Laura non c’è…
Ma per noi ancora c'è...
Su Facebook c’è una pagina sociale dedicata a Laura Antonelli, che piace – un anno dopo la sua scomparsa – a 2004 persone. Non è un uditorio foltissimo. Credo la gestisca un inglese o forse un americano, che nella “breve descrizione” della pagina stessa scrive: «She was the most beautiful actress of the seventies. Like so many guys of my generation, i had a big crush on her. I think that i never really recovered from it. This is a fan page for those who love LAURA ANTONELLI the actress», che è chiarissimo e non necessita di traduzione. Pur vivendo su FB non conoscevo la pagina in questione. L’ho trovata cercando qualche estremità di un filo da tirare che sgomitolase suggestioni alternative alle ovvietà wikipedizzate che si sono scritte dopo la morte di Laura Antonelli, nata Laura Antonaz, 74 anni ancora non compiuti, la notte del 22 giugno 2015, verosimilmente per attacco cardiaco, nella sua casa di Ladispoli. Sola e nemmeno si può dire come un cane, perché oggi, nell’era fb, non esiste più cane che possa dirsi solo. La pagina dell’americano è interessante nella misura in cui in essa convivono le due anime del culto – chiamiamolo così – dell’Antonelli. Da una parte l’anima mistica, pia e devozionale, i Cristi, le Madonne, i padri stigmatizzati, le radio Marie, fede, speranza e carità. Quindi cuscini e corone di rose e di rosari, le preci, i post che insistono sulla pulizia di Laura, linda, candida, pura, liliale. Perché l’hanno abbandonata? eccetera eccetera. Questa è stata una linea devozionale molto seguita anche dai media, l’abbandono di Laura. C’è chi ha scritto che la morte dell’Antonelli pesa sulla coscienza dello Stato, poiché non le fu data la Bacchelli, come aveva chiesto Lino Banfi. Banfi insieme a Claudia Koll fu tra le ultime persone alle quali la Antonelli avrebbe pensato, sentendo evidentemente che la Morte la urgeva, lasciando un biglietto in cui chiedeva che i summenzionati Zagaria Pasquale e Colacione Claudia Maria Rosaria venissero avvisati. Nel frustolo di carta menzionava anche suo fratello Claudio, che vive in Canada. L’altro versante del culto antonelliano che emerge dalla sua pagina facebook è, invece, il lato selvaggio e pagano del cinema di Laura, temporizzabile nelle sue forme ottime massime per non più di un decennio, dal 1969 al 1979. Con foto rare e strane a corredo, evidentemente attinte da una collezione metodica e amorosa, di tutt’altro tenore dalle gallery che si possono mettere insieme pescando in Google image. Sfogliamole…
Laura con Jean Paul Belmondo a Cannes, nel 1974. Lei indossa occhiali da sole enormi. In un’altra serie cannense, sempre con Belmondo, è vestita da indiana. L’attore francese ha detto, solo ed efficacemente, in una dichiarazione all’AFP: «Laura è stata per me, innanzitutto, una compagna adorabile, con uno charme eccezionale. Ed è stata una partner artistica di grandi qualità, che tutti apprezzavano sui set. Voglio conservare di lei solo questi meravigliosi ricordi». Belle cose da integrare, però, con quanto raccontò Rodolfo Sonego a Tatti Sanguineti e che si legge nel bel, del Sanguineti, volume Il cervello di Alberto Sordi: la Antonelli, tanto era bella quanto neghittosa, cioè di carattere lento. E pazza, aggiungeva Sonego. «No me interesa, non me piase», rispose alle proposte che le venivano da Oltreoceano. Non ci volle andare, in America, anche se diventò un mito per Kim Basinger che una volta, dovendo elencare le ragioni per cui si era messa a fare cinema, evocò Laura, l’attrice dei suoi sogni, un modello, una Musa. Pensate voi come è strano, imprevedibile, il mondo. Ma il punto per cui si citava Sonego era un altro: una volta lo sceneggiatore di Sordi raccontò di avere incrociato la Antonelli a Campo de Fiori, la faccia una maschera blu, lividi e gonfiori. Non era ancora il Botox, ma Bebel: je menava. Seguendo il binario degli amori e delle frequentazioni pericolose, deraglieremmo chissà dove. Lasciamo quindi stare e torniamo a FB. Tantissime sono le foto di Laura di quando faceva i fumetti come si chiamavano in quel tempo remoto i fotoromanzi. Su Caballero, formato pocket tascabile, era una spia sexy, ma non mostrava niente di più che qualche timido topless tangato anche se quelli che scrivono solo per sentito dire hanno menzionato nudi integrali. I primi frontali di pregio arrivano con Venere in pelliccia e poi con i grandi film degli anni Settanta, tra i quali, al netto di Malizia, non è possibile non prediligere la linea dannunziana di Giuseppe Patroni Griffi e Luigi Comencini con Divina creatura e Mio Dio come sono caduta in basso! – che per noi maniaci sessuali è anche importante nella misura in cui è uno dei pochissimi film in cui la Antonelli si abbandona al lesbo, con Karin Schubert («Quel piacere che appaga ma non soddisfa» cito a memoria per cui potrebbe anche essere «che soddisfa ma non appaga»).
