Il fattore umano dell’Uomo-lupo

Leigh Whannell e Corbett Tuck, sul nuovo Wolf Man

Leigh Whannell è il regista, nonché cosceneggiatore insieme alla moglie Corbett Tuck, di una nuova versione della figura ancestrale del licantropo: Wolf Man, prodotto da Blumhouse, Motel Movies Waypoint Entertainment e Cloak & Co. e distribuito da Universal. Blake (Christopher Abbott) si trasferisce da San Francisco nell’Oregon con la moglie stacanovista Charlotte (Julia Garner) e la figlia Ginger (Mathilda Firth), dopo aver ereditato la casa della sua infanzia, rimasta vuota in seguito alla misteriosa scomparsa e presunta morte del padre. Nella fattoria, di notte, durante la luna piena, la famiglia viene attaccata da un lupo mannaro che artiglia il braccio di Blake. I tre si barricano all’interno della casa, ma presto l’uomo inizia a trasformarsi in qualcosa di orribile, mettendo a repentaglio la sicurezza della moglie e della figlia.

Qual è stato l’aspetto più importante della storia di Wolf Man su cui entrambi avete concordato che dovesse rimanere intatto durante tutto il processo, dalla scrittura alla realizzazione?

Corbett Tuck: Penso che ci sia piaciuto soprattutto il cambiamento di prospettive. Siamo partiti con l’idea che ci fosse un matrimonio che stava andando in pezzi e volevamo che anche nella trasformazione fisica, persistesse questo tema. Non riuscire più a vedere le cose con gli stessi occhi, non poter più comunicare: era questa l’idea di base. Si è sviluppato tutto da lì.

Wolf Man esplora diversi temi, che si tratti del lutto o delle relazioni tra genitori o, appunto, dell’incomunicabilità in una coppia sposata. E avete scelto di raccontare tutto questo cavalcando il genere horror…

Leigh Whannell: Penso che l’horror sia un genere molto duttile perché può esprimere cose estremamente intense. Puoi adattarlo a molte circostanze. È una grande metafora ed è un genere molto catartico. Se c’è qualcosa che ti disturba nel mondo o nella tua vita, è davvero facile esorcizzarlo attraverso un film horror. Puoi portare le cose all’estremo: il banchiere metaforicamente assetato di sangue che sfratta le persone dalle loro case, diventa un vampiro, letteralmente. Puoi, in un certo senso, trasformare questi “mostri” della nostra vita reale in veri mostri. Penso che sia questo che lo rende così malleabile come genere.

Avete deciso di fare un film sulla “cancellazione” che il protagonista subisce e su come, questo, influisca sulla sua famiglia. Vi confrontavate con una lunga tradizione di film sui licantropi, con tutti gli stereotipi connessi. Come vi siete posti rispetto a questo?

Corbett Tuck: Beh, decenni e decenni di storie sui lupi mannari hanno certamente creato dei cliché, ma noi volevamo mettere soprattutto l’umanità al centro e concentrarci sulla trasformazione fisica ed emotiva del personaggio, cercando di evitare le strade battute. Per questo abbiamo rallentato anche tutto il processo di trasformazione, cosa che pensiamo non fosse mai stata fatta prima. La novità era descriverla dal punto di vista della persona che si trasforma. Mostrare come il mondo appare attraverso gli occhi del nostro protagonista.

Cosa rende il vostro lupo mannaro diverso dagli altri? Quanto del film è una storia d’amore e quanto è un film “di mostri”, secondo voi?

Leigh Whannell: Penso che siano profondamente intrecciate, le due cose. Wolf Man è tanto una storia d’amore quanto una storia di “creature”. Direi che i due aspetti sono strettamente connessi l’uno all’altro.

Com’è stato girare gran parte del film di notte (che nella storia è una singola notte)?

Leigh Whannell: È stato abbastanza allucinante… non mi rendevo conto di quanti problemi logistici avremmo incontrato. Ovviamente, quando sono andato a dirigere il film, non credo che io e Corbin ci rendessimo conto di ciò che avevamo creato. Perché improvvisamente ci trovavamo sul set alle tre del mattino. Christopher Abbot poteva lavorare solo per un certo numero di ore. Doveva stare al trucco per sei ore al mattino, il che lasciava poi con una finestra di tempo molto breve per lavorare. C’erano così tanti problemi logistici sovrapposti che hanno reso questo film molto complesso. Originariamente avevamo previsto ci fosse anche un cane, ma poi ci siamo detti: “Niente cane. Sarebbe solo un problema in più”

Corbett Tuck: Il cane è rimasto solo per un paio di bozze in sceneggiatura, prima che dicessimo: “Ma siamo masochisti? Perché stiamo facendo questo?” Abbiamo anche alzato un po’ l’età della figlia dei protagonisti, da 5 anni come avevamo pensato inizialmente, a 10 anni, affinché avessimo un’attrice che potesse lavorare per degli orari adeguati…

C’è un “messaggio” che vorreste passasse primariamente, nel film?

Leigh Whannell: Penso che chiunque abbia avuto una relazione naufragata o abbia vissuto una perdita o problemi matrimoniali, potrebbe trovare qualcosa nel film che gli risuoni.

