Maestro Di Silvestro
Rino Di Silvestro, l’uomo che ha inventato la Lupa Mannara, raccontato le carceri femminili, esplorato mondi tossici e prostitute minorenni.
Rino Di Silvestro ha fatto cinema estremo, folle, maniacale. Ma, a suo modo, lo ha fatto con una certa lucidità. E, ovviamente, credendoci.
Di Silvestro ha lavorato per anni come press-agent, ha seguito Anna Magnani a Stromboli nella sua lotta contro Ingrid Bergman, sosteneva di aver scritto circa 200 sceneggiature da “negro”, ma non sono riuscito a capire bene quali, a parte un western diretto da Vincenzo Musolino. Quasi tutta la sua attività di regista si svolge tra i primi anni ’70 e i primi anni ’80. Di tre film non mi ha parlato, Baby Love, Bello di mamma e I sogni erotici di Cleopatra. Ma non li amava. Quella che segue non è proprio un’intervista, è una serie di ricordi di un regista che si sente ancora in forza e vuole spiegare le proprie ragioni.
Ci spieghi cosa è il tuo cinema e come nasce nei primi anni ’70?
Il cinema di allora, tolti quei quattro o cinque nomi, De Sica, Fellini, Rossellini, Rosi, era di levatura molto provinciale. A me di fare le cose tanto per farle non andava bene. Lì veniva fuori la mia natura di perfezionista. Io ero pagato per fare certi film e legavo l’asino dove voleva il padrone, ma fra le righe mettevo sempre il messaggio, la battuta… Tutti i miei film hanno un messaggio forte. Chi ha visto Diario segreto di un carcere femminile mi ha detto: «Ma come hai fatto a fare passare certe cose?». Lì, però, il nudismo, l’atto lesbico, erano forme di contatto umano. Fuori dal carcere, quando uno può scegliere cosa fare e con chi andare, diventavano atti di perversione. Ma nello stato di cattività, dietro le sbarre, anche la mano di una donna a una donna, di un uomo a un uomo diventano solo contatto umano. Ma la forza del film è un’altra. E non è stata capita. Hanno preso tutti un abbaglio. Non si sono accorti che io ho fatto il direttore del carcere che è un capomafia, uno che fa morire la gente. È possibile che a tutti sia sfuggita una cosa del genere?
Perché volevi fare un film carcerario?
Perché io ero sollecitato a fare una cosa esagerata e il carcere femminile mi portava a farla. Tanto rischiavo in prima persona. Lo avevo trovato io lo sconto di 40 milioni di cambiali che mi aveva data la Medusa. Questo era un film fortissimo. Mi dissero: «Ma qui si va in galera subito!». Certo, se disgraziatamente in commissione censura mi avessero bocciato il film io ero finito, perché ero stato io a firmare le cambiali! Avevo trovato una fideiussione di un mio amico che mi fece uno sconto, mi offrì un castelletto. Ma volevo dimostrare che potevo fare un film diverso da quello che tutti si sarebbero aspettati.
Il film andò bene?
Andò talmente bene che fu una cosa esagerata anche per me. Superò il miliardo. In quel periodo andava tutto male. Gli unici due film che andarono bene furono Malizia e Diario segreto. Il resto non esisteva.
Fu anche il primo del filone carcerario…
Esatto. Almeno fatto in questa maniera. Crudo, amaro, scarnificato. Anche la sceneggiatura era sintetica, scarnificata. L’avevo scritta segnando i primi piani, i movimenti di macchina, tutto, per fare capire ai produttori, a chi avesse messo i soldi, i veri costi.
Mi racconti del cast, delle tue attrici, Anita Strindberg, Eva Czemerys, Bedi Moratti…. Chi funzionò meglio?
Tutte. Ti posso dire che dopo un giorno erano diventato tutte delle vere carcerate.
E come hai fatto?
