Tommaso Basili: un feeling americano
Un attore a cavallo tra i due Mondi
Tommaso Basili ha fatto parte del cast di Here After – L’aldilà, distribuito in Italia la scorsa estate nelle sale. “In un periodo abbastanza improbabile, intorno al 25 di luglio”, mi dice. Lo avevo recuperato, Here After, notandolo per quel film davvero riuscito e potente che è. Qualcosa che corre il rischio di essere incarcerato nella camicia di Nesso di “horror”. Non che non lo sia, fantastico e orrorifico, lo spunto – il ritorno di qualcuno da oltre le barriere della morte – ma la trama si sviluppa con una fisionomia assolutamente originale e inedita….
Il regista è Robert Salerno, di origine italiana: è un newyorkese, ma i nonni credo fossero, sia per parte di madre che di padre, italiani. Robert, comunque, è americano. Nasce come produttore. Ha prodotto e coprodotto tanti titoli, interessanti, importanti. Tipo 21 Grams di Alejandro G. Iñárritu o Animali notturni, di Tom Ford. Adesso è uscito anche con Smile 2, che tra l’altro sta andando benissimo. Robert è un produttore atipico, nel senso che ha studiato anche recitazione (tra l’altro, a New York nella stessa scuola dove ho studiato io). È sempre stato molto interessato anche alla parte creativa. Here After è una sua opera prima da regista, anche se in passato è stato spesso coinvolto artisticamente all’interno dei progetti che ha sponsorizzato economicamente.
Here After è stato tutto girato in Italia?
Sì, tutto a Roma e in qualche località intorno alla città.
Come è entrato nel cast: hanno fatto dei provini qui in Italia?
Sì. Abbiamo un casting director fantastico, che si chiama Armando Pizzuti, che gestisce progetti italiani, ma soprattutto, anche, progetti internazionali. Ed è grazie a lui che sono entrato nell’orbita di Robert Salerno. Di solito si fa sempre in questo modo, si manda un primo self tape. Dopodiché, se piaci, vieni richiamato per il callback. Ormai abbiamo girato più di un anno e mezzo fa, ed è stata una esperienza, devo dire, meravigliosa, lavorare con una produzione americana in Italia: ovviamente una coproduzione, perché c’erano loro da Los Angeles e c’era la produzione esecutiva, qui in Italia.
Lei ha lavorato moltissimo, comunque, con produzione americane…
Guardi, le devo dire, onestamente… sarà anche controproducente quello che lo dico… che per qualche motivo che non mi so spiegare, io lavoro più con gli stranieri che con gli italiani.
Forse perché è bravo, no?
La ringrazio… Io spero di essere, quantomeno, professionale. Con gli italiani, per carità, ho lavorato e lavoro, ma gli stranieri mi danno un pochino più di spazio. E offrono progetti di caratura un po’ più elevata. Mi azzardo a dire che gli americani osano un pochettino di più. Cercano sempre, magari, il talento non scontato. Non devi essere necessariamente conosciutissimo, per lavorare con loro…
Tutti quelli con cui mi sono trovato a parlare di questo tema, mi dicono che la situazione in Italia è abbastanza difficile per gli attori…
Questa è un’analisi che faccio in continuazione e cerco sempre di capire qual è il motivo. C’è una grande dose di mistero nel nostro lavoro, c’è una grande dose di fortuna. Però poi ci sono anche dei modus operandi. Credo che in Italia ci sia una tendenza a conservare molto quello che già c’è e a ricercare meno quello che potrebbe essere: non so se mi spiego…?
Assolutamente…
Se qualcosa funziona, benissimo: ci teniamo questo e andiamo avanti con questo. quindi c’è meno sfrontatezza nel ricercare qualcosa di nuovo e tante volte non me lo spiego, perché poi, voglio dire, mi passi il termine: ci vuole poco a creare un nome, no? Tante volte si sente dire: “Ah no, vabbè, però il produttore non vuole questo attore perché non è un nome”. Crealo, fai un bel film con lui dentro! Ed ecco che il nome l’abbiamo creato.
