Romano Montesarchio: dentro Glory Hole

A colloquio con il regista di un grande thriller che prende alla gola

Romano Montesarchio ha diretto Glory Hole, in distribuzione nelle sale a luglio. Un thriller con al centro un colletto bianco della camorra, Francesco Di Leva, in fuga da un “peccato originale” che lo porta a nascondersi in un bunker. Dire di più è inutile, perché il film va visto, soprattutto se si ama restare annichiliti dai racconti che prendono alla gola e che impregnano. Impregnano nelle profondità di qualcosa simile al buco nero dentro al quale il protagonista si rinchiude, tra memoria, colpa e sogno…  

Nasci e sei cresciuto come documentarista: Glory Hole è un debutto per te nel lungometraggio con una storia di finzione…
Sì, nasco come documentarista, sono stato e sono, ancora, un documentarista fervente. A un certo punto, mi è venuta questa idea che anch’essa doveva partire come documentario, in realtà. Io vivo a Roma ma sono di Caserta, terra di criminalità… “mastichiamo” criminalità, insomma. Affrontando nei miei documentari, spesso, temi legati alla crimine, mi era balenata la curiosità di indagare nei luoghi che sono più peculiari, all’interno di questo mondo, soprattutto per i latitanti. Cioè, la vita dentro un bunker. Ci sono boss che passano la loro vita, se non sono in carcere, a nascondersi in rifugi-bunker. Ora: il bunker è un luogo difficilmente accessibile e mi era rimasta la curiosità, dopo un’enorme ricerca che avevo fatto nel corso degli anni per capire, sondare le metodologie di costruzione di questi rifugi segreti e la vita al loro interno. E pian piano mi cominciò a fermentare l’idea di questa storia, su come si possa portare avanti un’esistenza in un simile sistema chiuso. Idea che è poi diventata Glory Hole.

Quindi, la sceneggiatura è tua?
Il progetto di partenza è mio, assolutamente. Poi ho coinvolto altri due sceneggiatori, che sono anche due amici, Stefano Russo, sceneggiatore di professione, e Edgardo Pistone, che è anche lui un regista, ha fatto un corto, Le mosche, che ha vinto anche alla Settimana della critica, un paio di anni fa, e adesso ha diretto un film, Ciao bambino.

Mi ha colpito molto, e scusami se sono banale, la regia di Glory Hole: esiste oggi un genere, e lo sai meglio di me, che è quello che si è sviluppato dopo Gomorra et cetera. Si fanno molti film su tale linea. Però, devo dire che qualcosa come Glory Hole registicamente non l’ho vista. Forse gioca molto il tuo occhio di documentarista. La regia è potente, anche il montaggio, ma proprio la regia. E questa è la prima cosa a saltarmi negli occhi. La seconda cosa è lui, Francesco Di Leva. L’avevo visto e lo ricordavo, tra gli altri, nel Sindaco del Rione Sanità, ma qui devo dire che è eccezionale…

Francesco Di Leva è stata una scelta immediata. Nel momento in cui ho pensato a un attore per quel ruolo, insieme a Gaetano Di Vaio, il produttore, ho subito detto che Di Leva era quello più giusto. Primo, per come è lui, e poi soprattutto perché Francesco è un attore un po’ anacronistico nel panorama italiano: viene dalla strada, da un percorso assolutamente originale: è della periferia di Napoli e faceva il panettiere fino a un po’ di anni fa. Non arriva dal mondo del cinema.