Commentando una vecchia foto in cui Laura è con Bebel, Claude Chabrol e Mia Farrow, un utente spagnolo della pagina FB la rassomiglia a un modello di bellezza degno di un quadro di Raffaello. Una verità espressa con efficace semplicità e che ci dice anche perché Laura non avesse la prorompenza carnale che era invece di altre, meno avvenenti, colleghe del periodo. Su questo punto specifico va riconosciuto un prima e un dopo, tra il cinema che la Antonelli fece negli anni Sessanta e quello successivo. Giovane, con i capelli lisci e doppiata, se vogliamo anche più anonima rispetto alla fase classica, meno specificata, meno “Laura Antonelli”, invitava al peccato con caratteri come quello di Wanda in Massimo Dallamano – film che lei a un certo punto disconobbe, perché sostenne di essere stata raggirata e interpolata con del materiale eterogeneo e forse era vero – e quello di Gradiva nell’omonima pellicola di Giorgio Albertazzi, che spacca esattamente i due decenni, nel 1970. Dopo, con la sua voce, con le cotonature e le messe in piega, nonostante sia stato il personaggio di una servente a farne l’idolo spermatico di milioni di spettatori maschi, la sua sensualità acquisì un che di materno, una pienezza classica e composta, raffaellesca – giusto il riferimento dello spagnolo –, che sembrava più adatta alla casta contemplazione che a venire celebrata sull’altare di Onan. E non è forse nemmeno un caso che più che a schivare lei la commedia pecoreccia o pecorina, sia stata quest’ultima a schivare Laura, perché il genere sapeva dove doveva e poteva prendere il proprio bene. Certamente, Il merlo maschio è Il merlo maschio, ed è lì a ricordarci che un nudo dell’Antonelli era comunque miracolo tale da far resuscitare i morti – «Guardala nuda», fu ciò che suggerì Pasquale Festa Campanile a Lando Buzzanca, che al principio non voleva la Antonelli come partner nel film e lui la guardò e cambiò idea all’istante, Lando il montatore. E l’immagine che persiste è tanto quell’otto di carne dalle curve perfettissime e vellutate, suonato a mo’ di violoncello, quanto il viso velettato di crespo di Giuliana Hermil nell’Innocente di Luchino Visconti che nel viso di Laura rivedeva il viso della Madre.
Spulciando giornali dell’epoca, scopro che venne alzata della polvere sgradevole intorno alla partecipazione di Laura all’Innocente. Un paio di critici cinematografici riportarono commenti poco lusinghieri che il Duca di Grazzano Visconti avrebbe riferito a proposito dell’attrice. Luchino smentì ufficialmente e seccamente e la Antonelli sporse querela per diffamazione contro chi aveva pubblicato la notizia. Un episodio stupido e insignificante, nemmeno da citare se non, forse, per prendere il polso a una certa tendenza, di chi scriveva di cinema allora, alla ginecofobia e al disprezzo delle donne, sensibile anche nelle recensioni dei pochi critici che non appartenevano alla categoria dei menni o spadoni. Sfogliamo: lo sguardo al cajal di Laura sulla spiaggia di Fregene, anno 1968, durante la lavorazione di La rivoluzione sessuale di Riccardo Ghione, film per il quale occorrerebbe portare a termine la stessa operazione fatta qualche anno fa per Venere in pelliccia, riesumando una versione non purgata come quella uscita dai forzieri del Centro Sperimentale, che vanifica tutte le attese che le immagini pubblicate sulla stampa di settore dell’epoca promettevano. Set di foto da identificare, in cui Laura, i capelli lisci e biondi – quindi a occhio dovrebbe trattarsi del 1967 o 1968 –, si cimenta con la pittura in atelier. La camicia aperta poggia leggera sul profilo del seno, c’è la vaga idea di un capezzolo ritto; e lì si comprende che se mai una metonimia ha potuto essere applicata a una donna in maniera convincente, il seno di Laura Antonelli era realmente una parte santificante che definiva il miracolo del suo tutto. Altra foto da Sledge, firmato (ma si dibatte su chi gli abbia dato una mano e c’è in lizza persino John Sturges) da quel povero diavolo di Vic Morrow che sarebbe finito decapitato da un elicottero diversi anni dopo il 1970, quando venne in Almeria a dirigere per De Laurentiis questo western con Laura, con James Gardner e Wayde Preston. Giusti nel suo Dizionario la definisce “bonissima”, la Antonelli old school con i capelli biondi, e ricorda che arrivava allora dai caroselli della Coca Cola insieme a Fabio Testi.
In America si preclusero la possibilità di ammirare la Antonelli, tagliando via una lunga scena con lei, scrive sempre Giusti. Doveva avere qualche costellazione contraria ai rapporti con gli States, Laura Antonaz nata a Pola sotto il segno del Capricorno, il 28 novembre del 1941. Sfogliamo: ecco la capture della prima apparizione certificata della Antonelli sullo schermo, convitata a una festa nel Magnifico cornuto di Antonio Pietrangeli, anno 1964. Sfogliamo: Laura con sul viso e sulle labbra lacrime di sperma nell’eccentrico Simona di Patrick Longchamps, un belga ardimentoso che portava sullo schermo L’histoire de l’oeil di Bataille. Distribuito in italia dopo Malizia non fece una lira, nonostante lei, invece, facesse moltissimo. Ma il suo pubblico, più che non capirla, non la accettava nella chiave troppo surreale e scatenata del film. Laura, per funzionare, doveva conservare sempre il modus in rebus, se scartava, si spingeva, osava, tralignava, eccedeva, si avvertiva subito che qualcosa non andava, che il motore era andato fuori registro e si imballava. Sfoglio, di conseguenza, arrivando a Mogliamante di Marco Vicario, l’ultimo dei film del lignaggio fin de siècle, che è in fondo anche l’ultimo film bello pieno e ricco dell’attrice, prima che intervenisse la dimidiazione degli anni Ottanta nelle commedie patinate condivise con tutti e nessuno, con i Johnny Dorelli, i Lino Banfi, i Paolo Villaggio. E una volta arrivati a questo punto, non c’è più nessuna foto da sfogliare…