Non fa una grinza: dovrebbe essere così… Ma c’è anche molta competitività? Sento spesso dire che quando si fanno i casting, si va a vedere quanti follower sui social ha il tal attore o il tal altro…
Guardi, le parlo da attore: tante volte coi miei colleghi queste considerazioni la faccio. E dico: va bene l’arte, va bene tutto, ma non dimentichiamoci che questa è un’industria e dietro un’industria c’è il denaro e c’è la visibilità. Intendo che Instagram si può demonizzare quanto uno vuole, però è diventato un nuovo metro di popolarità. E siccome i produttori sono quelli che rischiano e hanno bisogno di capire quanto una persona è visibile, popolare eccetera eccetera, è normale che ormai Instagram diventi un metro, no? Bisogna fare i conti anche con quello. Poi, d’accordissimo che fare l’instagrammer o il tiktoker è una cosa. Io sono un attore ed è un’altra.
È questo il punto: che a volte la popolarità social c’è il rischio che diventi una discriminante, al di là del talento, ecco, mettiamola in questa maniera.
Io non so se l’essere un grande Instagrammer possa addirittura diventare un sostituto del talento. Non credo. Però che sia un incentivo in più per assumere un certo personaggio, può certamente essere… Se qualcuno sta facendo un film che deve andare a Venezia, forse no, ma se bisogna fare, non lo so… un prodotto che va su una piattaforma e deve essere visto da un tot di persone, logicamente se un attore ha dieci milioni di followers che magari racchiudono quella fascia d’età che a me interessa per il tipo di prodotto che vado a produrre, ci penso un attimo…
Tornando a Here After: lei ha un bel ruolo, insieme a una superlativa Connie Britton e anche alla ragazzina, Freya Hannan-Mills. Cosa le veniva richiesto nel tratteggiare la figura di questo medico, Ben…
Le darò una risposta forse poco interessante: nel senso che il regista si era fidato completamente di me. Quando mi richiamarono, nel callback, non mi hanno fatto nemmeno recitare: volevano solo fare due chiacchiere per capire che tipo di persona fossi. Quando chiesi a Robert… noi lo chiamiamo Bob… in che direzione voleva che io andassi, lui mi rispose: “Fai come hai fatto nel provino, lascio fare a te. Se c’è qualcosa che non va, ti raddrizzo…”. E devo dire la verità, mi ha diretto molto poco, nel senso che mi ha lasciato fare. Credo sia rimasto contento. C’è da aggiungere che Ben era un personaggio che si avvicinava molto a come sono io, quindi ho dovuto semplicemente mantenermi su quello che io chiamo “il primo livello di recitazione”. Se il tuo personaggio è molto simile a quello che sei tu, allora devi essere tu nel film, in circostanze che non sono le tue. Quindi credibile, essendo te stesso. Lo chiamo “il primo livello”. Era un personaggio che sentivo molto: Ben ha agito come reagirebbe Tommaso.
Connie Britton…?
Un mostro di bravura. Estremamente professionale… io adoro osservare gli altri attori. Connie ha un modo di lavorare che non avevo mai visto prima. Se vogliamo anche molto… come posso dire? schematico, durante la lavorazione. Però poi, siccome il cinema è un lavoro di montaggio, di assemblaggio, ne è venuto fuori un lavoro magnifico: io la trovo un’attrice straordinaria.
Spettacolare. Centratissima nel ruolo, tra l’altro…
Sì, è riuscita a fare tanto, facendo poco! Non so come spiegarlo… Mi sono trovato benissimo anche perché, innanzitutto, è una persona estremamente piacevole, molto professionale, disponibile. E poi precisissima: è una lama affilatissima Connie. Non sbaglia mai.
Bella definizione, “una lama affilatissima”, bellissima definizione… Facciamo un discorso più generale sulla sua formazione come attore…
Ho iniziato abbastanza tardi a cimentarmi in questa professione… in questo percorso di vita: perché non è un lavoro, è veramente un percorso di vita. Mi sono formato sia a Milano sia negli Stati Uniti. A Milano ho frequentato un’accademia che si chiama Michael Rodgers acting studio, di impronta statunitense, se così vogliamo dire. Non proprio il Metodo, però ci si avvicinava, da un punto di vista soprattutto teatrale. E poi la scuola di Stella Adler a New York. Volevo confrontarmi con quella realtà, per capire come lavorassero loro e come mi sarei trovato io. E mi sono trovato da Dio. Adoro l’approccio anglosassone, ma soprattutto americano, al teatro: c’è molto gioco. Gioco serio, però. Non bisogna per forza soffrire. Dopo, ho cominciato a muovere i primi passi, piccole parti qui e là in produzioni italiane. Non c’è migliore scuola che il lavoro, comunque, perché ognuno di noi è un mondo a sé, ognuno di noi deve capire come funziona, all’interno di questo mondo, di questa industria.
