Auguri e figli mostri!
Le gravidanze satanico-mostruose degli anni Duemila
I figli, si sa, so’ piezz ‘e core. Ma non sempre, purtroppo, per le aspiranti mammine le cose vanno per il miglior verso. Specialmente se a covargli in seno vi sono mostriciattoli, satanelli e altre malefiche aberrazioni assortite, tutte quante bramose di ben più che una misera poppata di latte. Dunque venghino Signori, s’accostino e prestino orecchio, per condividere con noi questo breve e stuzzicoso excursus fra le gravidanze cinematografiche più malefiche e mostruose degli anni Duemila. Poiché, infatti, dai gloriosi tempi d’oro di Rosemary’s Baby e Brood troppa acqua zozza è passata sotto i ponti per poter essere esaustivamente condensata in questi pochi righi, sarà forse opportuno gettare un occhio di riguardo sul nuovo millennio, per poter avere almeno una pallida idea di cosa accade quando il Male rompe le acque per riversarsi gigione nel nostro bel mondo popolato di computer, smartphone e condom multi gusto. Di certo qualche avvisaglia sull’oscuro futuro del proprio nascituro l’avrà certamente avuta la povera Evelyn Osorio di The Ring 2 (Hideo Nakata, 2005), la quale, durante la travagliata gestazione che l’avrebbe portata a sfornare, tra mille tribolazioni e parecchie nefaste visioni, quella bricconcella nerocrinita di Samara, sicuramente di scalmane e sbalzi umorali ne avrà sperimentati a bizzeffe, già intuendo che la creatura avrebbe causato parecchi problemi. Un po’ come la bella Kyoko di Ju-on: Rancore 2 (Takashi Shimizu, 2003) che, dopo aver solo occhieggiato l’inquietante esito della sua ecografia, si rende presto conto che il frugoletto che le lievita in grembo non sarà certamente un fan della Plasmon. Ma attenzione gente, poiché, parto o non parto, spesso il Male è uno sporco affare di famiglia, trasmesso di generazione in generazione grazie a patti siglati con demoniaci acquirenti davvero poco raccomandabili. E così, se il paffutello Hunter della saga di Paranormal Activity non avrà di che star sereno una volta svezzato, a causa delle infernali trame ordite dai suoi parenti serpenti a suon di sabba con novelle puerpere, il frastornato Peter di Hereditary (Ari Aster, 2018) avrà modo di godersi il mefistofelico lascito della cara nonnina, intuendo troppo tardi il perché del fallito aborto ordito a suo danno. E non serve a una beneamata cippa lippa il fatto di non essere venuti al mondo, poiché, come Il mai nato (David S. Goyer, 2009) ci ha ben spiegato, l’altro mondo è un brulicante utero pronto a partorire le peggio nefandezze direttamente dal passato, impiegando gli innocenti poppanti quale mezzo di trasporto gratuito. Ma non divaghiamo, altrimenti il rischio è quello di parlare del solo fumo e di tralasciare il succoso arrosto che davvero ci interessa, infarcito non di malefici esserini già ben formati ma di irrequiete creature pronte a dischiudere il vaginale sipario. Ancor prima che la mattanza uterina dello scioccante incipit di Le colline hanno gli occhi 2 (Martin Weisz, 2007) facesse intuire che aria tirava nel reparto maternità degli anni Zero, L’alba dei morti viventi (2004) e Il figlio di Chucky (2004) avevano già avuto modo di buttare alle ortiche il romantico mito della dolce attesa, gettando nel panico più profondo le giovani promettenti partorienti. Se, infatti, con la sua personalissima reinterpretazione dello Zombi romeriano, Zack Snyder aveva contribuito a sdoganare una volta per tutte l’archetipo del parto zombesco, Don Mancini si era premurato di dare una degna prole alla celeberrima Bambola Assassina e alla di lui consorte Tiffany, mettendo in scena un’inseminazione di forza, con conseguente gestazione indesiderata, ai danni di un’ignara madre surrogata, costretta a covare nel proprio grembo il frutto malato dell’altrimenti impossibile unione dei due letali bambolotti.
