Dostoevskij
2024
Ai bambini andrebbe detto fin da subito: ci siamo sbagliati a farvi. A mettervi su questo tavolo, su questo incubo costante. Andrebbe subito chiarito: cercavamo solo qualcuno che potesse prendersi l’orrore al posto nostro.
Dostoevskij
è una serie del 2024, diretta da Damiano e Fabio D’Innocenzo.La citazione qui sopra può servire a costruire il senso di Dostoevskij, la serie di 270 minuti dei fratelli Damiano e Fabio D’Innocenzo, giunta al cinema dall’11 al 17 luglio in due parti (atto I – atto II) e adesso e in 6 puntate su Sky dal 27 novembre 2024. È un passaggio, quello, contenuto in una lettera che il serial killer ribattezzato Dostoevskij lascia agli investigatori, in particolare al responsabile dell’indagine Enzo Vitello (Filippo Timi). Perché Dostoevskij è un serial killer movie, o meglio parte dal genere e lo usa come innesco per andare da un’altra parte, in un luogo oscuro. Nei messaggi alla polizia l’assassino rivela un nichilismo radicale e assoluto: il movente degli omicidi è la vita stessa. La resa totale al caos dell’esistenza annulla perfino il metodo consueto nell’omicidio seriale: non c’è modus operandi, ossia la dinamica dell’ammazzamento cambia sempre e viene riconosciuta solo dagli scritti letterari, tanto poetici quanto sconsolati. L’opera però non si apre sul delitto bensì sull’indagatore: Vitello ha ingerito una quantità di pasticche e si prepara ad accedere all’altra dimensione, cioè al suicidio, lo troviamo esanime a terra mentre ascoltiamo il suo messaggio d’addio fuori campo. Ma anche l’imponderabile lo rigetta, ed ecco che si riprende e viene informato che c’è stato un nuovo delitto: Dostoevskij, come Dente di Fata in Manhunter, si è introdotto nella casa di una famiglia e l’ha eliminata integralmente, compresa la figlia piccola con un colpo di pistola alla testa.
È l’innesco del racconto, ma non del caso che era partito parecchi mesi prima, molti omicidi fa: Vitello e la sua squadra cercano il serial killer ma si incartano nel nulla, non hanno indizi né sospetti. E il poliziotto Enzo Vitello – ecco il punto – è l’epitome del detective disperato, maledetto, la sua espressione definitiva: un uomo finito e allo sbando, segnato dal rapporto perduto con la figlia tossica Ambra (Carlotta Gamba) di cui scopriamo gradualmente gli estremi; uno che aspetta la morte, proprio per questo si specchia e si riconosce esattamente nel killer. Sempre per questo – apprendiamo in flashback –dal primo omicidio Enzo ha lasciato a sua volta messaggi sulle scene dei crimini, invitando il colpevole a parlare con lui perché, appunto, lo capisce. Un dialogo fitto e segreto si è instaurato tra cacciatore e preda, perché Vitello sa che questo è l’unico modo per prenderlo. E prenderlo è ragione di vita, o forse di morte, nel senso che potrebbe essere l’ultimo atto prima dell’estinzione.
I fratelli D’Innocenzo piombano nella serialità televisiva e la riscrivono dall’interno. Girando in 16 mm soprattutto nel Lazio alle porte di Roma (Tivoli, Guidonia, Ardea), i registi costruiscono una natura ostile, nebbiosa e piovosa, marchiata da scheletri di alberi, rendendo l’ambiente un correlativo oggettivo del sentire interiore del protagonista, sul terreno di una disperazione primaria e squassante. Guardando alla messinscena, gli autori mitigano il “formalismo” dei film precedenti come Favolacce – parole loro – che è un modo per dire che si inseriscono nelle serie di genere rispettandone i crismi, dalle tappe dell’indagine fino ai colpi di scena che conducono alla fine. Ma dipende cosa si intende per formalismo perché, a ben vedere, un abito visivo della serie non solo esiste, ma è potente e quasi fagocitante: un flusso indistinto di miseria e desolazione, come fosse “una turbolenza interiore” (sempre loro), un fiume nero che scorre a mo’ di Flegetonte in questa vita-inferno.
Ovviamente si può fare la caccia ai riferimenti, convocando l’intero settore dei serial killer a partire da True Detective, oppure L’elemento del crimine di Lars von Trier (occhio al finale), io ho pensato addirittura a L’umanità di Bruno Dumont. Ma la verità è un’altra: raramente in Italia si è avuta una visione tanto cupa e desolata rivolta a un pubblico vasto. Forse mai. Eppure Dostoevskij, va detto, non si esaurisce certo nell’applicazione di nichilismo abissale, anzi ritaglia molti squarci estremi, arditi, struggenti. Per esempio: i duetti tra Vitello e Bonocore (Gabriel Montesi), la spalla che forse vuole fargli le scarpe; tutti i confronti con la figlia, terribili, culminanti nella confessione di Enzo e la sua lotta eterna contro la manticora; l’incontro con la coppia incinta, che per Vitello sembra una beffa ma porta una rivelazione. Il banale è lontano: il detective non si identifica meramente col serial killer, ma mira a sciogliersi in esso. Insomma i D’Innocenzo non temono di osare e sabotare, consegnando un oggetto strano, obliquo, strabico, attraversato dal più grande Timi di sempre.
A margine: circa un anno fa ho incontrato Filippo Timi alla presentazione di un film a Roma. Gli ho chiesto su cosa stava lavorando in quel periodo e mi ha risposto, letterale, portandosi il dito al naso in segno di segreto: “Sto facendo Dostoevskij coi D’Innocenzo, vedrai che ci massacrano”. Leggendo certe reazioni automatiche a ogni uscita dei fratelli, aveva ragione. Per alcuni sarà un cult, per altri no. Pazienza. Possono sempre tornare a vedere le serie più educate, tutte uguali, che sottovalutano il pubblico mentre stanno attente a non disturbare.