A Classic Horror Story candidato ai David di Donatello 2022

Sono soltanto cinque, nella storia del prestigioso premio, i titoli di genere horror che sono riusciti ad ottenere almeno una candidatura

A Classic Horror Story è candidato ai David di Donatello 2022, nella categoria “miglior effetti visivi”.

Ci sono film che, attraverso una stratificazione di linguaggi, riescono ad elevarsi nel panorama cinematografico come opere uniche che segnano a loro modo un punto di svolta nella grammatica dettata dal grande schermo. Si va oltre la loro appartenenza a un genere specifico, sono difficilmente incasellabili nelle strette definizioni che nel tempo si sono secolarizzate, per la loro forza innovativa, per la dialettica costruita nel flusso filmico, lontane dai topoi ricorrenti che si sono imposti soprattutto negli ultimi anni. Lucio Fulci sovente affermava di amare l’horror “perché è l’unica forma filmica che consente di spaziare con la fantasia e che lascia campo libero all’immaginazione”. Partendo da innesti con il reale, l’ingranaggio del cinema di genere è un meccanismo libero, inteso nella sua accezione più ampia; i margini tra immaginario e realtà qui si fanno sempre più sottili, fino quasi ad annullarsi l’un l’altro o, comunque, a confondersi e, successivamente, fondersi; questa è l’energia magmatica prorompente dall’orrorifico, promanazione, a suo modo, di un immaginario onirico, popolato da incubi e in forma di libertà pura.

Non si può evitare di sottolineare che nel corso dei lunghi sessantasette anni dei David, il cinema di genere italiano abbia occupato un ruolo, suo malgrado, estremamente marginale; salvo dimenticanze, sono soltanto cinque i titoli che sono riusciti ad ottenere almeno una candidatura: Dellamorte Dellamore, di Michele Soavi, unica opera che ha poi anche ottenuto un David, per la miglior scenografia, nel 1994; I tre volti del terrore, di Sergio Stivaletti (nomination per gli effetti speciali nel 2004); La Terza Madre, di Dario Argento (nomination per gli effetti speciali nel 2007); Suspiria, di Luca Guadagnino (sei nominations nel 2020, ma nessun premio); A Classic Horror Story, di Roberto De Feo e Paolo Strippoli (una nomination per gli effetti visivi, nel 2022).

C’è un grande fermento, tuttavia, nel panorama contemporaneo del cinema di genere, che in tempi recenti si veste di autorialità, come nel caso della splendida opera di Guadagnino. Il Suspiria di Guadagnino non può essere definito come un remake, vive e splende della sua forza, è una riscrittura da parte di chi ha amato fortemente il lavoro originario, l’ha assimilato e ne crea un omaggio altissimo che brilla di luce propria. Dopo due anni dal film di Guadagnino, A Classic Horror Story ottiene una candidatura ai David Di Donatello, l’opera firmata da De Feo e Strippoli è una visione ben orchestrata, un’eufonia ritmica meta-cinematografica che si evolve, muta, ma senza cambiare la sua fusis intrinseca; è un’opera che eleva il cinema di genere italiano a una risonanza internazionale, trovando proprio nel finale un lirismo altissimo, che al contempo si fa più intimo e che difficilmente si dimentica. Sono film come questi, apprezzati dalla critica e dal pubblico, che bisogna tutelare e valorizzare, poiché segnano una nuova geografia nello scenario cinematografico, non confinato al solo genere horror, reinventandolo e conferendogli una dialettica fresca e, tornando a Fulci, finalmente libera di muoversi in un immaginifico incontrastato.

horror story 2

Tra i film che in questa mappatura cinematografica hanno sovvertito gli orizzonti contemporanei del cinema di genere, ma non solo, A Classic Horror Story ha creato un nuovo logos in quella dialettica italiana che si potrebbe definire come new wave dell’orrore. Elisa (Matilda Lutz), giovane neo-laureata alla Bocconi, assunta da un’importante società, scopre di essere incinta e intraprende un lungo e faticoso viaggio di ritorno verso la sua casa natale in Calabria. Affronta il percorso in carpooling, a bordo del camper di Fabrizio (Francesco Russo), appassionato studente di cinema, insieme a Riccardo (Peppino Mazzotta), medico di mezza età fresco divorziato, Mark e Sofia, una coppia di giovani turisti.