Non lo so. Io avevo un modo di dirigere viscerale, le scene le interpretavo prima io, poi loro. Stavo loro sempre addosso, era questo il mio modo di fare la regia, un po’ particolare. Ero sempre spinto dal fatto che dovevo esagerare. Per me era una sfida…
Quale scena o quali scene sono state le più complesse, le più forti?
La scena più forte è stata quella degli idranti. L’ho girata in condizione disastrose, perché c’era un’altra produzione che incalzava e doveva prendere il mio set. Stavano facendo una costruzione e io non avevo quasi più spazio. Mi era rimasto un solo giorno per girare quella scena. Il mio set era sempre più stretto. Allora decisi di fare un totale e dei primi piani, con due macchine. Alle attrici dissi: «Io la scena ve la dico, ve la ripeto, ma se sbagliate, se fallite, io sono rovinato, perché io questo set domani non ce l’ho più. Quindi non sbagliate». Alla Mistica, che era Cristina Gajoni, che mi faceva appunto il personaggio della Mistica, le dissi: «Ascoltami, a un certo punto io chiudo su di te e tu, siccome sei la Mistica, con tutte queste che urlano “Fammi una doccia al culo!” e questo e quest’altro, metterai le mani giunte e pregherai». E mentre queste urlavano, si spogliavano, esageravano perché io le avevo caricate – «Che scena! Che scena!» – ebbene, questa si inginocchia, sotto le scariche degli idranti, giunge le mani e prega. E io ho fatto fare una zoomata su di lei. Voom! E con questo ho chiuso la scena e non se ne parlava più. Perché ormai era finita la giornata e non si poteva fare niente altro.
La più brava chi era?
Tutte, tutte quante. Io sono rimasto colpito da Bedi Moratti, dalla sua personalità, dalla sua bravura. Lei aveva un personaggio tosto da fare, l’Incendiaria. Doveva essere una pazza, una piromane. Era sempre sotto controllo, guai a mollarla un secondo. E lei era una dura, anche con se stessa. Il primo giorno alla De Paolis, all’ora di pausa tutte le attrici dovevano mangiare assieme a me. Io ci tenevo che fossimo tutti insieme a mangiare il cestino. Le contavo. Erano una marea. Mentre mangiavamo mi veniva da dar loro dei consigli, tu puoi fare questo, tu fai quest’altro. Quando, a un certo punto, l’assistente mi dice: «Maestro, scusi, ma Bedi Moratti sta andando via». «E dove va?», gli dico. Io esco subito, la raggiungo. «No, no, tu stai qui», le dico. «Che vai via? E come faccio poi, se c’è una cosa da girare che creo per te e non ti trovo?». Rimase lì e fu bravissima.
Il tuo secondo è Prostituzione (1974) …
Lì ho avuto un’occasione enorme. La struttura produttiva era la stessa di Diario. Però il budget era più sostanzioso, anche il minimo garantito era maggiore del film precedente e anche la mia parcella era più alta. Però ho dovuto un pochino sputtanarmi, nel senso che ho dovuto accettare delle concessione al folklore della storia. Io avrei spinto su altre cose. Ad esempio, l’inizio l’ho girato in bianco e nero. Io stesso intervisto una ragazza, un’attrice che fa una prostituta, e le chiedo: «Cosa è che ti fa paura?» E lei mi risponde: «La sifilide e la solitudine». Infatti il film si doveva chiamare La solitudine. Ma mi dissero che non funzionava e lo cambiammo in Prostituzione.
Anche questo era un film forte?
Sì, con molti problemi di censura. Anche lì ho dovuto lottare, allora l’autore lottava con i componenti della commissione di censura, doveva fare una relazione, rispondere a certe domande, era come un processo. Però se si veniva bocciati si doveva andare in doppia commissione e era ancora più pericoloso. E io in qualche misura l’ho un po’ pulito, mi sono autocensurato. Perché allora si rischiava grosso. E siccome il budget era più alto, la produzione aveva paura del blocco della censura. E infatti il film fu bloccato. E avemmo un processo all’Aquila. E ci difese un famoso avvocato del cinema, Massaro, che fece una bella arringa. Ma quando il giudice dell’Aquila vide il film, ci disse che non occorreva neanche questa arringa. Perché se il titolo era quello, Prostituzione, e la storia era quella, era evidente che il film dovesse trattare questi argomenti. Ma non c’era niente di spinto. Io avevo avuto coscienza e rispetto per coloro che avevano messo i soldi nel film e avevo cambiato completamente certe situazioni troppo esagerate. E quindi il film uscì regolarmente.