Tra l’altro vedo, scorrendo la sua filmografia, che c’è un corto del 2018 di Stefano Sollima, The Legend of Red Hand…
Si, era praticamente un piccolo film, un cortometraggio. Diretto da Sollima per Campari. C’erano Zoe Saldana, Adriano Giannini, c’ero io e altri attori. Avevo appena finito di studiare o stavo ancora studiando. Diciamo che Sollima mi ha dato, metaforicamente la prima pacca sulla spalla. Parliamo, credo, del 2015, quasi dieci anni fa.
Tra questi lavori seminali c’era anche 1993…
Con Stefano Accorsi, passato su Sky Atlantic… sì, quello è stato il mio ingresso nel mondo del lavoro, se vogliamo: un ruolo piccolino, però in una serie che mi è piaciuta, con attori italiani che stimo molto. Qualche anno dopo, ormai sei anni fa, ebbi l’esperienza, che ad oggi considero una delle più belle che ho mai fatto, di una produzione americana girata in Turchia, L’impero ottomano: mi diedero un ruolo da coprotagonista su questa serie Netflix, storica, che purtroppo in Italia hanno visto in pochi. Fu veramente il mio primo lavoro, grosso, impegnativo, di grande responsabilità. Era una serie storica… e io adoro tutto ciò che ha a che fare con il mondo epico. Mi piace come lo definiscono gli americani questo genere, sword and sandal, “spada e sandalo”. Insomma, ebbi questo ruolo importante. Una fatica enorme, però credo di aver appreso più lì che in cinque anni di scuola di recitazione. Dopo, piano piano ci sono state altre esperienze. Ma ogni esperienza è significativa, soprattutto per qualcuno che ha cominciato tardi. Le scuole di recitazione hanno lo scopo e anche un po’ la presunzione di insegnarti qual è la buona recitazione e qual è la cattiva. Va bene, siamo d’accordo, può essere così. Ma quello che non insegnano, e dovrebbero farlo, è che ogni progetto è un mondo a sé, ogni progetto funziona a seconda di leggi diverse, richiede un modo di recitare completamente diverso, che se viene comparato, magari, con il film precedente, che era “un altro mondo”, potrebbe risultare cattiva recitazione, ma in quel contesto, invece, funziona. Perché è così. Perché è un linguaggio. Tante volte penso a questo, e dico: “Che peccato!”. Le scuole di recitazione sono importanti, ma ti fanno anche tanto lavaggio del cervello. Uno esce da lì con delle idee preconcette, molto fisse. Invece, ogni lavoro è un mondo completamente diverso. In ogni lavoro ricominci da zero. Dei miei colleghi che conosco, famosi e non famosi, bravi, bravissimi, meno bravi, non ce n’è uno che all’inizio di un progetto non dica: “Non so se riesco. Non so se ci riesco…”. E invece impera il cocnetto “Ho imparato a recitare, questo è il mio modo e lo applicherò su tutto quello che faccio”: grandissima bugia, secondo me.
Lei ha lavorato molto nelle serie televisive. Parlavamo dell’Impero ottomano, ma poi tanti altri titoli: L’isola di Pietro, per esempio…
Sì, questo è venuto subito dopo L’impero ottomano ed era un altro mondo: lì passavo da un contesto epico, storico, alla commedia leggera. Ecco, è un classico esempio di quello che dicevo poc’anzi: io arrivavo da questa serie dove avevo un personaggio di spessore, guerre, questo e quell’altro, dialoghi biblici e passavo a qualcosa di molto più colloquiale, leggero. Che mi spaventava molto di più.
E perché?
Non lo so, è qualcosa che sto cercando ancora di capire. A me la commedia spaventa. Vado molto più verso il drammatico, il pesante. L’essere leggero, in un film, l’ho sperimentato di meno e, paradossalmente, mi fa più paura come lavoro… Noi italiani siamo dei maestri della commedia. Infatti ho tantissima stima per chi riesce a fare questo genere di intrattenimento in maniera efficace e divertente. Anche perché la differenza tra il modo di fare commedia nostro e il modo di fare commedia nel mondo anglosassone, sta nel fatto che da noi fare commedia vuol dire “essere divertenti”, cioè l’attore in sé o il personaggio che interpreta deve essere divertente, mentre per il mondo anglosassone non è l’attore che deve essere necessariamente divertente, anzi molto spesso non lo è, ma sono le circostanze che lo sono. Ci sono due modi di intendere diversamente la commedia.