Francesco Leva

Francesco Di Leva

Anche perché dal punto di vista della recitazione è perfetto… Si vede che ha questo dono naturale…
Sì, ma ha studiato tanto. Fece il film di Cupellini, Una vita tranquilla, e da lì poi ha pensato che la recitazione potesse diventare il suo lavoro. Ci si è dedicato, ha conosciuto Martone che gli ha dato tante belle opportunità, appunto Il sindaco del Rione Sanità e poi Nostalgia, per il quale ha preso anche un David di Donatello. E oggi è parecchio quotato. A me lui piaceva, intanto, per la sua fisicità, per come “indossa” il personaggio. Nel momento in cui gli ho parlato di questo film che avrebbe avuto a che fare anche con l’onirico, oltre che con il mondo criminale, ha subito capito di cosa stessi parlando, proprio perché nel suo retaggio personale, umano, ha quei codici, di quei personaggi, soprattutto i colletti bianchi, sa benissimo come si comportano, tant’è che ha dato tantissimo, anche in scrittura. Io gli ho fatto firmare anche una collaborazione alla sceneggiatura. Glory Hole è stato un film per lui molto difficile, perché è in scena sempre, dalla prima all’ultima inquadratura. Abbiamo girato in cinque settimane e lui era sempre sul set, anche con  ore di preparazione, perché ha una parrucca, delle protesi sugli occhi, lenti per cambiare colore, quindi aveva un paio d’ore di trucco prima di ogni giornata. Si è dedicato al film, devo dire, in maniera maniacale. Per quanto riguarda la regia, avevo preventivato di fare un film che si scostasse il più possibile dai cliché del documentario. Da un documentarista di lungo corso, normalmente ci si aspetta che faccia qualcosa di grezzo, tipico del documentario… sai, un po’ di pedinamento eccetera. “No!”, mi sono detto: “Se devo fare il salto nella finzione, allora tanto vale farlo fino in fondo. Sono un cinefilo accanito, insegno cinematografia all’Accademia delle belle arti, ho studiato cinema… quindi a quel punto mi abbraccio tutti i miei miti cinefili, da Cronenberg a Lynch a Polanski, per andare oltre a un discorso realistico o neo-realistico. Ho fatto riflessioni stilistiche sulla regia, che abbracciassero anche un po’ il genere thriller-psicologico onirico. Anche perché avevo a che fare con un bunker, che mi piaceva intendere come una materia “viva”, che potesse suggerire al personaggio delle fughe mentali.

Tu evochi questi illustri modelli cinefili, però qui trovo qualcosa di nuovo. Nel panorama italiano capita di trovare, raramente, qualcosa di buono, ma qualcosa di nuovo, anche dal punto di vista della regia, necessariamente colpisce… E ci sono altre cose, dettagli che non passano inosservati. Ti faccio un esempio: quando lui entra nel bunker e comincia a pulire tutto, ha quest’ansia igienista… è un tratto affascinante, che complica e arricchisce l’interpretazione del personaggio. Coinvolge chi guarda nella decifrazione della sua personalità, lontana dallo stereotipo del delinquente che vediamo sempre in un certo genere di film. “Ma chi cazzo è questo qui?”, ti domandi…
Sì, era un intento che mi ero prefissato, di andare un po’ a indagare nella solitudine del personaggio, stargli addosso. Lui è pur sempre un uomo, anche se è un criminale, ma pur sempre un uomo solo all’interno di un nuovo mondo. Che si deve adeguare a sopravvivere in questo contesto. Normalmente, quelli che tu citi, nel cinema sarebbero dei momenti morti… raramente vedi persone che puliscono casa, ma me l’ero prefissata anche questa cosa, dove forse è venuta un po’ fuori la mia predisposizione documentaristica: pedinare in certi anfratti un personaggio che di solito il cinema, per ellissi, eliminerebbe, andando direttamente all’azione, al colpo di scena. No: ho cercato di farlo crescere come figura, impegnandolo in queste pratiche normali, banali. Tra l’altro, quelle scene le abbiamo fatte in un momento preciso delle riprese… Considera che ho girato il film in sequenza, quasi tutto in sequenza. Quindi, siamo entrati nel bunker con lui, piano piano, dopo una serie di scene e mi sono preso il tempo di dire a Francesco: “Adesso, tu, sei un uomo solo qui dentro. Quindi devi mettere a posto questo luogo”. Noi da un punto di vista di scenografia, glielo abbiamo fatto trovare volontariamente sporco, abbandonato. E abbiamo tenuto lì una giornata lui ad annoiarsi, a prendersi il tempo per riflettere cosa fare… e quelli sono momenti carpiti dell’attore che doveva trovarsi delle operazioni da sopravvivenza, per rendere lo spazio idoneo a soggiornarci. Quindi lui se lo è dovuto mettere realmente a posto.