Di qui alla splatterosa guerra degli uteri di À l’intérieur (Julien Maury, Alexandre Bustillo 2007) il passo è davvero breve, grazie a una novella genitrice costretta a difendere il frutto del proprio grembo dai ripetuti attacchi all’arma bianca di una collega prematuramente privata del proprio pargolo e desiderosa più che mai di mettere letteralmente le mani sul mal tolto. Anche a costo di praticare un allegro cesareo di fortuna senza anestesia di contorno. E se il parto non fosse già di per se fonte di stress, anche con i suoi postumi non c’è di che star sereni, così come hanno imparato a proprie spese Jack e suoi indifesi fratellini, vittime della letale depressione che colpisce implacabile la loro cara genitrice in Baby Blues (L. Jacobson, Amardeeo Kaleka, 2008), mettendo in seria discussione il concetto di amore materno e dimostrando, al pari della furia assassina pre-gestazionale di cui la spietata Ruth protagonista di Prevenge (Alice Lowe, 2016) si rende partecipe, che, tanto prima quanto dopo, lo scodellamento di nuovi frignanti pupattoli può esser causa di ben più che un semplice e innocuo scompenso ormonale. Lo stesso tipo di ormoncelli ballerini che iniziano a dar di matto nel profondo della giovane Esther Woodhouse di Proxy (Zack Parker, 2013), incazzata come una iena dopo aver subito un tragico aborto a seguito di un’aggressione e decisa più che mai a vendicarsi, supportata da un tosto gruppo di coetanee sostenitrici della sempreverde legge del testicolare taglione. E se ciò non fosse sufficiente a dissuadere chiunque nel frapporsi fra una madre e i suoi cuccioli, allora la ferrea volontà che spinge la disperata Madlene a riportare in vita la sua piccola Grace, nata morta, nell’omonima pellicola del 2009 diretta da Paul Solet, non potrà certo passare inosservata, almeno non quanto il putrido odorino e l’insaziabile bramosa fame di sangue che attorniano fin da subito la rediviva infante. Un amore così grande – come canterebbe Claudio Villa – che non può tuttavia minimamente paragonarsi a quello della materna protagonista dell’episodio Z is for Zigote, diretto da Chris Nash in chiusura all’antologia The ABCs of Death 2 (2014), la quale si mostra talmente dipendente dal proprio pargoletto da non volerlo assolutamente scodellare fuori, tenendolo ben al calduccio nel proprio utero per ben 13 anni, con tutti gli ingombranti inconvenienti del caso. D’altronde, non a tutte è dato il privilegio di potersi estirpare prima del tempo l’indesiderato ospite come la Noomi Rapace di Prometheus (Ridley Scott, 2012) con il suo xenomorfo di fiducia. Spesso occorre invece che le povere puerpere portino a compimento la propria travagliata gestazione, finendo per partorire con il biblico dolore. Ed è a questa consapevolezza che la bella maestrina Elizabeth deve abbandonarsi nell’episodio St. Patrick’s Day della raccolta Holidays (2016), subito dopo aver scoperto con orrore che, a seguito di oscuri e ancestrali rituali pagani di origine irlandese, nel suo bel ventre cova (letteralmente) la proverbiale serpe, pronta a sibilare il suo saluto al mondo in barba a San Patrizio.
Ma se la protagonista del cortometraggio di Gary Shore, conoscendo per tempo la serpentella natura del suo bebè, può almeno mettersi in parte l’anima in pace, l’impasticcata e ultrafattona Lou di Antibirth (Danny Perez, 2016) si ritrova infornata per benino senza avere la minima idea del come e del quando, con un pesante post-sbornia e parecchie allucinazioni a corredo di una serata decisamente brava. Ben presto, tuttavia, per l’ingravidata a tradimento le cose inizieranno a prendere una piega decisamente grottesca e surreale, con tanto di forze aliene e frattaglie assortite da far rimescolare gli umori anche ai più temerari che, dinnanzi alla manona insanguinata fuoriuscita dalle grazie di Gabriella Wilde nel finale alternativo del remake di Carrie (Kimberly Peirce, 2013) non hanno stoicamente battuto ciglio. Ma se il dono della maternità viene brutalmente negato? Niente paura: basta affittare l’utero della propria cameriera rumena, come prontamente fanno i coniugi Louise e Kasper in Shelley (Ali Abbasi, 2016), salvo poi prendere atto che, nonostante tutte le premure del caso, qualcosa di parecchio malvagio sembra aver preso dimora nella placenta della povera sguattera, prosciugandola di ogni forza vitale peggio di un documentario sulle abitudini sessuali dei lapponi. Ed è appunto il Male infernale, quello cornuto e forcuto impuzzonito di zolfo, ad abitare gran parte degli uteri e delle culle degli horror 2.0, seguendo