The World Of Tim Burton
Incontro col regista alla conferenza stampa per la mostra a lui dedicata
Che il re del “macabro gentile” abbia saputo deformare e rimodellare a piacimento il cinema hollywoodiano, spesso con freschezza e humour e con uno stile stupefacente, piuttosto che onirico e “carnevalesco” – e definibile mediante un unico termine possibile: burtonesque –, è vieppiù inutile rimarcarlo. Con la sua produzione filmica degli ultimi tre decenni, che da Beetlejuice passa per il suo Batman post-moderno toccando capisaldi quali Edward Mani di Forbice, Nightmare Before Christmas o La Sposa Cadavere, l’oggi sessantacinquenne Timothy Walter Burton si è più recentemente reso protagonista, ideandolo assieme con Miles Millar e Alfred Gough Burton, del teen drama televisivo sbarcato su Netflix, Mercoledì (Wednesday), aggiundicandosi grandi consensi e numeri. Il suo è però un talento che, lo sappiamo, trascende i confini della macchina da presa, per questo la mostra The World Of Tim Burton, sbarcata in questi giorni al Museo Nazionale del Cinema di Torino (ideata e co-curata da Jenny He e la Tim Burton Productions), pone in risalto un impianto espositivo che si concentra su un più vasto, quanto variegato archivio di produzione creativa. Note di sceneggiatura e storyboard si mescolano a disegni e bozzetti e quindi a dipinti, fotografie, concept art, costumi, pupazzi, opere in movimento e installazioni scultoree a grandezza naturale (come Balloon Boy, che il visitatore troverà svettante fra le colonne dell’ingresso monumentale del museo o le due gigantesche creature vegetali che ne invadono il giardino: un imponente drago-serpente che emerge dal sottosuolo e un cervo maschio su un gigantesco palco ramificato).
Allestita nell’imponente e mozzafiato Aula del Tempio del Museo, e quindi sulla rampa elicoidale e al piano di accoglienza della Mole Antonelliana, la mostra, in sé un’immersione totale lungo i lidi della psiche burtoniana – e quindi nel carattere multidimensionale dell’artista -, si spezza in nove sezioni tematiche e presenta oltre cinquecentocinquanta opere d’arte originali. In mezzo, anche quei progetti mai propriamente portati a realizzazione dal regista; mondi, cioè, mai confluiti in nessuno dei suoi film, ma che nondimeno testimoniano il talento e l’immaginazione della mente che vi sta dietro. La complessità del materiale in questione è, inoltre, una finestra sui gusti e le influenze di Burton medesimo: dai film giapponesi di mostri, al cinema espressionista; dagli horror a firma Universal Studios, ai maestri dell’animazione stop-motion come Méliès e Harryhausen. Resta però centrale, a prescindere da ciò, il tema che fa da perno al senso stesso della mostra, che è specificamente quello del “reietto incompreso”, compiutamente reso da Burton nei decenni passati per mezzo di figure quali un più corporeo Edward (Johnny Depp) così come attraverso un più artificiale Jack Skeletron, che il buon critico Paolo Mereghetti descrisse a suo tempo come “più convincente sia di un attore umano che di un disegno animato”.
In generale, l’arte del disegno è da sempre un valico comunicativo decisamente importante, per un tipo come Tim Burton il quale, lo ha confessato egli stesso dalla già citata Aula del Tempio durante la presentazione della mostra, non è mai stato un gran chiacchierone. Per l’occasione, Burton si è prestato alla raffica di domande postegli col turbo da un competente e disinvolto Stefano Boni (dello staff del museo), e nel farlo, in modo ponderato, ha mostrato grande pacatezza, senza quindi conferire troppa articolazione al suo eloquio generale. Rimarcando purtuttavia l’emozione da lui provata nel solcare una prima volta il Museo del Cinema – e percependo il medesimo spazio come “il luogo perfetto” ove ospitare le sue opere (nonché Torino come una città maliosa e ricolma di storia artistica e culturale) –, Burton, cresciuto nella californiana Burbank, non si è mostrato nemmeno troppo incline a lasciar trapelare le sue impressioni su certe tematiche care alla contemporaneità. Dal politicamente corretto, sino al problema di come la già ingombrante presenza dell’intelligenza artificiale potrebbe per via ipotetica penalizzare, un domani, anche un tipo di cinema più visionario come il suo. Differentemente dal più “impegnato” collega Scorsese, poi, neanche le più recenti proteste che hanno interessato il mondo hollywoodiano di celluloide parrebbero toccarlo più di tanto. Ma Tim Burton, al di là delle mere impressioni personali, non è certo un semplicione; sa che l’industria è in continuo mutamento, ma sa anche che non sarà la burocrazia, lo ha affermato con la saggezza di chi è conscio di aver già conquistato il podio, a uccidere il cinema, che invece vivrà sino a quando vi sarà gente pronta ad amarlo.
Accolto dal fermento dei moltissimi presenti, tra fotografi, giornalisti e addetti vari di settore, ha quindi evocato alcuni autori italiani che lo hanno ispirato, ovvero Bava e Fellini, da lui già citati, insieme al nome di un certo Dario Argento, nella nota personale riportata all’interno del comunicato stampa della mostra. “Ero ossessionato dai film horror e di fantascienza degli anni Sessanta e Settanta”, scrive, “e i loro erano tra i migliori (La maschera del demonio, Toby Dammit e Suspiria, solo per citarne alcuni). Mi sento sempre molto ispirato quando visito l’Italia: posso seguire le orme di quei maestri del cinema, comprendere le loro influenze e scoprire la fonte della loro arte. È un ambiente che ti fa sentire come se fossi in un film tutto tuo”. E se c’è un qualcosa in particolare che Burton deve aver mutuato dai tre maestri di cui sopra è che sogno e fantasia saranno sempre un passo avanti rispetto a quella che noi continuiamo, imperterriti, a chiamare “realtà”.