Cavara, Bido, Pradeux, Bazzoni e Crispino
Gli argentiani maggiori alle prese con variazioni significative sul tema del giallo di Argento.
Uno degli autori che meglio ha saputo esprimere l’atmosfera del nuovo cinema argentiano è Paolo Cavara, regista ostracizzato dalla corte di Gualtiero Jacopetti (era tra gli autori di Mondo cane) e deciso a riprendersi la sua rivincita in altri campi. Cavara con La tarantola dal ventre nero dirige un film teso, solare e allo stesso tempo minaccioso, che vanta una struttura narrativa persino più compatta di quella di Argento. Anche il titolo, che indubbiamente si rifà alla moda zoonima introdotta da L’uccello dalle piume di cristallo, nasconde una sua logica affascinante (l’ape e la tarantola), come affascinante è l’idea dell’assassino che prima paralizza le sue vittime e poi le smembra mentre queste sono ancora coscienti. Se il trauma da cui scaturisce la follia è forse un po’ troppo pretestuoso (un impotente che si vendica su tutto le scibile femminile), il resto funziona più che egregiamente, incominciando dal nutrito cast femminile (Stefania Sandrelli, Barbara Bouchet, Rossella Falk, Barbara Bach, Annabella Incontrera), fino al bravo Giancarlo Giannini (purtroppo doppiato), impegnato a delineare un ispettore umano pieno di dubbi e incertezze. Le influenze argentiane sono molte e si concentrano soprattutto nel rituale degli omicidi (lo spillone nel collo, per certi versi, anticipa la famosa scena della decapitazione di Quattro mosche di velluto grigio), nell’ambientazione (Roma), nell’utilizzo del macro (gli oggetti in casa dell’assassino) e della soggettiva, nelle musiche di Ennio Moriccone e nel look dell’assassino (guanti neri e impermeabile). Anche il rapporto tra il commissario Giannini e la fidanzata Sandrelli ricorda quello tra Tony Musante e Suzy Kendall in L’uccello dalle piume di cristallo, con il placido tram tram della vita a due (i mobili da comprare, le piccole incomprensioni) che viene sconvolto da una rossa catena di delitti e, come da copione, nel finale “lui” dovrà correre a salvare “lei” dalle grinfie dell’ assassino.
I risultati nelle sale furono più che incoraggianti; ma Cavara, che era un uomo intelligente e non voleva lasciarsi assorbire dal genere, tornò al giallo solo cinque anni più tardi con una produzione minore (la G. P. E. Entrepises in collaborazione con la C. P. C. Città di Milano, supervisionata da Guy Luongo e dai distributori Ermanno Curti e Rodolfo Putignani), dirigendo … E tanta paura (1976). Anche questa volta il cast era di tutto rispetto (Eli Wallach, Corinne Cléry, Michele Placido e John Steiner), e Cavara curò anche la sceneggiatura insieme a Bernardino Zapponi e Enrico Oldoini. La presenza di Zapponi tra gli sceneggiatori non è per niente casuale, visto che l’anno prima aveva firmato con Dario Argento l’ennesimo hit del “Maestro”, Profondo rosso; ma quello che Cavara e Zapponi tentano di fare con … E tanta paura è di decretare la fine del “giallo” con una parodia che ironizzi su tutti gli stilemi classici. Il film (ambientato questa volta a Milano) incomincia la sua opera di demolizione del genere fin dalla prima scena, quando ci viene mostrato il volto dell’assassina che strangola un attonito ma partecipe membro del club dei sadomasochisti. Tanto le vittime quanto i carnefici sono rappresentati come macchiette. Il commissario che indaga (Placido) è un duro che “non c’azzecca un cazzo” e che pensa più alle gonnelle che al suo lavoro. Gli alibi e i moventi perdono volontariamente ogni traccia di veridicità dietro machiavelliche spiegazioni che vogliono prendere per i fondelli gli improbabili espedienti utilizzati dai gialli negli ultimi anni; c’è persino una citazione di La tarantola dal ventre nero (con i gioielli importati di contrabbando nascosti nelle gabbie degli animali feroci, proprio come là il traffico di droga era garantito dalla cocaina nascosta nelle teche degli aracnidi velenosi), che sembra voler dire che nessuno è escluso dalla satira, nemmeno lo stesso Cavara. Meno compatto rispetto alla Tarantola…, con qualche lentezza in più e una discreta propensione alla sexploitation, … E tanta paura resta però una brillante rilettura del genere diretta con mano esperta da un autore originale che merita di essere riscoperto e rivalutato una volta per tutte. I momenti argentiani si limitano al classico look dell’assassino e all’utilizzo del macro e della soggettiva; ma questo, sinceramente, è (nel bene o nel male) tutta un’altra cosa rispetto al cinema di Argento.