quasi sempre l’ormai collaudato schema che vede un demoniaco patto a seguito del quale il nascituro Anticristo, dopo qualche tirata di ciuccio e un bel pannolino pulito, se ne va in lungo in largo a dispensare i suoi famelici vagiti, memore del celebre prozio concepito da Mia Farrow nel capostipite polanskiano. Lo stesso satanasso frignante che viene ripreso da una ballonzolante videocamera nel finale di L’ultimo esorcismo (Daniel Stamm, 2010) mentre, dopo aver allegramente squartato la propria genitrice, saluta calorosamente i membri di una satanica setta prima di fare un bel tuffo nel falò. Oppure l’infernale pargoletto comparso dal nulla nelle viscere della povera Samantha di La stirpe del male (Matt Bettinelli-Olpin, Tyler Gillet, 2014), documentato per filo e per segno nella sua travagliata gestazione dall’onnipresente nevrotico obbiettivo dell’amorevole maritino Zac, seriamente convinto di essere stato in qualche modo cornificato. Un lanciante dubbio che sicuramente non può non aver colto anche il frastornato reporter Malik di V/H/S 2 (2013) che, nello scioccante episodio Safe Haven diretto da quattro mani dal Gareth Evans e Timo Tjahjanto, dopo aver visitato una misteriosa comunità indonesiana assieme alla compagna in dolce attesa, si rende ben presto conto che il futuro nascituro, una volta venuto al mondo, avrà letteralmente una fame del diavolo che né il semolino né gli omogeneizzati avranno modo di placare così facilmente. Ormai ben pasciuto e svezzato appare invece il giovane e turbolento Andy protagonista del segmento Her Only Living Son, diretto da un’agguerrita Karyn Kusama in congedo all’horror antologico tutto al femminile XX – Donne da morire (2017), il quale, allo scoccare della maggiore età, scopre di essere nientemeno che il figlio prediletto di Satana in persona, allevato come un normale essere umano dall’amorevole madre Cora e ora pronto a ricongiungersi con l’illustre genitore caprino.
Niente diavolacci ma oscuri rimasugli di un terribile passato attanagliano invece la precoce esistenza del piccolo frugoletto partorito dalla bella Mary di Still/Born (Brandon Christensen, 2017), costretta a difendere con le unghie e con i denti la propria indifesa creaturina dall’ultramondana furia di un secondo pargoletto, anzitempo dipartito durante le procedute di estrazione e ora deciso a reclamare la propria fantasmatica poppata alla tettarella di mammà. Un altro letale Mai Nato, insomma, senza infamia e senza lode. Ma dopo esserci barcamenati fra gravidanze mostruose, parti satanici e concepimenti dall’Altro Mondo, è venuto ora il momento di pensare a cosa accadrà dopo, quando cioè il Male avrà dismesso ciuccio e pannolino per muovere i suoi primi letali passettini nel mondo, come buon pronipote del Damien di Omen. Ed è proprio qui che la storia del piccolo Miles (Jackson Robert Scott) inizia a far parlottare di sé, la storiella di un bambino buono e caro che, sotto gli occhioni sbalorditi e impotenti della dolce mammina (Taylor Schilling), inizia seriamente a perdere la propria aura di candida innocenza, rendendosi protagonista di atteggiamenti a dir poco agghiaccianti che rivelano, forse, la presenza di un demone, impossessatosi di un nuovo imberbe corpo con cui dar sfogo alle proprie allegre nefandezze. Sarà una seduta di ipnosi a far emergere l’arcano, costringendo la povera donna a riguardarsi un paio di volte l’Insidious di James Wan prima di escogitare un opportuno piano d’azione, ovviamente dopo una sessione intensiva di filmografia dedicata ai migliori pupattoli maledetti, da Grano rosso sangue a The Hole in the Ground, passando attraverso Il respiro del diavolo e Case 39. E sono appunto queste suggestioni che vanno a speziare e insaporire per benino Prodigy – Il figlio del male (2019), il nuovo stuzzicante horror diretto dal caro vecchio Nicholas McCarthy, uno che, dopo l’eccellente esordio spiritico di The Pact (2012), ha deciso molto presto di vendere la propria cinematografica anima al Diavolo con il programmatico At the Devil’s Door (2014), confezionando, in meno di un decennio, tre demoniache perle una in fila all’altra. E se già nella pellicola precedente la tematica della possessione infernale di un feto innocente puzzava abbondantemente di Apocalisse, stavolta non c’è alcun dubbio che il novello Principe delle Tenebre in guisa di bambinello avrà di che divertirsi, facendoci divertire e godere a nostra volta. Consapevoli del fatto che, se la madre dei cretini è sempre incinta, quella dei mostri e dei satanassi la sera non guarda certo Fazio in tv!