Anche questo cast è tutto al femminile, Maria Fiore, Magda Konopka, Orchidea De Santis… tutte ragazze diverse da quelle del film precedente. C’è anche Raffaele Curi, che ora cura eventi per le Fendi…
Sì, sì, fa una scena bellissima.
Quale sono le scene che ricordi di più?
Quella a Villa Borghese di notte. Ma tu sai in termini di costi che significa illuminare tutto il viale di Villa Borghese lungo due-tre chilometri? E io sul Chapman che saliva su fino a cento metri… Poi andavo a carrellare su una prostituta, da una parte, dall’altra, di dietro, davanti e poi zoom… e poi riapro fino a prendere tutto il viale. Era una scena difficoltosa. C’è voluta tutta la mia esperienza, la mia abilità. Tre notti per girare solo quella scena.
Andò bene il film?
Andò tanto bene che la distribuzione prese il suo, la produzione pagò tutti e io ebbi il mio compenso.
E l’interpretazione di Maria Fiore come venne accolta?
Dopo l’uscita del film, sul Messaggero la celebre posta di Berenice venne invasa da una montagna di lettere di prostitute che lodavano la sua interpretazione. Tutte si identificavano con lei. Con questa donna non più giovane, con una figlia e un giovane amante che, alla fine, scappa proprio con la figlia. E lei rimane sola. Maria Fiore ha grandi scene, specialmente quando urla e piange quando scopre che la figlia la sta abbandonando con il suo uomo.
In fondo è lo stesso terreno di Pasolini, no?
Sì e no. Pasolini faceva film di grande semplicità. E poi Pasolini era casto, riservato. Eccedeva negli aspetti folkloristici della prostituzione, per poi costruire delle situazione collettive dove i drammi personali nascevano da una situazione di dramma sociale collettivo. Ma Pasolini non si preoccupava del visivo. Il mio film, invece, è tutto visivo. Nel senso che nel mio film il nudo è nudo, la marchetta è marchetta. Non riuscivo a far passare una cosa per un’altra. E questa specie di crudezza, di realismo era il massimo che io potevo concedermi per rispettare la tabella di marcia senza andare oltre, per rispettare i finanziatori. Ma nello stesso tempo il messaggio passava, fino alla conclusione della solitudine finale. I miei film sono tutti un po’ amari, come è la vita. Non per essere pessimisti, ma è la vita che è amara, crudele, la dolcezza ognuno se la trova individualmente.
Mi parli di La lupa mannara (1976) che è un horror psicologico molto strano e di grande culto?
Sì, era molto strano. In questo film c’era la scienza, la leggenda, il mito, ma anche la parascienza, la psiche. Nella trasformazione della donna in lupa c’era il sogno, l’analisi, ma nello stesso tempo c’era anche la realtà chimica, scientifica. In effetti c’è una tale carica quando si sente l’influenza lunare che fisicamente cambia aspetto anche il volto. E c’è uno stretto legame tra la psiche e il sogno.
Come hai trovato la protagonista, Annik Borel?
Mi è capitata per caso. Io cercavo un’attrice strana per un personaggio strano e c’è stato strano anche il nostro incontro. Stavo mangiando in un ristorante e lei stava mangiando con un mio amico. L’ho vista, bella, alta, intensamente triste, insoddisfatta. Questo viso doveva piacere a tutti. E lei sarebbe piaciuta a tutti. Il cinema ha delle leggi universali. Il cinema è volto e volto. Infatti il cinema è finito da quando non ci sono più veri volti. Lei era diventata la lupa. Io quando le raccontai la storia mi disse: Ma sì, lo accetto anche gratis perché io dentro mi sento una lupa! Ah! Non lo avesse mai detto!