Corbett Tuck: Sì, il tema sensibile è quello di “perdere una persona”. Hai un tempo limitato con le persone, e quando le malattie prendono piede, potresti non riuscire più a parlare con qualcuno che ti è caro. Potresti passare le tue ultime ore senza riuscire a esprimere nulla, ed è stato un tema davvero interessante da sviluppare in un film horror. Leigh ha detto prima che i film horror sono l’optimum per affrontare questi problemi. Puoi fare un film su qualcuno che sta morendo di una malattia terminale, oppure puoi coinvolgerlo in un film sui lupi mannari. In quel caso diventa più “sneaky”, più “furbo”, perché così facendo puoi realizzare un film che intrattiene, spaventa e allo stesso tempo ha significati più profondi. È come prendere due piccioni con una fava.

Potete approfondire come avete lavorato sul concetto principale della trasformazione del lupo mannaro, dato che la trasformazione è stata una parte fondamentale della mitologia di ogni storia di lupi mannari? In questo caso, sembra rimanere piuttosto sul lato umano. Il lupo mantiene sempre i suoi aspetti umani e non diventa un animale completo. Quali sfide avete affrontato nel definire questo nuovo concetto?

Corbett Tuck: Beh, la trasformazione tragica è solo una parte della mitologia. E penso che tu l’abbia centrata: volevamo focalizzarci sull’aspetto umano perché non l’avevamo mai visto prima. E volevamo evitare di fare un rifacimento delle stesse vecchie storie sui lupi mannari, perché ce ne sono state tante in passato.

Leigh Whannell: Ciò che ci interessava era descrivere una trasformazione in slow motion, al rallentatore. Per me, il percorso verso la trasformazione è la parte più interessante, non il risultato finale. Il viaggio è ciò che conta, quindi abbiamo voluto rallentare quel processo.

Come avete lavorato sulla percezione del mondo attraverso i sensi di un licantropo?

Leigh Whannell: l’elaborazione del sound design è stata essenziale. Ho chiamato i sound designers con cui ho lavorato in tutti i miei film. Già nella fase di scrittura li avevo contattati, e ci incontravamo a cena per parlare di come volevamo che il tutto risuonasse. Quello che abbiamo fatto è stato far registrare agli attori dei dialoghi per poi stratificarli. Non volevo qualcosa che suonasse distante. Non è la distanza che rende difficile capire il linguaggio umano; è proprio il fatto che il protagonista non riesce più a comprenderlo. È stato un bel banco di prova, ma mi piace pensare che se sto “torturando” i sound designers, allora sto facendo bene il mio lavoro.

Qual è l’evoluzione di un momento di tensione o di paura dalla sceneggiatura allo schermo?

Leigh Whannell: Dosare la tensione è difficile perché tutto si sviluppa in fasi. Si dice che un film venga fatto tre volte: quando lo scrivi, quando lo giri, e poi di nuovo nel montaggio e nella post-produzione. Ogni volta che “rifai” il film, alcune cose cambiano. Mi ricordo che fino all’ultimo minuto, Corbett veniva a vedere una proiezione del film, un work-in-progress, e aveva qualche suggerimento. Anche altre persone avevano idee, e spostavamo pezzi qua e là. Non è una scienza esatta, è più un’improvvisazione: “Penso che se finiamo questa scena due battute prima, sarà più tesa.” In un certo senso, fai del tuo meglio per indovinare quale sia la versione più tesa.

Avete reinventato il personaggio mitico del licantropo. Vi siete sentiti sotto pressione nel realizzare questo film? Ci sono molte aspettative da parte del pubblico di diversi Paesi, considerando che i film di questo genere catturano l’interesse di persone di nazionalità, generazioni e fasce d’età diverse.

Corbett Tuck: È difficile non sentire il peso di personaggi del genere. Ma fin dall’inizio abbiamo voluto avere un approccio fresco, con qualcosa che spaventasse davvero. Quindi per me non si trattava di gestire le aspettative degli altri, ma di creare una storia solida.

Leigh Whannell: Se c’era pressione, era quella che ci mettevamo da soli. Io e Corbett siamo stati piuttosto esigenti con la sceneggiatura. Lei mi diceva: “Non so, possiamo fare di meglio?” E io facevo lo stesso. Anziché lasciarci influenzare dalla pressione esterna, siamo stati noi i nostri critici più severi. Penso che la regola d’oro quando si realizza un horror sia semplicemente non essere pigri. Non affidarti ai soliti cliché o a qualcosa di troppo facile. Se sembra facile, probabilmente lo è, e si noterà. Non mi piace quando i film si affidano troppo a jump scare prevedibili o a colpi di scena ripetitivi. Questo diluisce l’impatto. La regola d’oro è sovvertire le aspettative e spingerti a fare meglio. Come fan dell’horror, voglio far avanzare il genere, e penso che anche Corbett la pensi così.

Cosa rappresenta questo film per la vostra carriera?

Corbett Tuck: Beh, è una domanda molto diversa per ciascuno di noi. Per me è l’inizio della mia carriera come sceneggiatrice.

Leigh Whannell: Per me ogni progetto è un capitolo a sé. C’è il detto: “Sei bravo quanto il tuo ultimo film.” E io sento davvero questa pressione. Con ogni nuovo progetto, dimentichi ogni successo o buona recensione. Ti concentri solo su questo, cercando di fare bene.
Quindi, se il film andrà bene o sarà ben accolto, sarà solo un altro piccolo passo avanti. Una battaglia alla volta, tutto qui.