Personalmente ho l’impressione che quando vedo un film che non ha destinazione televisiva, anche se poi va sulle piattaforme eccetera, noto un certo stile, un certo approccio. E invece certe serie tv hanno, come dire, un approccio un po’ più blando. Esplicitando il concetto: le cose televisive, tutto sommato, non vengono realizzate con quella stessa attenzione, con quella stessa raffinatezza, chiamiamola come vogliamo, rispetto ad un prodotto per il cinema. Vero o falso, visto dall’interno, da un attore che ha fatto e fa una cosa e l’altra?
È sia un falso problema che una verità, perché poi c’è televisione e televisione. Ma più che altro, ci sono prodotti e prodotti… è brutto chiamarlo “prodotto”, però facciamo finta che un prodotto audiovisivo, audio visuale, un film, un cortometraggio, una serie, quello che vogliamo, viene inizialmente prodotto sapendo dove andrà a finire; però oggigiorno molto spesso le cose vanno al cinema, poi vanno su Netflix e poi magari vanno anche sulla Rai. Voglio dire: il prodotto ha una sua identità, però poi viene veicolato in posti diversi. Vero è anche che molti prodotti vengono, appunto, prodotti sapendo che “andranno su…”. È tutta una questione economica. Cioè, per me come attore, nel modo in cui mi approccio al mio ruolo, non cambia niente. Sia un film per il cinema, una serie per la televisione o qualsiasi altro prodotto. Il modo di lavorare, per un attore, non cambia. Tu fai il tuo lavoro di attore, punto e stop. Ma è chiaro che se un prodotto deve essere veicolato su una rete più che su un’altra, è tutta una questione di denaro, una questione di soldi. Chiaramente, se stiamo parlando di una serie che deve avere un sacco di episodi, si girerà molto più veloce… È una questione di “tempo-denaro”, cioè: più soldi si hanno… poi non è sempre detto, perché c’è tanta gente che ha fatto dei capolavori con due lire… però se hai più tempo e hai più soldi, ci sono buone probabilità che potrai essere più attento a certe cose, potrai avere anche una buona post produzione. E la post produzione fa tantissimo. Ho visto dei prodotti prima che vengano post prodotti e li ho visti dopo e ho detto Mamma mia! Cambiano faccia completamente, finiscono in uno stanzone per tot mesi, vengono assemblati, vengono migliorati, vengono resi meno grezzi.
I motori sono tema ricorrente nella sua filmografia: visto che ha fatto Lamborghini e poi Ferrari, di Michael Mann…
Lamborghini è un bel film. È un bel film, la mia è stata una un’esperienza non grande, nel senso che ci sono poco, ma è stata una bella esperienza, con attori di livello, un bel set.
C’era Mira Sorvino…
Sì, anche lei, esatto. Quanto al film di Michael Mann, il mio è un bel ruolo. Non è “quanto” un attore appare all’interno di un film, ma “come”: si può essere sempre di sfondo, o magari no… Ero contentissimo di lavorare con un regista di questo calibro, che adoro, cioè tutti i suoi film hanno un qualcosa che a me prende. È un regista freddo, per quanto riguarda le immagini, i suoi film hanno sempre qualcosa di metallico. Ed è interessante come, invece, abbia raccontato un mondo “tiepido” come quello italiano, no? Anche Ferrari ha dei colori non freddi, però, guardacaso, è strano e metallico anche lui in altri sensi. Due film molto diversi, Lamborghini e Ferrari, due modi di lavorare molto diversi. Michael Mann è incredibile come gira…
Un perfezionista…
Ma sì, sì, sì, assolutamente, un cesellatore. Gran signore, facilissimo rapportarsi con lui. Ti rendi conto che ha già tutto il film nella sua testa. Se ti chiede di rifarla 50 volte, non è perché la quarantottesima non andasse bene, ma perché ha bisogno di cinquanta pedine diverse da ricomporre: deve decidere lui. Più elementi ha e più va, dopo, a comporre la scena come preferisce. A me personalmente, ma sono di parte, Ferrari è piaciuto molto. Trovo che sia quello, sia anche Lamborghini, sono cinema, cinema forte. Non credo che in Italia Ferrari sia stato capito come film…
Diciamo che ho avuto delle reazioni abbastanza discordanti. Devo dire che a molte persone è piaciuto. Altri sono rimasti abbastanza delusi. Tutto sommato è un filmone, voglio dire: comunque torniamo nella dimensione del cinema come è raro trovarne, oggi.
