Terrifier 3

Il ruggito del Leone

Diamo per scontato che chiunque si ricordi della scena di Terrifier 2 che, senza stare a specificare oltre, viene definita come “la scena della camera da letto”. Se il film di Damien Leone è stato visto (al netto di qualunque giudizio se ne possa dare, bello, brutto, galvanizzante, insostenibile, geniale, paraculo), la summenzionata sequenza non può essere dimenticata. E non può essere dimenticata perché dava modo di capire che là non era soltanto e banalmente questione di gore & concettualità viciniori e ulteriori. Leone (facile nomen omen: il presagio della ferocia) debordava semplicemente da questo e trasferiva quel concetto che i retori antichi definivano “exaggeratio”, “accumulo a dismisura”, più che semplice “esagerazione”, nel regno della Settima arte.

Avevamo un bello storicizzare, quasi come atto esorcistico, di fronte allo spettacolo che Leone ci stava facendo sfilare davanti agli occhi, che fosse qualcosa di parificabile al sado-parossismo di quando, nello Squartatore di Fulci, il killer apre pezzo per pezzo, lentamente, la Cormio/Doria. Diciamo Fulci e non una delle qualsiasi bagatelle americane slasher, a ragione veduta. Perché Leone, nonostante metta in mezzo un attrezzo come Art il Clown, che dovrebbe avere ipso facto in sé la nota “comica”, pare uno che faccia le cose sul serio. Molto sul serio. E più di ogni altra, quella sequenza “in camera” di Terrifier 2, stava e sta lì a dimostrarlo. Perché esiste una linea Maginot anche nel gore, come nel porno, al di qua della quale manovrano un gran numero di cinematografici eserciti, ma oltre la quale spingono il passo in pochi. Anzi pochissimi. E questo messaggio è arrivato, in qualche modo, anche nel fandom più truce, quello che basta veda rosso e tanto gli basta, ma che avvertì, nel caso specifico, qualcosa di davvero diverso. Terrifier 2 slatenzizzò il primo Terrifier, che venne scoperto di rimbalzo e che in origine pressoché nessuno si era calcolato. E aprì alla possibilità di un tre, di questo nuovo Terrifier 3 che – finalmente ne parliamo – apre le danze continuando con la filosofia di quella scena della camera. Anzi, la oltrepassa…

Nessuno sta a domandarsi come sia possibile che Art, che avevamo lasciato con la “capa” staccata alla fine del due, risorte fuori mascherato da Babbo Natale. Anche perché Leone non dà il tempo di pensarci: la casa di una normale famigliola, l’albero, le lucette, i regali e tutto il resto viene subito spazzato via dalla virulenza di un massacro… belluino? bestiale? pantagruelico? No, no: di più. E senza risparmio, adesso, neppure per i bambini. Può benissimo essere che cose del genere uno si sia messo a pianificarle razionalmente e lucidamente e che Leone, come va dichiarando in interviste e talks, avesse come scopo di superarsi. Un po’ quel che sosteneva Argento quando – “per programma”, diceva – ideò il primo quarto d’ora di Suspiria. Ma quel che si dice conta fino a un certo punto. Poi ci sono i fatti. E i fatti sono che Leone rischia in questo prologo di essere andato davvero più in là di ogni “più in là” immaginabile. Non che ciò che segue nel film sia da meno (i rattofobici, a un certo punto, hanno pane per i loro denti…) ma l’intro è un portale, dimensionale, trionfale. Ti dà da pensare: e mentre la vedi, questa intro (ammesso e non concesso che riesci a reggere), appare chiaro che Leone viaggia su frequenze strane e inquietanti a dir poco. Qualcuno ha parlato di “epica del gore“, cioè – se afferriamo bene il concetto – di un tentativo di dilatare e sollevare l’efferato all’altezza di un’espressione mitica. Che sono belle parole, ma sotto le quali serpeggia, in questo trentaduenne filmmaker newyorkese, la traccia di una forma mentis, lo si ripete, molto strana…

