Esci da questo schermo!
Il possession movie degli anni Duemila: da L'esorcista - La genesi a Crucifixion di Xavier Gens
Urla sovrumane. Bestemmie da scaricatori di porto. Contorsioni olimpioniche. E tanto, tanto, ma proprio tanto vomitazzo verde da non sfigurare al cospetto di un corposo minestrone di piselli. Dinnanzi a una scena del genere i casi sono due: o la nostra gustosa peperonata ha letalmente sortito i suoi spiacevoli effetti collaterali, oppure il caro vecchio Satana, dopo aver chiuso ben bene le cocenti porte dell’Inferno, ha deciso di salire a farci un salutino, prendendo momentaneamente in prestito la carne e le ossa di qualche povero Cristo di passaggio. Una situazione con la quale ci siamo trovati spesso ad avere a che fare sui grandi e piccoli schermi degli ultimi anni, a dimostrazione di come, in gran barba alla dilagante crisi occupazionale, Belzebù e la sua assatanata combriccola di lavoro ne hanno a bizzeffe, avendo buttato letteralmente nel cesso i disperati sforzi del mastodontico Schwarzy, il quale, con End of Days (1999), giusto a fine millennio passato, si era prodigato per scongiurare la Fine dei Tempi, ricacciando i satanassi nella loro bollente cuccetta. Preso atto di ciò, ora la domanda sorge più che spontanea: in che modo Sua Altezza Infernale si è cinematograficamente affacciata al Ventunesimo secolo? Beh, diciamo pure in maniera non proprio brillante, constatando che il primo possession movie degli anni 2000 è nientemeno che un mestissimo prequel, per giunta della pellicola demoniaca che per prima, nel lontano 1977, ha saputo sdoganare su celluloide le pazze scorribande intracorporee del Signore delle Mosche. La gestazione di L’esorcista – La Genesi (2004) appare fin da subito maledetta tanto quanto il tema trattato, un funestato progetto elaborato in prima fase nientemeno che da Paul Schrader con il titolo Dominion: Prequel to the Exorcist per poi essere interamente rigirato da Renny Harlin, a seguito dei musi lunghi e dei brontolii di pancia della casa produttrice. Tutto ‘sto bordello per poi, inspiegabilmente, distribuire entrambe le versioni a distanza di appena un anno. Morale della favola: stessa trama (più o meno) incentrata sulle vicissitudini giovanili del fu Padre Merrin e, immancabilmente, stesso mortificante flop. D’altronde, si sa, di Friedkin ce n’è uno e uno solo!
Ma non disperiamo, poiché Belzebù ha modo di salvarsi in corner dal battesimo dell’Anno Zero grazie allo scossone autoriale di Requiem (2006), un tesissimo dramma psicologico modello Haneke mirabilmente girato da Hans-Christian Schmid, ispirato alla controversa e drammatica storia vera di Anneliese Michel, giovane adolescente epilettica che, nella gelida Germania Ovest degli anni Settanta, si congedò anzitempo dal mondo a seguito di un intenso esorcismo praticatole a seguito di (presunti) incontrovertibili sintomi di possessione. Ma si sa che il Diavolo soffre di manie di grandezza e quando vuol far parlare di sé non si rivolge certo ai soporiferi drammi d’autore, ma piuttosto all’horror come Cristo comanda. Perciò non stupisce affatto che lo stesso tema, rimaneggiato in chiave possession legal drama da Scott Derrickson con L’esorcismo di Emily Rose (2005) e abbondantemente speziato dalle lugubri contorsioni spaccaossa di Jennifer Carpenter, abbia sbancato i botteghini e creato un autentico culto popolare, prontamente acchiappato e monetizzato dal becero rip-off di stagione Exorcism: The Possession of Gail Bowers (Leigh Scott, 2006) made The Asylum. Circumnavigando i patti satanici – con relative possessioni di sghimbescio – messi in atto dalla cricca familiare di The Covenant (Renny Harlin, 2006), i demoni 2.0 si mostrano ben presto insofferenti alle forme cinematografiche tradizionali, rivelandosi invece ben disposti verso nuovi gingilli postmoderni come il found footage e il mockumentary. A