personaggi: lo psicologo, il pilota, il pranoterapeuta… mi ha fatto morire dalle risate. E sempre parlando di cinema, una cosa molto carina, un cammeo veramente divertente, lo feci in Al posto tuo, quel film con Stefano Fresi e Luca Argentero. Veramente una chicca, devo dire.  

Roberta Garzia, Lorena Cacciatore e Claudio Insegno, Mi rifaccio il trullo

Tu sei sempre stata rossa, nei film? Colore e taglio dei capelli, tra l’altro, ti caratterizzano molto… 

Adesso è un periodo in cui sono un po’ più bionda. Per errore del parrucchiere (ride) 

Cioè? 

Eh, volevo essere più scura e invece sono diventata quasi bionda. Però, devo dire che almeno per le pubblicità, è un colore che aiuta, mentre il rosso, che – è vero – mi caratterizza molto, è un po’ più “aggressiv”. E invece il biondo, un biondo caldo, comunque sempre ramato, mi aiuta un po’ di più. Infatti, ho detto: “Vabbè, ha sbagliato, però alla fine mi torna pure utile”.  

Guarda, sto vedendo in questo momento una foto di te con Guè Pequeno in All Night Long e lì mi pare che fossi più sul biondo… 

No, nel film di Gianluigi Sorrentino mi pare che fossi sullo scuro. Anche quella è un’opera prima, perché io, poi, lavoro più facilmente (guarda caso) nel cinema indipendente dove ancora ti permettono di fare i provini e quindi magari ti scelgono perché sei giusta, perché fai bene il provino. Quello è stato un film interessante, una buona intuizione da parte del produttore Salvatore Scarico, con il quale ho lavorato varie volte, il quale prese una serie di rapper, c’erano anche Clementino, Ntò, e ha fatto questo film di genere malavitoso. Io ero la moglie di Pequeno, quindi una grande femmina mafiosa. Fu un bell’esordio alla regia di Gianluigi Sorrentino, che poi però non so che altro abbia fatto… Nei circuiti indipendenti, so che è girato parecchio ed era interessante e divertente, per chi ama il genere… 

Roberta Garzia, Guè Pequeno, All Night Long

Nella tua filmografia figurano anche molti cortometraggi… 

Sì, ho interpretato diversi corti. Proprio adesso ne dovrebbe uscire uno che ho girato quest’estate, l’hanno appena finito di montare ed è molto carino. Faccio una suora: è la storia, surreale ma divertentissima, di questo tizio che rimane vedovo, ma non vuole stare da solo e vede al telegiornale una suora, che sarei io e che mi occupo di adozione dei bambini, che dice una frase del tipo: “Nessuno deve rimanere solo, quindi adottateli”. Lui si presenta nel mio convento, “per un’adozione”, dice. Ma scopro che è lui che vuole essere adottato (ride). 

Ragu noir aveva un titolo curioso: di che parlava? 

Parla di avvelenamento…Era un noir, perché c’è una cena fra amiche dove si inscena un finto avvelenamento, ma, in realtà, muoiono tutte quante le presenti solo per tirar fuori la verità a una di loro… Insomma, una trama un po’ intricata. Devo dire, un bel corto che ha avuto pure una buona circolazione. Ma uno di quelli più belli per me è stato Rec Stop Play, con il quale ho vinto anche un premio come migliore attrice non protagonista in Sicilia. Raccontava di storie separate, che alla fine si uniscono: io sono una donna che è in libertà vigilata e fa un lavoro socialmente utile, in una tintoria. Una bella storia in cui si innesta anche la vicenda di un ragazzo disabile, con un padre che cerca di comunicare con lui con un telefono senza fili. Ti consiglio di vederlo, perché è davvero molto particolare.  vA un certo punto,engo corteggiata da un ragazzo, come parte di questa trama frammentata che alla fine si unisce… Ma sai che adesso sto pure cercando di fare il mio film?  

Un “tuo film” nel senso scritto e diretto da te? 

No, solo scritto, con Cinzia Berni, che è un’attrice ma soprattutto autrice, sceneggiatrice. All’epoca facevamo insieme uno spettacolo teatrale, e io ebbi l’idea per un film. Gliel’ho raccontata, le è piaciuta e quindi abbiamo scritto questa sceneggiatura. E adesso sto cercando di farmela produrre… Si intitola Ley, che gioca tra il pronome personale e il nome di un locale. Non posso dirti nulla di più, per il momento. Produrre un film è altrettanto se non più complicato che distribuirlo: devi trovare qualcuno che ti dia fiducia. Io sarei dentro anche come attrice. Ci stiamo provando… 

Hai mai pensato di cercare in direzione dell’estero? 

Guarda, ci ho pure pensato, sono sincera. Anche perché ho fatto per l’estero una pubblicità, e pare che io abbia una faccia che funziona molto all’estero. Sai cos’è? La mia vita è sempre stata segnata da alcuni eventi, sono sempre stata “distratta” da qualche altra cosa, quando ho pensato di buttarmi in certe direzioni: prima la morte di mia madre, dieci anni dopo, la morte di mio padre, che non volevo lasciare solo… quindi magari non sono riuscita a cavalcare alcune ondate. Io lo vedo dalla pubblicità che, spesso, quando i registi sono stranieri mi scelgono: è una cosa di cui mi accorgo sempre… 

Eh certo, il tuo fenotipo è così particolare! Sei molto identificata, molto peculiare, con questo tuo modo di essere, con questo look. E mi confermi che all’estero ne restano colpiti… 

Feci dei workshop all’epoca con Geraldine Baron, e con degli americani, qui in Italia, e pure loro me lo dicevano: “Ma tu devi venire da noi, perché sei perfetta!”. Però, poi, la vita… mi è nato anche un bambino, tre anni fa…  Diciamo che io sono un tipo che o piace o non piace, cioè quando mi scelgono, è perché proprio tum!, perché non mi sono mai omologata: i capelli sempre molto particolari, tanto il colore quanto il modo di portarli, un po’ il mio modo di essere… E sai, io oggi mi occupo molto anche di comunicazione, nel 2022 sono diventata coach e mi occupo tantissimo di public speaking… perché c’è bisogno anche di fare altro e quindi sono entrata nell’ambito della formazione. Ho capito anche quanto è importante come ti poni. Magari, quando ero ragazza alcuni particolari mi sono sfuggiti. Poi c’è da dire anche un’altra cosa. Per le donne non è un mondo facile… 

Eh no, certo, certo… 

Bisogna vedere che tipo sei. Eh, insomma, va detto anche questo. Perché gli incroci ci sono. Ma bisogna poi vedere quale strada decidi di prendere: questa che pare la più semplice o quell’altra? E io preso sempre quell’altra… (ride). Comunque, credo molto nelle seconde occasioni. Sono una che ha avuto un figlio a 48 anni, così, quindi io credo ancora nelle seconde occasioni. È cominciata la seconda parte della mia vita. Chissà che non arrivi! È vero! Io ci credo…