Più strettamente argentiano è invece Il gatto dagli occhi di giada (1976), di Antonio Bido, regista proveniente dai corti e dal cinema sperimentale (suo il film Alieno che ottenne notevoli consensi ai festival di Parigi e New York), che debutta su grande schermo proprio con questo giallo prodotto dalla P.A.C. Ricorda il regista: «Per farlo ho dovuto accettare dei compromessi legati alla commerciabilità del film. Potevo scegliere qualsiasi “genere” purché fosse un “genere”. Mi è sembrato che il thriller fosse il modo più dignitoso per fare un film commerciale e nello stesso tempo, data la difficoltà del genere, mi dava la possibilità di dimostrare di avere anche le capacità tecniche per dirigere un vero “film”». Bido realizza la pellicola, girata tra Roma e Padova, con mano sicura, pur cedendo il ritmo a qualche lungaggine di troppo, e si diverte a contaminare il giallo con lunghe sequenze estemporanee (come quella dei titoli di testa a tempo di tango). Anche la storia, scritta da Vittorio Schiraldi (Baciamo le mani e Sono stato un agente CIA) cerca strade diverse da quelle finora ampiamente battute e ipotizza una vendetta legata all’Olocausto ebreo; ma le pressioni produttive sono troppo forti e i riferimenti a Dario Argento si sprecano soprattutto nel look dell’assassino, nei luoghi degli omicidi e nel doppio finale con il padre che tenta di proteggere il figlio (una sorta di rovesciamento dei ruoli rispetto a Profondo rosso). Bido non nasconde il suo poco interesse nel genere e se pur tornò a dedicarsi a sangue e omicidi nel successivo Solamente nero, quando Ermanno Donati gli offrì di proseguire sulla stessa strada rifiutò categoricamente: «Questo rappresentò il mio “arresto” cinematografico nel campo della fiction per quasi cinque anni. (…). Con il secondo film mi resi conto che, per restare fedeli al genere, si è costretti ad usare degli stereotipi, che l’inventiva risulta limitata e la ripetizione è una costante inevitabile e, di conseguenza, le prospettive non sono ambiziose: si diventa registi di genere e basta. Il numero uno già esisteva e si chiamava Dario Argento, mentre io sarei rimasto solo un suo discepolo».
Chi invece avrebbe fatto bene a non avventurarsi nel filone è Sergio Pastore, che debutta nel thriller con Sette scialli di seta gialla (1972), tentando un improbabile mix tra L’uccello dalle piume di cristallo e Il gatto a nove code. Girato in esterni a Coopenaghen, con una notevole dose di sesso e uno spreco di “divette” da far paura (oltre alla “divina” Sylva Koscina: Isabelle Marchal, Shirley Corrigan, Giovanna Lenzi, futura signora Pastore, e la solita Annabella Incontrera nel ruolo della donna “diversa”), il film (scritto da Pastore insieme a Sandro Continenza e Giovanni Simonelli, lo stesso di Nude… si muore) racconta la storia di un cieco (Il gatto a nove code) che indaga sulla misteriosa morte di alcune donne ritrovate cadaveri con a fianco uno scialle di seta gialla; presto i sospetti ricadono sul proprietario di un atelier di moda, che si scoprirà essere un paravento per nascondere il vero colpevole: sua moglie (L’uccello dalle piume di cristallo). I riferimenti ad Argento si sprecano e Pastore li mette in scena con scarsa originalità. Ancora guanti neri, rasoiate cruente (in realtà una sola: un’inaspettata scena “gore” quasi alla fine del film che vorrebbe essere un sincero, quanto scontato, omaggio alla doccia di Psycho) e dei rumori non ben identificati, registrati durante una telefonata, che alla fine si scopriranno essere versi di animali (niente di nuovo sotto il sole). Il movente naturalmente è il trauma: un incidente di macchina capitato all’assassina anni addietro che, come scrivono Tentori e Bruschini, “le ha deturpato il corpo e la mente”.