tal proposito, tirare in ballo il fenomeno Paranormal Activity equivale ad aprire un nuovo prolifico – e alquanto redditizio – capitolo dei “film assatanati” degli anni Duemila, il quale, nel bene e nel male, ha saputo infondere un cieco terrore dinnanzi all’uso improprio di webcam e telecamere a circuito chiuso. La creatura seriale partorita nel 2007 da Oren Peli e nutrita dai dollari di Jason Blum, di per sé non ci favella nulla di nuovo: la solita storiella di un ancestrale e cattivissimo demone che, a seguito di oscuri patti di sangue di seconda e terza generazione, molla baracca e burattini per trasferirsi in pianta stabile nel corpo di una inerme donzella, costringendola a compiere le peggio cose al calare delle tenebre. Ma la vera novità, capace di causare a suo tempo paura e panico, sta tutta nell’estetica scelta: un videocamera a infrarossi che, col favore del buio, registra le scorribande notturne del satanasso in guisa umana. Va detto che dopo sei capitoli, innumerevoli rifacimenti tra il serio e il faceto, e una saga spuria parallela dal titolo di Paranormal Entity, il gioco ormai non vale più la candela già da un pezzo. Nessuno tuttavia può negare che, da qui in avanti, niente sarà più come prima, specialmente davanti a un monitor.
A riprova di ciò, nel 2010 Daniel Stamm con L’ultimo esorcismo sceglie la formula ormai virulenta del finto documentario per raccontare in pseudo prima persona l’ennesimo esorcismo impartito a suon di acqua santa e roboanti sermoni da uno scafato sacerdote. Il tutto ai danni di una bella maledetta abitata dal demonasso di turno, all’insegna di fuori fuoco e sballonzolamenti di macchina capaci di richiamare in vita i resti del cenone di Capodanno. A distanza di tre anni, col sequel The Last Exorcism – Liberaci dal male, il saggio Ed Grass-Donnely ha tuttavia la brillante idea di lasciare nel cassetto il POV della scecherante macchina a spalla in favore di un canonico raccontino, incentrato sulla solita solfa e sul solito zolfo. Ma nel mezzo, ormai, il danno è stato fatto e le conseguenze dilagano inarrestabili come un fiume in piena. Dall’ennesima trasposizione della maledetta vicenda di Anneliese Michel in Paranormal Entity 3: The Exorcist Tapes (J.G. Prest, 2011) alle geriatriche possessioni in diretta di The Taking of Deborah Logan (Adam Robitel, 2014), passando per la noiosissima trasferta vaticana di L’altra faccia del diavolo (William Brent Bell, 2012), la formula del traballante found footage e del pretenzioso mockumentary vengono massicciamente impiegati per tentare di dare sostanza a storielle molto spesso imbarazzanti, dove il copione è di fatto sempre lo stesso, al grido di “vade retro Satana….GRRRRR…leccami stracciac***i….il potere di Cristo ti espelle!”. Tutto, ca va sans dire, religiosamente ballonzolante e sfocato a più non posso. Tuttavia, in questo putrescente marasma di cavolate a circuito chiuso, ecco spuntare un timido barlume di speranza grazie a The Vatican Tapes (Mark Neveldine, 2015), dove, al di là della solita tiritera di manifestazioni sataniche catturate dal nastro magnetico, ci si trova dinnanzi a una narrazione davvero coinvolgente e, a suo modo, inquietante, la quale si fregia per altro di un epilogo davvero sbalorditivo che non manca di lasciare un disturbante retrogusto amarognolo anche dopo l’oscuramento dello schermo. Miracolo forse? Ma no, semplice botta di diabolico deretano! D’altronde anche al Diavolo, a volte, le ciambelle riescono col buco. Facendo un piccolo passo indietro, per ritornare nei ranghi del cinema cosiddetto “classico”, se si eccettuano le (dis)avventure esorcistiche di un ormai incartapecorito Antony Hopkins alle prese col fido Belzebù nell’altisonante Il rito (Mikael Håfström, 2011), qualcosina di diversa dal solito riesce a portarla certamente a casa Ole Bornedal con The Possession (2012), concentrandosi