Romano Montesarchio sul set

Romano Montesarchio sul set

La diluizione del “grande segreto” che viene fuori alla fine, quando riusciamo a capire che cosa ha fatto e perché è in fuga, è un’altra strategia che prende in contropiede…
Sì, la questione è che non volevamo far sapere quale fosse il suo “peccato originale” e da cosa quest’uomo fosse in fuga. Ci siamo detti in scrittura di tenerlo nascosto il più possibile, man mano dipanando il racconto tra ricordi e immagini interiori. Definirlo da subito, il peccato originale, non avrebbe permesso di mantenere una suspense che cercavamo per reggere il personaggio in tanti momenti “morti”. In montaggio, questo aspetto lo abbiamo ancora di più amplificato, cercando di non scoprire mai le carte. Giocando sulla storia d’amore con la ragazza, la figlia del boss, che viene presentata solo dopo un po’ nel film. Prima vediamo solo un personaggio in fuga e delle persone che lo aiutano. Ma nel momento in cui lui entra nel bunker, vediamo anche la prima scena con la ragazza, nei suoi ricordi.

La ragazza è Mariacarla Casillo: è pure lei è brava, la petite…
Sì, ed è l’unica per la quale ho fatto dei casting. Nel senso che gli altri attori già li avevo, a cominciare da Francesco Di Leva. Roberto De Francesco che fa il proprietario del night-club, questa sorta di mamma perversa che fa da coscienza malsana a Francesco. Anche Roberto è casertano come me, ed è un attore che amo da tempo. E lui accettò subito di essere questo personaggio ambiguo. L’altro attore è Mario Pirrello, il prete, e avevamo deciso insieme al casting di prendere lui tra una rosa di scelte possibili. Invece, per Mariacarla ho fatto un casting, perché mi serviva un’attrice giovane, più o meno ventenne. Bravissima attrice, per quanto giovane, aveva al tempo stesso le caratteristiche anche umane per interpretare una ragazza che fosse angelica ma al tempo stesso tentatrice.

Il boss, suo padre, è invece il produttore, Gaetano Di Vaio
Sì, era, purtroppo, perché Gaetano è venuto a mancare un mesetto e mezzo fa, per un incidente stradale. Era un grande produttore che a Napoli ha sempre attenzionato operazioni al di fuori dei circuiti commerciali. Lo conoscevo da molti anni, essendo stato il produttore anche di molti miei documentari, e nel momento in cui gli avevo proposto Glory Hole mi aveva detto che mi avrebbe aiutato. Non so se conosci la sua storia? Lui era un ex carcerato, da giovane aveva trascorso molti anni in carcere per spaccio di droga e rapina a mano armata. Quando uscì, si dedicò alla cultura e cominciò a produrre film. Produsse un documentario di Abel Ferrara, che era venuto a Napoli, Napoli, Napoli, Napoli e da lì andò avanti… Ma ebbe davvero una storia incredibile, pazzesca, Gaetano. Divenne un produttore affermato, ma pur restando un uomo della strada, del popolo. Per cui, quando ho dovuto immaginare un boss, per il film, ho pensato subito a lui, perché aveva il fisico del ruolo perfetto.

Prima hai chiamato in causa l’aspetto onirico. Che c’è ed è fondamentale, però dosato in maniera tale da non diventare strabordante o invasivo. Devo dire che anche lì c’è una buonissima misura nell’averlo inserito in questa maniera ed è molto ben connesso alla storia che racconti…
Dalle ricerche che avevo fatto e di cui ti dicevo prima, su dichiarazioni di latitanti arrestati nei bunker… ce ne sono vari, calabresi, siciliani, campani… ne trovai uno che aveva passato molti anni dentro un bunker, il quale aveva detto che una vita del genere si divide “tra ricordi e sogni”. E ‘sta cosa mi colpì molto, perché pensavo: “Ma uno, dentro un bunker, che cazzo può ricordare? Che cosa può mai sognare?”, perché alla fine è una vita castrata… Così ho immaginato dei sogni “distorti” e li ho inseriti nella storia, in maniera non cronologica. La sua vita là dentro lo riporta di continuo indietro nel tempo e anche in una sorta di altra dimensione, dentro sogni che hanno a che fare con il suo inconscio, i suoi sensi di colpa. C’è una scena in cui lui dorme e vede il padre che sta morendo: e si interroga sui soldi, dobbiamo fare soldi, dobbiamo fare soldi… Non avendo più un tempo, perché dentro un bunker non hai più il giorno, la notte, il lunedì, il martedì eccetera, tutto necessariamente si mischia, ricordi, immagini, demoni che si portano dentro…