David Howard Thornton è sempre Art, che adesso ha due livelli di mascheratura, Clown e Santa Klaus. Cinque anni sono passati da quando “aveva perso la testa”, ma adesso è di nuovo qui. Vengono certo date alcune tracce sul perché questo accada, ma, di fatto, contano poco. Leone corrisponde alle esigenze del fandom che si aspetta venga meglio specificata e strutturata, di quanto finora si sapesse, la mitologia di Art, tuttavia questo pare interessargli solo fino a un certo punto. Forse perché si è reso conto, intelligentemente, che suggerire la presenza del personaggio come una sorta di dato ontologico, immanente e autogiustificativo, funziona meglio che millimetrarne vita, morte (morti) e miracoli. La novità è che non è il solo ed unico mattatore, il Clown, stavolta: Vittoria Heyes (Samantha Scaffidi) rientra in gioco, l’eroina a doppio fondo finale del primo Terrifier e che nel numero due, al termine dei titoli di coda, sfregiata e ormai fuori di testa come un cavallo, vedemmo auto-sbudellarsi e “partorire” la testa spiccata, e sorridente, di Art. Era, dunque, nelle cose che Vick sarebbe tornata a far parlare di sé nella saga.

Lo stile di Leone prosegue quello di Terrifier 2, anche con la discriminante che, stavolta, i mezzi a disposizione sono visibilmente aumentati e ambientalmente, scenograficamente Terrifier 3 è dunque abbastanza ricco. Però, l’andamento ondivago della narrazione resta simile: Art, in buona sostanza, è una linea che unisce la punteggiatura delle morti più atroci e inventive. E l’abito e il contesto natalizio facilitano giochetti con un paio di tizi vestiti pure loro da Papà Natale: dentro un centro commerciale, prima, e poi in un bar. Per non parlare degli abeti festanti che Art decora con tutt’altro che palline glitterate e angioletti. Ma anche qui, Leone non sembra particolarmente interessato ad assecondare la tradizione degli slasher natalizi e continua a seguire la propria strada, che è la sua e che mette sempre capo allo “sfascio” delle vittime di Art. Voce del verbo “sfasciare” e non solo ammazzare o smembrare o squartare.

Questo è un emisfero di Terrifier 3. L’altro è quello di Sienna, alias Lauren LaVera, che viene notevolmente evoluta rispetto al numero due. Ha cercato di superare la burrasca psicologica che i fatti di cinque anni prima le avevano innescato. E la ritroviamo ora a vivere nella famiglia degli zii, a Miles County. Nel suo caso, Leone aggiunge nuovi elementi al passato di Sienna, a partire dalla figura del padre defunto (Jason Patric), che era disegnatore di fumetti e che aggancia la figurazione, l’iconografia (nel senso di look) da eroina che Lauren aveva assunto alla fine di Terrifier 2. Qui, l’abito della final girl si ammanta di un alcunché di mistico, ma in compenso lo spirito pugnace e sanguinario si moltiplica, a colpi di spadoni e seghe elettriche, in ossequio alla regola che il simile chiama il simile: l’eccesso, per essere combattuto e annientato, vuole l’eccesso. I personaggi satellitari si diramano al fratello di Sienna, Johnathan (Elliot Fullman), ora universitario, e al suo entourage (c’è di mezzo anche un podcast che cerca lo scoop facendo parlare Sienna). Ma la nostra, coperta di cicatrici, tra gli zii che la guardano un po’ in tralice, ancora un lustro dopo fiuta l’aria e avverte che l’incombere del Clown è prossimo: presagi vaghi e visioni assurde la attanagliano e preparano un nuovo corpo a corpo. Ancora prima che Terrifier 3 arrivasse nelle sale, Leone prometteva come sicuro un numero 4. E a questo punto, dove possa andare a parare ancora oltre, viene da chiederselo, con più di un brivido…