American Horror Story oltre ogni limite
Tre stagioni in crescendo: case infestate, ospedali diabolici, streghe e congreghe. Con una quarta in arrivo sui freaks. L’horror tv femminista, scorretto, estremo e scioccante...
Il pilot di American Horror Story inizia nel più classico dei modi: due ragazzini entrano nella casa infestata del quartiere, scendono nel seminterrato, non risalgono più; la casa li ha presi. Al netto delle ossessioni personali di Ryan Murphy (Nip/Tuck, Glee), come il disfacimento del corpo e la fissa per la maternità – negata e spesso deforme –, anche il prosieguo della prima stagione è più o meno classico, e l’elemento sorprendente non arriva dal racconto stesso, anzi piuttosto prevedibile nello svolgimento, ma da una decisione produttiva: inizia infatti a circolare la notizia che la seconda stagione avrà storia e ambientazione e personaggi diversi. Insomma, si cambia tutto e si racconta un’altra storia dell’orrore: spiazzando spettatori e critici insieme, alla casa infestata fa così seguito un manicomio teatro di atrocità e una New Orleans divisa da faide stregonesche.
L’idea – una serie di miniserie che unisca alla narrazione orizzontale dei migliori drama contemporanei la verticalità di serie cult del passato come Ai confini della realtà o I racconti della cripta – ha già fatto scuola, come dimostra il recente capolavoro made in Hbo, True Detective. E alla perplessità iniziale hanno fatto seguito un consenso critico (per quanto non manchino certune voci fuori dal coro) e un successo di pubblico in continua crescita. Complice un marketing furbo e virale, che dissemina indizi e suggestioni mesi e mesi prima di ciascuna première, vellicando la curiosità spesso morbosa degli spettatori con archi di violino che suonano corpi e inquietanti figure fasciate di latex (Murder House, titolo attribuito a posteriori alla prima stagione), suore dal volto interamente dipinto di bianco e bocche che si spalancano per ricevere pillole rosse come fossero particole (Asylum), donne sospese in aria e agonizzanti minotauri dal fisico scolpito (Coven).
A elencare il numero di archetipi orrifici con cui American Horror Story ha farcito i propri episodi, si stenta quasi a credere che la serie abbia solo tre stagioni: fantasmi e serial killer (e, perché no?, fantasmi serial killer), scienziati pazzi, alieni, demoni, streghe, medium, loa voodoo, morti viventi. Per non parlare del vasto campionario di riprovevoli figure umane, che ha trovato in Coven alcuni dei suoi esiti più estremi: dalla fanatica religiosa che somministra al figlio clisteri a base di candeggina all’untuoso sicofante con un penchant per i vestiti di pizzo e le bambole umane. Il gioco della serie si è fatto sempre più scoperto con il passare degli anni, e sta nel rialzare di continuo la posta, rincorrendo lo shock a ogni costo: mutilazioni, infanticidio, stupro, torture, coprofagia e chi più ne ha più ne aggiunga. A mettere in scena questa ridda spesso male assortita di orrori è quasi sempre il medesimo cast, vero e proprio marchio di fabbrica della serie: Evan Peters, Sarah Paulson, Lily Rabe, Frances Conroy, e poi Taissa Farmiga, Dylan McDermott, Zachary Quinto, Dennis O’Hare, Jamie Brewer. Su tutti svetta – irraggiungibile nel suo modo personalissimo di muoversi sul set come se ne fosse l’indiscussa e indiscutibile padrona (e forse è così) – Jessica Lange, immensa a prescindere che interpreti una starlet di Hollywood beffata dalla fama, una suora dal passato oscuro o una strega spietata e ammalata di cancro. Lange ha dimostrato in questi anni di essere a suo agio non solo nelle scene più orrifiche e dissacranti, ma anche in quelle – ahinoi sparute – più raccolte, dimostrando una versatilità e una ricchezza interpretativa che molti suoi compagni di cast (e in particolare i teen idols Farmiga e Peters, cui si è aggiunta nella terza stagione la legnosa Emma Roberts) possono soltanto invidiarle.