Mariacarla Casillo

Mariacarla Casillo

Il pubblico che vede il film, che tipo di interpretazione darà al suo gesto, al suo “peccato originale” come lo hai definito? Si tratta di un momento forte, inatteso, direi persino scioccante, totalmente imprevedibile…
Io ho sempre pensato in cuor mio, che lui, il personaggio maschile, fosse assolutamente inadeguato ad amare. E questo non può che mettergli paura. Una doppia paura: la prima, di diventare fallibile, perché in quegli ambienti quando realmente ami una donna, è un momento di grande debolezza. Diventa il tallone di Achille. La seconda paura, è che lei è anche la figlia del boss per il quale lavori, e quello è l’unico peccato che non ti perdonerebbero mai. Non puoi avere una relazione con la figlia di un boss se non sei legittimato dal clan stesso. Quindi, lui ha questa doppia, enorme paura, interiore ed esterna. E in questa stretta in cui si viene a trovare, quando la ragazza comincia ad essere pressante, l’anello eccetera, lui non può fare nient’altro che quello che fa…

Anche se in fondo, non è così necessario dare una spiegazione “geometricamente dimostrata” di quel gesto che lui compie, no?
Io da sempre sono appassionato dei cosiddetti “omicidi senza movente”. Ce ne sono tantissimi in giro per il mondo, anche in Italia. Non hanno un movente giuridicamente definibile, ma hanno un milione di moventi, che sono le frustrazioni personali, i nodi interiori, le paure… Mi ha sempre incuriosito indagare in questo ignoto. Quindi ho voluto andare in questa direzione. Drammaturgicamente, avrei potuto trovare dei giustificativi, ma la cosa non avrebbe funzionato nella stessa misura. Quindi, l’abbiamo lasciato un po’ ambiguo. Anche per andare un po’ contro quella moda che è tipica della fiction italiana di voler sempre spiegare tutto a tutti i costi. Devo dire che in Glory Hole abbiamo lavorato molto in montaggio, per levare tutto ciò che non fosse essenziale. In sceneggiatura c’erano più dialoghi, ma poi tante cose che “spiegavano”, le abbiamo tolte. Rendendoci conto che più celavamo, più il personaggio diventava attraente. In tutta la parte iniziale, finché arrivano dal proprietario del night club, loro non dicono una parola. Nella scena in cui Francesco va dal prete e sono in casa, davanti al camino, ho messo una musica che è anche un po’ una citazione, da un film di Refn, Only God Forgives: era una scena che originariamente prevedeva un dialogo, in cui Francesco spiegava che stava scappando eccetera eccetera. Alla fine, abbiamo cassato tutto il dialogo, lasciando solo la musica. Proprio per dare meno tracce possibili del perché quest’uomo stesse scappando e da cosa.

Mario Pirrello

Mario Pirrello

Ti posso garantire che è una scelta che paga. Veniamo al monologo suo, alla fine. Siamo di fronte a qualcuno che è spietatatamente consapevole di se stesso e che ha chiara, a questo punto, la propria condizione…
Il monologo l’ho scritto io, poi insieme agli sceneggiatori l’abbiamo un po’ tarato…

E parlavi di cose a te ben note…
Sì, quello è tutto vero, ricalcato su delle confessioni di un pentito, che aveva a che fare con il traffico di rifiuti. Era un’udienza di un processo in cui quest’uomo rivelava tutta una serie di cose sulla propria attività criminale. Fu una delle prime cose che scrissi in sceneggiatura, paradossalmente. Mi piaceva che il protagonista “si pentisse”, ma proprio davanti a se stesso. E l’ho girato, questo monologo di sette minuti, diretto in camera… e qui torna fuori sì uno stile documentaristico: seduto, frontale, centrato, mentre guarda in macchina, verso lo spettatore. E racconta tutta la sua verità:”Io sono questo, ho fatto questo e mi pento di questo. E quindi sono l’unico che può autocondannarsi, autopunirsi”. Sì, è molto lucido, perché ha la lucidità di capire che quel che ha fatto è irreparabile, nei confronti di se stesso, dopo quello che ha vissuto. Evadere dal bunker non aavrebbe più alcun senso, perché si troverebbe comunque incarcerato sempre. Di Leva ha fatto un lavoro enorme su questo monologo, che è stata l’ultima cosa che abbiamo girato.

Glory hole è passato in anteprima a Shangai e arriverà nelle sale italiane dal 18 luglio. Ti voglio dire, senza piaggeria alcuna, che sei riuscito a fare un ottimo film, “estremo” nel senso più alto e profondo che può avere questo aggettivo. Merce rarissima oggi in Italia… 

Ti ringrazio!