La critica per me va benissimo. Io posso vedere un quadro di Picasso e dire non mi piace, va benissimo, però non posso dire che è qualitativamente scarso. Trovo che oggi si confonda molto il gusto personale con la qualità. Dimmi pure che non ti è piaciuto, che ti sei annoiato, però non puoi dirmi che è “un filmetto”: perché ciò significa che non ci capisci un cavolo…
Che film era The Unkindle, l’horror di Luca Gabriele Rossetti?
Fu un’altra delle mie primissime esperienze, fatte mentre stavo ancora studiando. Girato anche questo tutto in Italia.
Le piace l’horror come genere?
Dipende. Mi può anche divertire. Ho visto l’ultimo di Jordan Peele, che mi ha interessato, perché era molto particolare. Nope mi è piaciuto molto, perché mi angoscia nel modo giusto. Se devo guardare un horror, devo essere angosciato, sennò che lo vedo a fare? Al di là di un genere specifico, devo dire che mi piace il tipo di personaggio, anche se poi è il drama, il drammatico, lo spazio entro cui sento di muovermi meglio. Anche se sono parecchio attratto dall’avventuroso, che oggi però si fa poco. Sono cresciuto coi vari Indiana Jones negli anni 80, avventure nello stile dei “thriller archeologici”. Poi per noi italiani che siamo patrimoni dell’UNESCO ambulante, sotto i nostri piedi chissà che cosa abbiamo. Mi piacerebbe poter interpretare un personaggio che ha a che fare con il passato, con l’antichità, con cose di questo tipo. Ecco perché ho apprezzato molto il film di Alice Rohrwacher, La chimera, che tocca un po’ il mondo etrusco in maniera particolare: mi è piaciuto molto. Divagando, c’è tanto cinema italiano che adesso apprezzo, Vermiglio ad esempio… mi è piaciuto molto come è girato, mi ricorda un po’ Olmi, qualcosa di quel mondo lì, l’ho trovato eccellente. Niente da dire.
Parlando di altri suoi film in arrivo, c’è La dolce villa, intanto, di Mark Waters…
Sì. Non so quando uscirà esattamente: è una Netflix USA, e credo che quando entrerà in piattaforma sarà ovunque. È una commedia americana, in questo caso ambientata in Italia. Cast misto. Mi sono divertito tantissimo, è stato un modo di concepire la commedia più in stile anglosassone, comunque molto divertente: mi ha tolto anche un po’ la pressione di dover essere divertente io (ride). Abbiamo girato in Toscana, racconta l’Italia in una maniera divertente, in una commedia leggera, intelligente, molto positiva. Mark Waters è una persona di una facilità, di una generosità, una bella persona. Ha girato diversi film, anche molto particolari, con Jim Carrey eccetera eccetera, ma è una persona molto, molto, molto a modo. È una produzione di Los Angeles anche questa.
Karen Piri viene dato in uscita per il 2025: è anch’esso una serie televisiva?
Sì, una serie britannico-scozzese, che ha vinto un Bafta Award l’anno scorso. Invece, in uscita tra pochissimo, dieci giorni, c’è la nuova serie di Martin Scorsese, un docudrama in otto episodi intitolato Martin Scorsese Presents: The Saints. Scorsese la presenta e ha anche diretto qualche episodio, ma non i nostri. Non è ufficialmente il regista, ne è produttore, presentatore e narratore. Comunque, c’è lui dietro. Rientriamo un po’ nel genere “spada e sandalo”. Ogni episodio è un film a sé stante, in cui vengono raccontate le vite di personaggi che in nome della fede hanno cambiato tante cose a livello culturale, storico. Si parla di San Francesco, di San Sebastiano… Nel mio episodio, sono l’antagonista, il cattivo. Racconta la vita di San Sebastiano, e io interpreto l’imperatore Diocleziano, il suo persecutore. Uscirà prima negli Stati Uniti, ma sicuramente arriverà anche in Europa. Non penso che l’Italia se la lascerà scappare…
Ma infine è più stimolante essere buono o fare l’antagonista, il cattivo?