sulla suggestiva e oscura figura del Dibbuk, demone ebraico capace di infestare l’esistenza di tutti coloro entrati in possesso della maledetta scatolina nella quale il pestifero esserino ha insediato la propria dimora. Anche il buon vecchio Scott Derrickson non sta certo a grattarsi gli stinchi, e con Liberaci dal male (2014) torna a proporre una fruttuosa contaminazione fra possession movie e crime thriller in cui il confine fra naturale e sovra non appare mai chiaro come dovrebbe. E bravo Scott, continua così che sei la nostra salvezza! Sbandando fra i banali reflussi found footage di The Possession of Michael King (David Jung, 2014) e le ritrite imbarazzanti performance in After Effects di L’esorcismo di Molly Hartley (Steven R. Monroe, 2015), si giunge affiaccati e sfiniti al cospetto di due pellicole che, a dirla tutta, così male proprio non sono, non fosse che per il tentativo di aggiungere un poco di pepe a un genere divenuto progressivamente sempre più insipido. Se Chris Sparling con The Atticus Institute (2015), pescando a piene mani dal celebre Linea Mortale (1990) di Joel Schumacher, prova a immaginare una resurrezione scientificamente programmata in grado di portare indietro con sé i malefici residui di una breve ma intensa vacanza andata e ritorno all’Altro Mondo, Incarnate (2016) di Brad Peyton ci propone una saporosa e inedita figura di scaccia demoni a metà strada fra un esorcista e un ipnoterapista, capace di insinuarsi nella mente dello sfortunato posseduto per effettuare un intervento di rimozione forzata del satanasso, direttamente in loco.
Un’idea niente male davvero, soprattutto se paragonata al tristissimo espediente delle evocazioni fantasmatico-demoniache tramite la proverbiale tavoletta protagonista di Ouija (Stiles White, 2014), un orrorino in verità nemmeno poi così tanto malvagio né tantomeno mal diretto, il quale, tuttavia, paga lo scotto di opprimenti cliché ormai sclerotizzati sin dai tempi di Napoleone. Caso a sé stante riguarda invece il poliedrico e brulicante universo de paura ipotecato da Sua Eminenza del Brivido James Wan grazie al crossover delle saghe di The Conjuring, Insidious e Annabelle, dove la tematica della possessione viene declinata in tutte le possibili salse, colpendo indiscriminatamente frugoletti comatosi, inquietanti bambolotti antropomorfi e intere magioni, costringendo i nostri spiritisti/medium/esorcisti di turno a danteschi viaggi nelle selve oscure del male per ricacciare il Demonio nella putrida latrina dalla quale è fuoriuscito. Ma attenzione, perché nemmeno le bonarie suorine si salveranno dall’attacco frontale dei famelici satanassi! Così come ben esemplificato dal sacrilego The Nun – diretto da Corin Hardy come spin off di The Conjuring – Il Caso Enfield –, le devotissime spose di Gesù diventano presto il bersaglio prediletto dei pazzi divertimenti del famelico Valak, divoratore di cadaveri esperto nel portare con gran successo il proverbiale Diavolo in corpo e, per giunta, in convento, obbligandoci d’ora in avanti a pensarci su due volte prima di accostarci senza paura ai misteri del confessionale. Ma se per lungo tempo la fama del Principe delle Tenebre è stata narrata attraverso la formula del falso documentario, con Liberami (2016) la simpatica Federica Di Giacomo ci proietta a capofitto nella grottesca realtà di un Sud d’Italia ossessionato dal Demonio ancora alle soglie del nuovo Millennio, relazionando di surreali pratiche esorcistiche, a cavallo fra ancestrale tradizione e ridicola modernità, messe in atto dalla popolazione per scacciare il Male dalla propria casetta. Fra scompiscianti esorcismi in diretta telefonica degni di una commediola di Lino Banfi, deliranti liturgie di gruppo con tanto di confessioni su prenotazione e il giullaresco Padre Cataldo a fare da mattatore assoluto, si assiste allibiti a un qualcosa