Maurizio Pradeaux, invece, è un regista che non vanta certo una grossa carriera cinematografica. Incontrato alcuni anni fa a Cannes, dichiarava di essere disilluso dal mondo dello spettacolo e dalle sue manipolazioni. Al giallo Pradeux ci arriva nel 1972, dopo una manciata di film western, bellici e spionistici, dirigendo Passi di danza su una lama di rasoio (1972), scritto dallo stesso regista con lo spagnolo Arpad De Riso (il film è una co-produzione tra la S.E.F.I di Roma e la Producciones Balcazar di Barcellona). Passi… eredita lo stesso cast delle pellicole di Luciano Ercoli, con Susan Scott come protagonista assoluta e Simon Andreu nella parte dell’assassino, e per certi versi ne ricalca pure le atmosfere, anche se il film è molto più vicino al cinema di Dario Argento di quanto non lo siano La morte cammina con i tacchi alti e La morte accarezza a mezzanotte. Il movente, stupido e banale, vede un musicista fallito sfogare la sua rabbia e la sua inquietudine martoriando giovani ballerine di sicuro successo. Susan Scott e Robert Hoffman indagano parallelamente alla polizia, mettendo a repentaglio la loro vita proprio come Tony Musante e Suzy Kendall in L’uccello dalle piume di cristallo. Gli omicidi vengono ovviamente tutti consumati “su una lama di rasoio” e il sangue sgorga a fiumi. I luoghi del delitto sono tutti sepolti nelle viscere di Roma, ma, a parte qualche omicidio ben congegnato (come la morte di Nerina Montagnani), il film si trascina lento fino all’improbabile conclusione. Peggio, Pradeaux riesce a fare cinque anni dopo in Passi di morte perduti nel buio (1977), il cui referente prossimo è sicuramente Profondo rosso. Girato ad Atene con Leonard Mann protagonista, il film parte con una situazione tipicamente hitchockiana (un omicidio consumato in treno durante il blackout causato da una galleria) e da Argento eredita il gusto per il macro (il primissimo piano dell’occhio dell’assassino che ne esprime la follia) e gli omicidi cruenti, anche questa volta a colpi di rasoio. Rispetto al precedente film, Pradeaux non elemosina sul sesso (notevole la scena lesbo resa dai dettagli della bocca, delle dita e dei capezzoli), ma deraglia completamente sul versante tensione, contaminando l’atmosfera gialla con situazioni goliardiche (i travestimenti di Leonard Mann) ai limiti della commedia pecoreccia.
Luigi Bazzoni, già autore dello splendido La donna del lago, ritorna al genere con Giornata nera per l’ariete (1971), tratto dal romanzo The Fifth Cord di D. Devine e scritto da Bazzoni insieme a Mario Di Nardo (Cinque bambole per la luna d’agosto, La volpe dalla coda di velluto e I due volti della paura) e Mario Fenelli. Diciamo subito che con Giornata nera per l’ariete Bazzoni firma un’altra pietra miliare del genere. Teso, cupo, splendidamente fotografato da Vittorio Storaro e con una compattezza narrativa inusuale, che si sofferma (cosa più unica che rara nel genere, ritenuta da molti inutile) ad approfondire la psicologia dei caratteri, il film si eleva al di sopra della dozzinale produzione dell’epoca. Come in La donna del lago, in cui i chiaroscuri dei personaggi servivano ad amplificare l’atmosfera gelida da incubo, così anche in Giornata nera per l’ariete, la totale mancanza di redenzione di ogni pedina messa in gioco, trasforma il film in un microcosmo “malato” in cui nessuno è realmente colpevole, ma neanche innocente. Lo stesso Franco Nero, giornalista fallito sia dal punto di vista professionale (le sue idee comuniste non sono ben viste nella redazione in cui lavora) che sentimentale (da una parte un matrimonio ormai sfasciato, dall’altro una patetica relazione con una ragazza molto più giovane), non si può certo definire un personaggio vincente. I momenti argentiani sono tanti e tutti assolutamente riconoscibili; anzi Bazzoni, con il suo stile asciutto ed elegante, riesce quasi a sublimarli, a renderli ancora più compatti e incisivi di quelli di Argento. Gioca sapientemente con gli stilemi classici, con le musiche da carillon, le voci in falsetto e gli accessori dell’omicida (il guanto nero di pelle diventa l’abaco su cui tenere il conto degli omicidi mediante un dito tagliato ogni volta che qualcuno viene ucciso). Gli omicidi non sono mai particolarmente efferati, ma ugualmente significativi; l’assassino uccide per vendicare una delusione d’amore, ma anche perché teorizza il sentimento di onnipotenza che l’omicidio dà (tematiche, queste, proprie di un Dario Argento più maturo che faranno capolino solo anni più tardi, in Tenebre). Insomma, un film geniale che soffre solo un po’ di un’eccessiva macchinosità nella trama e nei troppi personaggi messi in scena (che Bazzoni ci ricorda ogni volta con un rapido flashback).