Molto più stimolante fare il cattivo… o meglio: delineare quelle figure che stanno nel mezzo…
Personalità chiaroscurali…
Sì, quelli che non sai mai se sono da un lato o dall’altro…
Di cattivi quanti ne ha interpretati? Non mi pare moltissimi…
Non è che io abbia mai interpretato ruoli decisamente da cattivo, però neanche da “bonaccione”. Diocleziano in The Saints è delineato come autoritario. Potrebbe essere dipinto come il cattivo, ma significherebbe banalizzarlo, era una figura molto più complessa. Potrebbe essere stato un uomo che nascondeva della bontà, però viveva in una situazione, in un contesto, in cui doveva per forza mantenere un certo tipo di ordine che poteva essere ottenuto solo con il pugno di ferro. Non è che giustifico che lui abbia voluto uccidere, però è il nostro lavoro, quello di cercare di entrare nelle pieghe di un carattere, di autogiustificarsi, come personaggio, per quello che sta facendo. È chiaro che io condanno un uomo che ha potuto fare quello che ha fatto Diocleziano, però interpretandolo, me lo devo giustificare, devo dirmi che lui sta facendo questo perché deve fare così. Ecco, non è che io abbia mai interpretato il cattivo nel senso dell'”uomo malefico”. Non so, per esempio Costantino Paleologo nell’Impero ottomano, se comparato a Mehmet il conquistatore, sicuramente era il buono di turno. Però non era il buono, era comunque un personaggio autoritario..
In FBI, la serie, qual era il suo ruolo?
Facevo un italiano, e lì ero abbastanza viscido, un procacciatore di modelle. Un tipo losco, che non si capisce bene se gestisce davvero un’agenzia di modelle o cos’altro… Ecco, un altro personaggio di quelli che stazionano nel chiaroscuro.
E in Diavoli, invece?
Era una serie sul mondo della finanza, che è un mondo da me molto lontano. Parlando di buoni e cattivi, lì l’ambiguità regnava sovrana. Si trattava di una partita a scacchi tra vari personaggi per acquisire soldi, denaro e potere, quindi eravamo tutti buoni e cattivi nello stesso tempo. In quel caso, ero un investitore italiano proprietario di una grossa App, che avevo sviluppato io. E tutti cercano di soffiarmela, in un modo nell’altro.
Comunque, davvero lei ha lavorato molto più con gli americani, con gli stranieri che con gli italiani, alla fine…
Sì, devo dire di sì… e non so se esserne felice o preoccuparmi. E, guardi, io vivo a Roma, non è che sto in America!
Non è stato mai tentato di trasferirsi dall’altra parte dell’Oceano?
Sì e no. Ho delle mie teorie su questo: non è per mancanza di coraggio, mi creda, perché ho passato una vita a traslocare da un posto all’altro. Ancora prima che facessi questo lavoro, per me è la cosa più facile era fare le valigie e andare a vivere in un altro posto, non è quello il problema. Però credo che l’Italia comunque rimanga un luogo molto interessante per il nostro lavoro. Noi il cinema lo sappiamo fare e lo sappiamo fare molto bene. Da Roma non si scappa, da questo punto di vista. Ora incrociamo le dite affinché la signora Meloni non uccida questo Tax credit che è quella cosa per cui il mondo anglosassone, la produzione anglosassone, passano di qui per poi produrre i loro prodotti: ed ecco qua che danno, direttamente o indirettamente, opportunità ad attori come me e altri di avere accesso a queste cose. Io ho anche un’agenzia in Inghilterra e una in Spagna, però. Magari non lavoro così tanto con gli italiani, ma è stato comunque l’essere italiano, l’essere a Roma, che mi ha aperto le porte anche al mondo estero, paradossalmente, da qui.
Non ha il sogno nel cassetto di passare dall’altra parte della barricata e di diventare regista? Non è mai stato tentato da questo?
Io credo che ogni attore abbia un regista dentro di sé, c’è chi poi lo fa o chi non lo fa. Noi raccontiamo storie che magari ha scritto qualcun altro, però le interpretiamo. Ed è naturale che col passare del tempo, con l’esperienza, dopo aver letto 1000 copioni, visto 1000 film, uno pensi: “Vorrei raccontare la mia, di storia…”. quindi, perché no? Le dico la verità: io e la mia compagna siamo entrambi attori e quindi ce lo diciamo spesso, che dovremmo fare qualcosa di nostro, raccontare qualcosa che viene da dentro di noi e tramutarlo in immagini. Ma credo che questa sia una pulsione che ogni attore ha a un certo punto…
Avete mai lavorato insieme con la sua compagna?
Sì, ha lavorato su Diavoli anche lei., ma non abbiamo avuto scene insieme. Lei è inglese, si chiama Didi Anderson…