Salò, quindici anni di visioni
Nessuno ha mai cercato di stabilire il testo di Salò: il cinema è ancora considerato un’arte minore
Per storicizzare un film come Salò (1975), si richiede un approccio diverso, almeno in parte autobiografico – e chi legge è invitato a ripercorrere la sua, di storia. Lo vidi per la prima volta in una sala milanese, in occasione di una riedizione (poteva essere il 1986) da cui mancavano alcune scene (come la masturbazione del fantoccio, vedi l’idiozia dei censori dove andava a infierire) poi reinserite nella copia della retrospettiva a Venezia del 1988 e nella versione video RCS (che ho visto due o tre volte). Di quella prima visione ricordo che, nell’ultima scena («Come si chiama la tua ragazza?», «Margherita»), il ballabile anni Trenta che spinge alla danza i due giovani aguzzini innescò, a mo’ di reazione pavloviana, un ritmico schiocco di dita da parte di uno degli spettatori: suscitando in me indignazione e repulsione per quel mostro che, evidentemente, non era stato minimamente scalfito dall’esibizione di orrori precedente, tanto da trovare ancora la forza e la voglia di fraintendere e godersi la musichetta. Oggi penso che quello spettatore-mostro, più che indifferente all’orrore, doveva essersi identificato con i quattro carnefici del film: e mi inquieta l’idea che a qualcuno possa piacere il film-Salò. E se provo tanto orrore, evidentemente, è perché temo che Salò possa essere uno specchio, perché temo possa anch’io parteggiare per i mostri. Che era poi quello che Pasolini, con logica lucida e autodistruttiva, aveva previsto e voluto. Salò è un film che non si vede impunemente. E qui ricordo la terza volta che vidi il film, in compagnia di due amici ignari e poco preparati. Alla fine mi guardarono basiti e increduli, tanto da stupirmi che un film avesse potuto colpirli tanto. A posteriori mi sento io il mostro, che ostentava freddezza per immagini del genere.
Incontrando una volta Sergio Citti, che del film fu cosceneggiatore, gli sentii dire che quanto si voleva esprimere in Salò era l’odio per le vittime, tali per loro scelta. Odiando le vittime, scrissi in occasione della retrospettiva veneziana, i carnefici odiano l’oggetto del loro piacere, e quindi la loro finitezza (sillogismo che mi pare vagamente klossowskiano: e so che Pasolini doveva detestare l’interpretazione sadiana di Klossowski, puntualmente citata nei dialoghi). Ma parallelamente lo spettatore, odiando le vittime e ridendo per l’inventiva macabra dei carnefici arriva ad odiare, anzi deve odiare se stesso, inequivocabilmente complice, senza alibi. Il desiderio è già morte, e Salò è un film sacro, nel senso latino del termine sacer, e che non ho neanche voglia di rivedere, ora, pur possedendone la cassetta (anche se magari sarei tentato per capire, per esempio, che cosa scrive col dito sul tappeto del salone [l’immagine, in p.p. piano, è a rovescio] una delle vittime: ho sempre pensato fosse una bestemmia, ho lavorato oscenamente di ralenti e fermo-immagine, ma forse è meglio che non si sappia). Ormai mi sembrerebbe di profanare le vittime, come se vedessi uno snuff e trasgredissi il dogma baziniano della non riproducibilità della morte. Ma Pasolini, che voleva Salò come film ultimo (o tale è diventato per caso, chi può dirlo), come abiura della (trilogia della) vita (e nel Porno-Teo-Kolossal che non riuscì a girare la scena più forte, significativamente, doveva essere quella dei giovani che hanno trasgredito la proibizione dell’amore eterosessuale e vengono violentati di fronte a una folla urlante) non aveva previsto tutto. Anche se l’aveva presentito.