Annik Borel era il suo vero nome?
Sì, sì. Era svizzera [in realta’ francese, nata a Besançon], poi sparì, non fece più niente [in realta fece altri due film, un porno in Grecia e uno in Francia con Jean-Marie Pallardy]. In un’intervista che mi fecero, mi uscì una battuta che forse era infelice, ma toccante. Mi chiesero se sapessi dove era finita e risposi: «È andata a fare la lupa mannara in giro per il mondo». Tino Carraro, invece, era l’unico attore che potesse fare il padre della lupa. E glielo dissi con tutto il rispetto che avevo per lui, che era un grande attore di teatro. Io lo mettevo a suo agio, perché lui non era proprio un attore cinematografico. Gli spiegavo che certe battute non andavano recitate da attore teatrale. Perché anche gli spettatori cinematografici sono diversi dagli spettatori teatrali e non apprezzano le battute dette teatralmente. O una certa postura. Gli dissi: «Levati tutto. Trasformati in lupo, per favore. Diventa il padre, un lupo padre!». Battuta scherzosa ma fino a un certo punto. Fu fantastico. Altro attore straordinario di quel film fu Frederick Stafford, che allora andava per la maggiore. Fece il commissario che segue l’indagine. Aveva questo volto marcato, bellissimo. Ricordo anche Dagmar Lassander. Di una bellezza sconvolgente. L’ho fotografata in tutto i modi possibili che mi permettesse il cinema. Nuda, vestita, davanti, di dietro, di sotto, di sopra. Era bellissima, una dea della bellezza. E brava. Il film andò benissimo.
Le deportate della sezione speciale SS, (1976) invece, era un film del genere nazista che andava di moda allora…
Il contratto tra il regista e il produttore è micidiale in Italia, perché il produttore ha in mano il film in maniera assoluta. Ha la possibilità di imporre qualsiasi cosa. Il mio produttore era Giuseppe Zaccariello, quello che aveva messo i soldi per A ciascuno il suo di Elio Petri. Lo conobbi a Cannes o a Venezia e gli parlai di questo progetto. Gli parlai del periodo nazista che si poteva far passare sì come evento storico, ma anche come evento umano. Un ruolo chiave aveva il cattivo, John Steiner. Perché nel mio film la cattiveria stessa aveva aspetti umani, perché il cattivo ha una coscienza.
John Steiner mi dava la sensazione di poter essere cattivo in ogni sua emozione. Aveva quella risatina acida. Ma era cattivo sempre, se era serio, se rideva, era la prova che la lucida cattiveria esiste. Lina Polito doveva fare invece la giovane ebrea. Era una grande attrice napoletana, aveva lavorato già con Lina Wertmüller, era logico che potesse fare la piccola ebrea che alla fine salva tutti. Ma si terrorizzò quando lesse il copione. Soprattutto per le scene di nudo. Io le dissi, e poi lo feci aggiungere sul suo contratto, che non avrebbe mai girato completamente nuda, ma alla fine, sullo schermo, sarebbe apparsa come se lo fosse stata. Lei aveva una piccola copertura, un triangolino sul pube e le stellette sui capezzoli. Io la inquadrai in maniera tale che non si vedessero mai queste coperture. E alla fine sembrava nuda, ma non lo era. Le dissi: «Si vede il pube? No. Il sedere? No». «Ma come hai fatto?», mi chiese. Comunque era altamente professionale.
Era un film molto spinto, no?
