Mine
2016
Mine è un film del 2016, diretto da Fabio Guaglione e Fabio Resinaro
Finisce in trappola chi la trappola ce l’ha dentro. Il trabocchetto scatta se ad azionarlo sei tu stesso. Il meccanismo della botola lo inneschi tu. Il fabula docet di questo Mine (che non va pronunciato all’italiana, femminile plurale, ma all’inglese, femminile singolare) è molto chiaro. Trattasi di un assunto filosofico ad illustrare il quale i due Fabi, Guaglione & Resinaro, dispiegano un impressionante lavoro registico e immaginifico che sembra arrivare da altri tempi, da altri concetti di cinema. Armie Hammer è un cecchino americano che ha fallito una missione, ha recalcitrato di fronte a un ingaggio, consistente nell’abbattere il padre, lo sposo e la sposa in un coloratissimo matrimonio berbero celebrato nel deserto. Perché non ha tirato quel grilletto, lo capiremo più avanti, quando l’ordigno che dà il titolo al film, mimetizzato tra la sabbia, finisce sotto lo scarpone di Mike. Un click dopo il quale, virtualmente, non c’è futuro, il presente si ghiaccia in un istante infinito e ritorna invece alla carica il passato, il concatenarsi delle cause prime che lo hanno portato a calpestare la morte nel cuore assolato del Nulla.
Arnie Hammer è visibilmente una figura cristologica, ridotto nell’isolamento forzato del deserto non per quaranta giorni ma solo per 52 ore – d’altronde, la partita che giocava il Nazareno era un po’ più impegnativa – al fine di purgare e mondare i sedimenti della sua vita trascorsa. Giorni segnati dalla vampa del fuoco solare e notti trascorse a difendere il cerchio della propria esistenza dall’assalto di demoniaci licaoni. Esattamente come colui che Lentulo disse che di rado fu visto ridere ma in compenso fu visto spesso piangere. I registi confermano che una lettura sapienziale e in qualche modo iniziatica del plot non solo è legittima ma persino auspicabile. Perché Mine non è un qualunque Passo falso – Piegé che si ferma all’apparenza delle cose, alla fenomenologia della trappola, ma procede oltre e scavalca la banalità mortale della lettera, nutrendosi della più profonda vivificazione dello spirito. Hammer è grandioso – va detto –, perché ha la rara capacità con la sua sola presenza di rimandare ad altro, di alludere a tutti questi secondi significati che non sono solo le fisime di qualche esegeta fantasioso ma che i due Fabi hanno allusivamente e sagacemente intercalato nel loro lungometraggio, come un guanto di sfida a chi lo guardasse convinto di trovarci soltanto quel che sembra esserci.
Il trucco è restringere per allargare, levare lo spazio della manovra esterna, bloccando il piede sul detonatore fatale, per amplificare ed enfatizzare il moto interno che porta Mike a fare i conti con se stesso una volta arrivato al capolinea. Il livello due, con le retrospezioni, i transfer e la ricerca dei passi dimenticati, sprecati o perduti. Presenze sciamaniche e fantasmatiche si affollano sul palcoscenico di quella infinita distesa di sabbia alla quale possiamo agganciare tutti i simboli che vogliamo. Ma a colpire è anche, in Mine, lo studio e la riflessione dietro certe inquadrature incastonate nello sfondo di Forte Ventura, quando i lemuri del passato di Mike gli si avvicinano come scivolando fuori dalle dune, nel finale climax armato di un sorprendente twist. L’unico in grado di chiudere degnamente e filosoficamente, l’operazione di Mike nel (suo) deserto.