L’ultima battuta, poi sostituita, continuava Citti, doveva suonare, più o meno, che il crimine – la crudeltà – più grande non era quello commesso dai quattro carnefici, ma quello di sottrarre il sole alla vista di tutti (il finale, leggo adesso nel Castoro di Serafino Murri – uno che poi ha firmato i dialoghi italiani censurati della Vergine dei sicari – pose a Pasolini grossi problemi: ma tra le varianti, non viene riportata quella appena riferita). A posteriori, il senso di questa battuta evangelicamente scandalosa ed enigmatica mi sembra si possa leggere, senza ambire a nessuna profondità, come segue: un film come Salò, così ambiguo e inguardabile, così estremo nel rappresentare la violenza e l’umiliazione dei corpi, confondendo realtà e finzione (ricordo distintamente, a dieci anni [la mia ossessione per Salò è iniziata presto] di avere letto nell’anticamera di un medico, su un numero di un settimanale a grande diffusione – penso si trattasse di Gente o Oggi, dal formato – un resoconto ipocritamente scandalizzato dal set, dove si insinuava, probabilmente già dopo la morte, come Pasolini fosse impazzito, come sottoponesse le comparse a vere e proprie umiliazioni e torture), un film come Salò, dicevo, non è nulla in confronto a quanto abbiamo visto in seguito. Non era questo il crimine più grande. Dopo Salò è diventato visibile tutto. Lo sguardo ha perso la sua crudeltà, ovvero non c’è più stato nessuno, come Pasolini, che costringesse lo spettatore a tenere gli occhi aperti, come capita a Malcolm McDowell in Arancia meccanica. E non mi riferisco ai tanti film atroci che non arrivano nelle sale e alimentano un commercio video sotterraneo (e non mi riferisco ancora agli snuff, che sarebbero un discorso a parte), quanto alla finzionalizzazione della realtà quale è percepibile in qualunque programma televisivo o ad apertura di quotidiano (le foto di film che in Italia commentano abitualmente fatti di cronaca), che Pasolini non avrebbe mai potuto immaginare e gli è stata risparmiata.
La crudeltà di Salò, e in fondo anche quella dei tanti, modestissimi nazi-erotici che ne hanno sciacallescamente sfruttato la fama (o dei film di altre cinematografie che illustrano i propri olocausti: come il filone, piuttosto repellente, di film di Hong Kong alla Men behind the Sun sui crimini e gli esperimenti dei militari giapponesi), in confronto a qualunque immagine di film su un quotidiano a commentare un fatto di cronaca, è ancora una crudeltà logica, verrebbe voglia di dire sana, con cui si possono ancora fare i conti. Non mi indigna più di tanto l’inclusione (frequente su fanzine e forum dedicati all’euro-horror) di Salò in un’analisi del genere porno-nazi, accanto a schifezze di Luigi Batzella, e nemmeno il fatto che cataloghi underground d’Oltreoceano abbiano pubblicizzato (secondo Andrea Giorgi) fantomatiche versioni integrali in cui sono presenti scene a lungo fantasticate (semplice menzogna, o insert scellerato?), come quella famigerata che metterebbe in scena il topo cucito dentro la vagina presente nel racconto dell’ultima narratrice, Caterina Boratto. Mi turba di più che Salò sia finito in edicola, venduto assieme a un quotidiano (l’Unità) o a un settimanale (L’Espresso), alla pari di un innocente film di Truffaut o di un malizioso film di Tinto Brass. Mi turba che nell’era dei satelliti, sia stato trasmesso in televisione. Come Arancia meccanica, Salò è uno dei film che più a lungo ha resistito al piccolo schermo: e l’ho sempre considerato un trionfo del cinema, una sua irriducibilità, una prova che il cinema non è fatto di sole immagini.
Salò è un film che invita a chiudere gli occhi, a non andare più al cinema, non tollera sbocconcellamenti e assaggini, citazioni e montaggi. (Nel 1990 il produttore fa ricorso alla censura, presentando una versione tagliata per ottenere l’abbassamento del divieto ai minori di 14 anni: per fortuna viene negato; ci è stato risparmiato di vedere l’oscenità di un Salò per teen-ager). Il 2 novembre 2000 questo tabù televisivo è caduto, Salò si è visto su Stream. Integrale? E chi lo sa. La questione dell’integralità di Salò, topi e non topi, è qualcosa che va al di là della semplice filologia. La si affronta con l’ansia con cui si apre la stanza degli orrori. Si fantastica di sequenze che si sarebbe tenute il produttore. Un fatto inquietante: quando il film viene presentato alla commissione di censura tre giorni dopo la morte di Pasolini, viene dichiarata una lunghezza di 3297 metri, ma quella effettiva è di 3192. La recensione di Buttafava parla di una citazione di versi di Gottfried Benn: ma perché rimane solo nella versione tedesca (per l’esattezza, nella scena – assente dalla copia italiana – in cui Bonacelli scaccia le vittime giù dalle scale), e scompare da quella italiana corrente e anche da quella Criterion? Cos’altro è scomparso?