Era fortissimo. C’è stata una scena che faceva partire sempre gli applausi da parte del pubblico. Quando lei si vendica sul comandante del campo, che aveva conosciuto prima della guerra e poi aveva ritrovato lì. Ha idea di conciarlo per le feste, ma lo deve fare in modo da dare il tempo alle ragazze del campo di fuggire. Era stato Rik Battaglia che aveva indicato alle ragazze il corridoio segreto dal quale potevano fuggire. Ma avevano bisogno di tempo. Allora lei prende un tappo di sughero di bottiglia, poi rompe in due una lametta, ne fa una croce e la infila sulla testa del tappo. Dopo se la infila nella vagina. Questa scena è accompagnata dalla fotografia maestosa di Sergio D’Offizi e dalla dolcezza musicale. Questa introduzione del tappo è come se fosse un rito. Poi prende un bel vestito, se lo infila e inizia a camminare per andare dal comandante che la sta aspettando. Le dissi: «Fai come se avessi veramente qualcosa nella vagina». Il pubblico seguiva attentamente questa scena, anche dopo, quando arriviamo alla penetrazione. La prima volta, rimane impassibile, perché il primo taglio quasi non si sente, ma la seconda volta che entra dentro, il pubblico già sa che il membro, il glande si è squarciato in quattro parti. E allore esplode in un applauso. Io ho voluto mostrare la cattiveria pura. La cattiveria che non ammette parentesi o ripensamenti.
Mi parli di Hanna D. – La ragazza del Vondel Park (1983) e della sua protagonista, Ann Gisel Glass? Ricordo che lei fece grossi film dopo il tuo, Detective di Godard, Le tentation d’Isabelle di Doillon, Desordre di Assayas.
Hanna D era un angioletto in un inferno. Ann-Gisel Glass era perfetta. Non ricordo se avesse fatto qualcosa prima del mio film. Lei era entrata in questo personaggio come se lo avesse già vissuto nella realtà. Non ho indagato su di lei e sul suo passato, magari nei suoi incubi, nelle sue cavalcate oniriche, c’era qualcosa che lei già sapeva di questa ragazza che vive la sua attività di prostituta appagata. In una scena lei piange in sincronia col movimento della copula. Lei mi chiese di non metterle nessun trucco sul volto. Accanto a lei c’era Sebastiano Somma che fu straordinario. Per lui credo che fosse il primo film. Era una persona educata, onesta e professionale.
E di Karin Schubert, che fa la madre, che ricordi? Allora era molto attiva nel porno.
Karin Schubert la presi proprio perché aveva fatto quei film porno. «Entra nella drammacità della madre che ha questa spia», le dissi, «Tu, che sei così disinibita». E il ruolo me l’ha fatto bene, molto isterica, tutta tesa nella sua isteria. Brava molto brava.
E Donatella Damiani, la tettona scoperta da Fellini per La città delle donne?
Anche lì non ho abusato del fatto delle tettone. Ne ho fatto solo una disgraziata amica della protagonista.
C’erano delle versioni hard dei tuoi film?
No, assolutamente. Sai quante volte, quando facevo lo sceneggiatore-ombra, mi hanno chiesto di scrivere scene hard da poter inserire in altri film? E non l’ho mai fatto.
Ti hanno mai chiesto di girare dei porno?
C’è stato un produttore che mi chiese di girare 10 porno in non so quanti giorni. Mi disse che li potevo girare in maniera artistica. Io gli domandai: «Mi vuoi spiegare cosa intendi?». Ma poi ci rimpensai, aveva ragione lui. Da allora, per anni, ho sempre sognato di fare un film pornografico artistico e di farlo passare in censura. Non l’ho fatto perché non è mai stato il tempo giusto. Volevo usare artisticamente la pornografia. E si può fare! Si può fare vedere il membro in tutte le sue funzioni…
A te piace il cinema, ma ti piacciono molto anche le donne, mi sembra…
Sì, molto. Ho investito tutto sulla donna. Tutto. La donna può dare tutto. Non per niente partorisce. È madre e figlia.
Ci sono film che avresti voluto fare e non hai potuto fare?
Uno si chiamava La quarta generazione. Era un film sulla delinquenza minorile che ho cercato di metter su negli anni 80. Invece proprio adesso sto pensando a una cosa sulla comunicazione al tempo della web generation.