Il viaggio verso la Calabria si trasforma in un incubo quando il camper resta bloccato in una cupa foresta, che sembra catapultare i protagonisti in un oltre indefinito, surreale e delirante, vicino a una casa poco accogliente e dall’aspetto tetro e sinistro. “Era una casa molto carina, senza soffitto, senza cucina. Era una casa bella davvero, in via dei Matti, numero zero”; le note della deliziosa canzone di Sergio Endrigo, a metà tra la filastrocca e la ninnananna assumono sonorità inquietanti, introducendo lo sguardo dello spettatore in quel macabro scenario. Il sapiente e arguto uso del sonoro, la scelta di brani e interpreti noti e familiari, come Endrigo e Gino Paoli, evocano nella mente sensazioni piacevoli, creando un rapporto confidenziale e rassicurante con lo spettatore, poi puntualmente tradito, stordito dalle immagini che irrompono sullo schermo.

La voce di Fabrizio recita: “Il primo occhio non ha, ma anche al buio ti troverà. Il secondo non ha udito, ma di certo ti avrà sentito. Il terzo non ha bocca per parlare, ma se lo vedi, non fiatare. Un cavallo alato gli sta accanto, e della notte lui è il canto (…) Questa è la leggenda di Osso, Mastrosso e Carcagnosso, tre fratelli che arrivarono da un altro mondo, tanto tempo fa”, e che, secondo una certa tradizione, davano da mangiare ai contadini affamati, ma in cambio chiedevano un sacrificio.

A Classic Horror Story, di Roberto De Feo e Paolo Strippoli, si affida, come si evince anche dalla scelta del titolo del film, agli archetipi narrativi del terrore, omaggiando scrupolosamente alcuni classici del genere (numerosi i rimandi alle opere di Wes Craven, Sam Raimi, passando per Tobe Hooper, ecc.), giocando però con i topoi di genere fino a ridurli metaforicamente a una critica alla situazione del cinema italiano, attraverso la rivisitazione horror, in chiave metaforica, del mito di Osso, Mastrosso e Carcagnosso, i tre fondatori delle organizzazioni criminali, cosa nostra, ‘ndrangheta e camorra, un’idea acuta e ben riuscita.

a-classic-horror-story-recensione-film-roberto-de-feo-paolo-strippoli-matilda-lutz-netflix-6-1920x1279

Roberto De Feo e Paolo Strippoli, in una recente intervista, affermano: “Oggi si può raccontare di tutto attraverso l’horror. The Nest era un film estremamente cupo. Questo è più ironico. D’altronde l’horror ha una vasta gamma di sfaccettature che ti permette di sperimentare tante cose. Bisogna sfruttare la ricchezza italiana: gli accenti, le location, le storie”. Non a caso l’aspirante regista Fabrizio dice che “fare cinema in Italia è difficile”.

I registi, giocando sapientemente con i cliché del genere, hanno confezionato un’opera dall’ampio respiro internazionale, sviluppata in esclusiva per Netflix; partendo da un impianto archetipico, arrivano a conferire un divertente e godibile senso ludico al racconto, ricco di humor ma non privo di twist e guizzi horror, tutto ben amalgamato, ben strutturato e in perfetto equilibrio. I due hanno uno stile registico impeccabile (hanno vinto il premio alla miglior regia al Festival di Taormina, nel 2021) e con A Classic Horror Story costruiscono quello che, di fatto, è divenuto un instant cult, appassionato, che porta in scena l’amore viscerale di De Feo e Strippoli per il cinema horror, sollevando anche diverse perplessità nei confronti di come il cinema di genere è trattato oggi, basti guardare la scena che segue i titoli di coda, quando invece, di fatto l’horror italiano, come una fenice, risorge e splende, in tutte le sue faccettature, e sicuramente meriterebbe più considerazione.