Monsters: Lyle ed Erik Menéndez. La Bestia a due teste

Una serie senza segreti ma piena di misteri
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Non c’è alcun segreto nella messinscena della storia di Erik e Lyle Menéndez: il 20 agosto 1989 i due fratelli, 18 e 21 anni, penetrano nella villa dei genitori a Beverly Hills e li massacrano a colpi di fucile mentre stanno riposando sul divano. Nella seconda stagione della serie di Ryan Murphy e Ian Brennan sul podio di Netflix, Monsters: La storia di Lyle ed Erik Menéndez, nulla viene nascosto sin dall’inizio, o meglio solo per una manciata di minuti, subito dopo i fatti quando si tentò di attribuire la mattanza alla mafia. Quasi subito, però, il – teoricamente – debole dei fratelli, Erik (Cooper Koch), si presenta dallo psicologo di famiglia e confessa candidamente gli omicidi perché gli tolgono il sonno. L’anello forte Lyle (Nicholas Chavez) prova a negare e intorbidire le acque, ma già nella prima puntata la verità è autoevidente. I figli hanno ucciso i genitori, hanno martoriato i corpi di Javier Bardem e Chloë Sevigny, ricomposti nell’identica posa dei veri delitti: non c’è segreto, appunto, ma ci sono molti misteri.

La serie antologica di Murphy acquista una esse e moltiplica per due la figura del Mostro: se nella prima stagione il monster era Jeffrey Dahmer, il principe dei serial killer, l’antropofago d’America, qui la “mostricità” si sdoppia e riversa in due fratelli, intimamente legati, forse anche sessualmente intrecciati. È una Bestia a due teste: l’animale è unico, una la mente con cui ragiona, ma la protuberanza è doppia e possono scontrarsi tra loro, per esempio sull’idiozia di confessare, ma finiscono sempre in sovrapposizione.

Gli assassini discutono ma ricadono sulla stessa posizione, insomma sono d’accordo: il corpo della Bestia è uno e indivisibile. Come l’anfesibena, il serpente a due teste nella mitologia greca, letteralmente gocciolato dal capo mozzato di Medusa mentre Perseo lo brandiva come un trofeo; da dove sono sgorgati i Menéndez, chi e cosa li ha generati, non è dato sapere. Nel percorso del killer, se la fame di Dahmer verteva sull’inettitudine dell’autorità, soprattutto nei confronti della comunità nera e gay, vittima predestinata che non si salva neanche per gli “strani odori” da casa di Jeffrey, con i Menéndez è diverso: un atto secco e spietato, notturno ma solare, sfacciato, preparato con acume e senza follia.

Il mistero però resta, eccome. Anzi proprio questo sembra la pietra d’angolo della serie di Murphy, come avverte diegeticamente l’avvocata della difesa: “Non siamo qui per stabilire chi, ma perché”. In tal senso l’autore dispiega la consueta polifonia, organizzando come d’uso un cambio vorticoso di punti di vista: prospettive, idee, convinzioni, opinioni e semplici pensieri variano negli episodi e si affastellano l’uno sull’altro, per costruire infine non una verità, ma la convinzione che la verità ultima sia inconoscibile.

Rimane il gesto, figli che uccidono genitori, ma le sfumature si perdono in una zona del crepuscolo, in quel terreno d’ombra che – si potrebbe credere – è vicino all’essenza del Male. José Menéndez come padre-padrone che abusa e stupra i figli dall’infanzia, rendendo la loro vita un inferno per cui ammazzare è legittima difesa? Addirittura i genitori stavano meditando di uccidere la prole, che quindi li ha solo anticipati? O Lyle ed Erik hanno inventato tutto, perché una storia di abusi farebbe scendere la pena? Ancora, i fratelli vantano motivazioni complesse o temono solo di venire estromessi dall’eredità? E il nucleo oscuro ha strati ulteriori: Erik e Lyle intrattengono rapporti tra loro, dandosi alla gioia dell’incesto, e questo c’entra qualcosa coi delitti? Infine, siamo sicuri che uno sia l’anello debole e l’altro la testa dominante?

No, non siamo certi di nulla… Seppure lo sviluppo del racconto arrivi a suggerire una posizione, che ha fatto incazzare alcuni protagonisti, c’è sempre qualcosa che sfugge, un vapore che si libra nell’aria e resta appunto allo stato gassoso, quindi imprendibile. Il simbolo è l’episodio numero cinque, titolo The Hurt Man (L’uomo ferito), un mirabile piano sequenza di 34 minuti: Erik racconta gli abusi del padre all’avvocato, tutto viene sostenuto da Cooper Koch con l’attrice Ary Graynor sempre di spalle, girato solo con uno zoom lento e inesorabile. Vero o falso? Nessun segreto, molti misteri. L’impossibilità di avere una parola definitiva: forse è davvero questo il Male, ciò che tutti cercano, perseguono, da cui fuggono e da cui sono attratti.