di davvero unico, dove parodia (voluta?) e realtà (ricostruita?) si fondono senza soluzione di continuità, causando non pochi mal di pancia alla buon anima ormai trapassata del grandissimo Padre Amorth, uno che, quando era il momento di far sbaraccare il satanasso, non aveva certo bisogno di una ricarica Vodafone. Tanto si è detto e tanto di più è necessariamente stato omesso al riguardo dei Belzebù su celluloide, a dimostrazione di come le diaboliche visite a tradimento, con relativo insediamento abusivo, del Signore delle Mosche abbiano dato vita a un genere spremuto, rigirato e sfruttato peggio di un giacimento di petrolio in Texas, troppo spesso piegato ai capricci del Dio Denaro ma capace, a volte, di partorire anche piccole gemme preziose. E se, a riprova di ciò, le immonde imprecazioni diavoloniche evocate da Dierdrik Van Rooijen con L’esorcismo di Hannah Grace (2018) non sono certo passate inosservate al cospetto delle nostre attente cinefile cigliette, l’idea che il Re Mida della Nouvelle Horror-Vague Xavier Gens si stia preparando a profanare i candidi schermi col suo attesissimo Crucifixion – Il male è stato invocato, distribuito in Italia da Adler Entertainment, è qualcosa capace certamente di mandare su di giri persino gli industriosi lavoratori dei gironi infernali, tirati finalmente in ballo da uno che, quando gira, non si preoccupa certo di lesinare su tutti i sacri e blasfemi crismi del caso.
Ciò che il cineasta francofono, a distanza di ben due anni dall’ultimo ciack battuto, si prepara a vomitarci davanti agli occhi è un diabolico racconto di zolfo, intrighi e possessioni che pesca a piene mani niente meno che dall’autentica cronaca dell’arresto di un sacerdote, reo di aver mandato anzitempo al cospetto del buon Creatore una suora nel corso di un’intensa sessione esorcistica, il tutto per liberare l’indemoniata consorella. Nel mezzo delle tetre atmosfere di un inquietante convento, infognato nel buco dello sfintere di una desolata Romania, una rampante giornalista investigativa newyorkese (Sophie Cookson) dovrà fare luce sull’accaduto, nel mentre in cui, come l’incauta collega Erin Bruner/Laura Linney di L’esorcismo di Emily Rose, inizierà a vivere in primissima persona i risvolti poco simpatici dell’intera faccenda, preparandosi, forse, a incontrare il Principe delle Tenebre grugno a grugno. Accennare al fatto che le menti – e i portafogli – dietro alla succosa impalcatura di questo Crucifixion siano gli stessi di Annabelle e della saga di The Conjuring appare abbastanza superfluo, così come scontata si rivela la comune avversione per le pie frequentatrici dell’ordine monastico, sempre meno propense a rimanere fedeli al sacro sposalizio con Cristo e peccaminosamente tentate da un lascivo tête-à-tête con quel bricconcello di Lucifero. Riguardo alla dose prevista di truculenza e crudeltà, al momento non ci è dato azzardare una previsione, ma con un passato illustre come quello di Frontiers (2007), non vi è alcun dubbio che, a partire da 14 febbraio, l’ora della nanna sarà per tutti noi momento di parecchi problemucci. Ridendo (poco) e scherzando (ancora meno), alla diabolica corte di Gens accorrono in massa Corneliu Ulici, Brittany Ashworth – reduce dai fasti del piccolo grande Hostile (2017) – e Matthew Zajac, un pacchetto attoriale di tutto rispetto per un possession movie dal quale, almeno per una volta, pare proprio che bestemmie e verdognoli rigurgiti rimangano provvidenzialmente esclusi, dimostrando come, nel bene e nel male, anche Santana abbia il diritto di conservare un certo orgoglio e uno spiccato sovoir faire. Poiché, se è vero che il Diavolo veste realmente Prada, allora non sarà certo l’acqua santa del rubinetto a fermalo dai suoi malefici propositi, ma piuttosto un buon Cabernet del ‘64. Per i crocefissi a diciotto carati converrà invece attendere tempi migliori!