Salò è un film su cui c’è ancora molto da scrivere e da studiare. La storia della sua lavorazione, per esempio, non si può dire certo esaurita dal libriccino schifiltoso che gli ha dedicato il letterato (oggi defunto) Uberto Paolo Quintavalle (Giornate di Sodoma, SugarCo, 1976), alias Sua Eccellenza il Presidente della Corte d’Appello, e che pure ha soddisfatto tante mie curiosità morbose, come sapere chi fossero nella vita (non) attori impagabili e inquietanti come Aldo Valletti e Giorgio Cataldi (un ex seminarista, un amico di borgata di Pasolini…), doppiati dal regista Marco Bellocchio e dal raffinato poeta Giorgio Caproni, e scelti accanto a uno stimato attore professionista come Paolo Bonacelli. L’oscenità aggiunta di Salò, la biografia di attori e attrici che per un attimo incrocia quell’orrore. Come avrà convinto Pasolini a far recitare due star del cinema degli anni 30, Caterina Boratto (già abituata, da anni, a parti di maîtresse) e la più sofisticata e letterata Elsa de’ Giorgi? (Hélène Surgère e Sonia Savange Pasolini le aveva viste in Femmes femmes di Vecchiali, di cui rifanno un numero.) E poi, di recente, frammenti di backstage che riemergono in un documentario olandese visto su Stream: una giovane attrice racconta che Pasolini li teneva all’oscuro di quello che avrebbero dovuto fare fino all’ultimo minuto. Ma sembra molto serena, tranquilla, senza rancore. (Nessuno dei giovani attori di Salò è diventato famoso. Pochissime le carriere appena abbozzate, le facce riconoscibili: come quella dell’eritrea Ines Pelegrini. O di Antineska o Antiniska Nemour, poi vista in una manciata di soft-core, e in uno dei nazi-erotici meno ignobili anche se ugualmente idiota, L’ultima orgia del Terzo Reich di Cesare Canevari. Corpi anonimi. Una riprova inquietante.)
Ricordo una conversazione col povero Giuseppe Turroni, in cui mi parlava di una sua interpretazione di Salò in chiave comica (alla sceneggiatura aveva collaborato non accreditato anche Pupi Avati, allora maestro del grottesco e dell’umorismo nero: a quando la divulgazione della sua sceneggiatura?), vedendone prova lampante, per esempio, nel celebre “concorso per il culo più bello” (primo premio: la morte; leggere, in proposito, con quanta finezza Quintavalle commenta la sequenza nel suo libro). Una risata nera, quella di Pasolini ma anche colossale, da dio della Bibbia o di un sonetto di Giuseppe Gioachino Belli, lieto di mandare l’umanità all’inferno; o ancora da divinità che con una risata distrugge se stesso e la creazione ripiombando nel nulla. E il riso, a pensarci bene, è una delle componenti fondamentali di questo film, oltre gli elementi cui sono intitolati i vari gironi: vedi le barzellette idiote che si raccontano i carnefici, il goffo umorismo dei ragazzotti-aguzzini reclutati nelle campagne, le mascherate, le torture viste come scherzi riusciti… Un riso terribile, certo, e comunque di secondo grado (perché non si ride certo delle freddure, ma dell’idiozia dei personaggi, cercando di distanziarsene), che si potrebbe analizzare col solito Bataille, anche se mi sembra tutto meno che nicciano e superomistico (secondo la tesi che vede nei carnefici l’anarchia del potere, e quindi i veri trasgressori…). Un riso che è il contrario dell’accettazione, del “sì alla vita” di Così parlò Zarathustra che all’ultimo Pasolini doveva sembrare una bestemmia. È solo a questo patto, e in questa chiave, che potrei accettare di rivedere Salò. Un film che può e deve essere visto una sola volta, l’ultima, quando si hanno ancora gli occhi vergini.