A controbilanciare l’avvicendamento di luoghi e tempi, però, non c’è solo la relativa stabilità del cast, ma anche la qualità turbinosa delle sceneggiature, che affastellano situazioni, personaggi, sviluppi senza preoccuparsi troppo di coerenza e coesione. A volte senza curarsene affatto. Al suo meglio (Asylum), questo procedere per accumulo crea un insieme che è più della somma delle sue parti; al suo peggio (Coven), si sfalda in un caravanserraglio insensato, che depotenzia e svilisce le tematiche pure interessanti che gli autori sollevano, peraltro in maniera quasi sempre grossolana. Fra queste, spicca il motivo ricorrente dell’iniquità sociale collegata al genere, e in seconda battuta alla razza; è la chiave di lettura più intrigante. American Horror Story può infatti essere interpretata come una galleria di donne alle quali l’epoca in cui sono vissute non ha riservato che ingiustizie e sofferenze: madri che hanno visto i loro figli uccisi per il colore della pelle; mogli che hanno dovuto sacrificare giovinezza e felicità e carriera per mariti infedeli e ingrati; ragazze ripudiate dalla società perché indomitamente libere. Non le accomuna però solo la sciagura, perché queste donne reagiscono, si ribellano, combattono per affermare se stesse al di là di ogni determinazione imposta dalla società patriarcale che vorrebbe incasellarle; di questa rivolta pagano il prezzo salato, sì, ma è con l’orgoglio di chi non accetta di accettare la resa incondizionata che esibiscono i segni delle punizioni e dei soprusi sul corpo e sulla mente.
E se lo slancio appassionato con cui Murphy le descrive può a volte cadere nel tranello dell’agiografia indulgente (Coven ne è un esempio), più spesso sono proprio queste figure femminili a imprimersi con forza nell’immaginario dello spettatore: i colpi di scena assurdi e i cliffhanger outré svaporano dalla memoria, ma Constance, Sister Jude, Lana, Cordelia, Moira, Misty Day rimangono. E rimane anche l’ammirazione per uno stile ormai diventato l’elemento più immediatamente riconoscibile della serie, a partire dalle sigle, suggestive e inquietanti: grandangoli, inquadrature ribaltate, piani sequenza tortuosi, filtri, stacchi improvvisi di montaggio, trompe l’œil; la messinscensa è lussureggiante e più palesa la propria artificiosità più diventa straniante.
Il merito è da ascrivere in larga misura ad Alfonso Gomez-Rejon, regista-simbolo della serie, e al direttore della fotografia Michael Goi, che hanno creato un’estetica insieme raffinata e splatter, barocca e pop, i cui debiti più evidenti sono tanto con Dario Argento e Lucio Fulci quanto con Mark Romanek. Si tratta di un’estetica apertamente camp, che mira – per citare Susan Sontag – a teatralizzare l’esperienza, a enfatizzarne in modo grottesco i tratti. O la si ama o la si odia, e per ciascun detrattore che si ritrae infastidito davanti all’esibizione manierista c’è chi si lascia trasportare dalle invenzioni visive, apprezzandone l’artificiosità: è proprio quando gioca con i meccanismi filmici della paura che American Horror Story ha più successo.
La squadra produttiva rimarrà la medesima anche per la prossima stagione, intitolata Freak Show. Ambientata nella Florida degli anni Cinquanta riguarda uno degli ultimi freak shows americani, i cui «fenomeni da baraccone» sono disposti a tutto pur di non ritrovarsi senza un lavoro. Kathy Bates e Angela Bassett – già protagoniste di Coven – sono state confermate, così come Jessica Lange, che interpreta l’esule tedesca manager dello spettacolo; entra nel cast Michael Chiklis, il famoso Vic Mackey di The Shield. Freak Show include, inoltre, un sanguinario killer vestito da pagliaccio, che l’autore ha già definito «il clown più spaventoso della storia», con buona pace del Pennywise di Tim Curry. Ma ancora una volta la sorpresa più grande è arrivata da dietro le quinte, quando Jessica Lange ha annunciato che questa quarta stagione sarà la sua ultima.
È vero che l’attrice – due volte premio Oscar per Tootsie e Blue Sky – si era già lamentata dei frenetici ritmi di lavorazione dello show, ma il dubbio rimane: e se questa volta Ryan Murphy non dovesse riuscire a convincerla? American Horror Story è tante cose, sì, ma American Horror Story è soprattutto Jessica Lange, ed è impossibile immaginare la serie senza di lei.