Wolf Man
2025
Wolf Man è un film del 2025 diretto da Leigh Whannel
Somewhere in Oregon. Monti, valli, casale, isolamento. Un uomo e un bambino, fucili in spalla, escono in battuta di caccia. Sembrano survivalisti. L’uomo ha modi e linguaggio marziali. Cercano prede, non sono i soli. Una bestia che sfugge ai mirini – invisibile, che non si fa vedere – li punta, li bracca. I due si nascondono, la scampano bella, tornano a casa. Ora l’uomo ha modi e linguaggio paterni. In casa è tangibile – visibile? – un’assenza, non c’è moglie, non c’è madre, mentre una presenza minacciosa incombe là fuori. Trauma. Nel tempo di uno stacco passano 30 anni. Ora il bambino è un family man, ha una figlia e vive nella metropoli. Ha anche una moglie, workhaolic, con la quale le incomprensioni sono evidenti, visibili. Alla notizia della morte del padre, non più visto né sentito, decide di portare moglie e figlia in Oregon, per recuperare le memorabilia e ricomporre i cocci delle sue relazioni. Il male tuttavia incombe. Il male è malattia, entropia. Il male è sempre una brutta bestia. Stiamo parlando di Wolf Man, prova di maturità per Leigh Whannel, che tanto ci ha fatto godere con i precedenti Upgrade e L’uomo invisibile. Wolf Man sarebbe il reboot del grande classico Universal, quello con Lon Chaney, ma Whannel chiarisce in più interviste di non essere interessato a nostalgismi filologici alla Del Toro; lui non riesuma, al più rivitalizza.
Ecco, quindi, il suo Uomo Lupo, e non Lupo Mannaro. Un infetto, un malato che con la luna non ha nulla a che spartire. L’idea gli è venuta all’acme della pandemia Covid, ed in effetti si respira lockdown per tutta la durata del film. L’interesse era quello di mostrare come l’immanenza del virus potesse sconvolgere vite e relazioni, le più private. In partenza, almeno, perché da qui poi l’idea si è ingrandita, per cogliere lo sconvolgimento della famiglia quando un suo componente degenera fisicamente e mentalmente: si pensi all’Alzheimer, dice il regista, si pensi alla SLA. Allora diventa tutta una questione di prospettiva, e l’obiettivo è ancora una volta cercare di svelare l’invisibile: mostrare le percezioni, le pulsioni dell’infetto, del malato che è isolato con la sua famiglia ma anche isolato dalla sua famiglia. Le fasi della mutazione vengono scandite attraverso un rovesciamento del punto di vista, mostrando allo spettatore come l’infetto, il non più (il sempre meno) umano vede, sente, pensa, e dall’altra parte come i sani cambiano il modo di vederlo, sentirlo, pensarlo. Pochi effetti speciali, molto lavoro su macchina da presa, rotazioni lenti e luci. La questione, per citare una recente serie tv di successo, è che tutto chiede salvezza, anzi, che tutti chiedono salvezza. La chiedono madre e figlia, minacciate da questo sconosciuto inoculato nel corpo e nella mente dell’uomo. La chiede l’uomo stesso, in una lotta titanica per restare aggrappato all’amore verso di loro, ultimo barlume della sua umanità.
Wolf Man è un film Blumhouse Production quindi di genere, dell’horror ha ritmo, cadenze, montaggio, atmosfere, modalità di interpretazione. Eppure, o forse proprio per questo, è un film atipico, è malato, è contaminato, è struggente in modo inusuale. Whannel gira con la naturalezza e la semplicità dei maestri, le sue inquadrature sono irte di minacce e disseminate di vie di fuga. È mago delle ambientazioni, interne ed interne. Scandisce le tappe canoniche della mutazione – rsvp La Mosca – arricchendole di un autolesionismo straziante, disperato. Ha scritto il film a quattro mani con sua moglie, ed ha mostrato al cast, prima di cominciare le riprese, non il Wolf Man Universal, ma Amour di Michael Haneke, perchè i grandi registi pensano in modo fuorviante, differente, e lode a loro. Menzione d’onore per i protagonisti: Christopher Abbott – già visto nell’affine It Comes At Nigh, cui ho istintivamente pensato lungo tutta la visione – e Julia Garner, la cui acconciatura in stile Madonna Who’s That Girl conferisce al film una nuance anni Novanta che ancor più fa struggere noi, non più giovani, non più immortali.