Il terzo autore che, insieme a Cavara e Bazzoni, è riuscito a cavalcare il genere argentiano trasformandolo in qualcosa di “diverso” e personale è Armando Crispino. Crispino, collaboratore di punta di Antonio Pietrangeli, nonché critico per l’Unità, esordisce nel giallo con L’etrusco uccide ancora (1972), ennesimo tentativo di Lombardo (il film, co-prodotto dalla Mondial Tefi di Roma con la tedesca CCC GMBH e la jugoslava Inex, è stato distribuito dalla Titanus) di bissare il successo delle opere di Argento. In realtà, fin dalle prime inquadrature è possibile notare le scelte stilistiche e d’atmosfera che differenziano la pellicola di Crispino dai thriller prodotti nel periodo: una lunga panoramica aerea della necropoli etrusca con voce off che ne illustra i misteri e le suggestioni. Sembra quasi più il preambolo di una storia horror che non di un giallo. «L’etrusco uccide ancora», ricordava il regsita, «nacque proprio come film di atmosfera arcana e magica suggestione. Se avessi potuto avrei spinto ancora di più il racconto (scritto insieme a Lucio Battistrada, ndr) verso tale direzione ma, purtroppo, non me l’hanno consentito. L’idea nacque durante un’occasionale visita alla necropoli di Cerveteri e dalla suggestione che, appunto provai in quella circostanza, tra quelle tombe, con “presenze” quasi palpabili che aleggiavano tutto intorno». Il film parte bene, con una cruenta uccisione a colpi di spranga (poi si scoprirà essere una sonda per fotografare le tombe etrusche) di una giovane coppietta appartatasi nella necropoli, e, nonostante una seconda parte un po’ lenta, riesce a mantenere alta la suspense fino al diabolico finale. Merito soprattutto di una sceneggiatura curata e della delineazione dei personaggi (anche qui nessuno veramente positivo), che danno spessore alla vicenda. I momenti argentiani sono da ricercarsi nell’omicidio iniziale e soprattutto nel movente che spinge il giovane Carlo De Mejo a uccidere donne in quel di Spoleto: l’aver assisto alla scoperta del padre del tradimento della moglie con un giovane ballerino. Il trauma subito nell’infanzia (Profondo rosso ha ancora da venire…) scatena la follia omicida del giovane incapace di avere un rapporto “normale” con le donne. Meno argentiano (nella trama, ma non nella tecnica) è il successivo Macchie solari, con protagonista la Mimsy Farmer di Quattro mosche di velluto grigio, arrivata a Crispino grazie allo sceneggiatore Lucio Battistrada all’epoca molto amico di Vincenzo Cerami, marito dell’attrice. Crispino si diverte nuovamente a contaminare il genere con elementi di chiara matrice fantastica (in questo caso le visioni dei cadaveri redivivi all’inizio che gli hanno valso all’estero il titolo di Autopsy); ma questa volta si abbandona a una storia in cui il movente degli omicidi è legato al classico tema dell’eredità. Notevoli le suggestioni di una Roma deserta rarefatta dal sole (il film è stato girato nell’agosto del 1974) e i “duetti” sentimentali tra la Farmer e Ray Lovelock, accompagnati dalle musiche di Morricone. A parte qualche lentezza e qualche caduta di tono (il tentato stupro della Farmer nell’obitorio, il padre di lei che comunica con gli occhi dopo essere rimasto paralizzato: un chiaro rimando alle diavolerie tecnologiche dei film di Argento), Macchie solari riesce nel suo intento, e se anche la risoluzione finale non fa certo gridare al capolavoro, è apprezzabile il tentativo di Battistrada e Crispino di giocare con gli stilemi del genere, dal presunto prete assassino (un must per l’epoca) al trauma legato, questa volta, alla frigidità della ragazza e non agli impulsi maniacali dell’assassino. Tra i momenti più riusciti, il tentato assassinio della Farmer nel museo, con il fucile che esplode un colpo contro la testa del manichino, e il finto suicidio finale con Barry Primus e la Farmer nudi e narcotizzati mentre il gas invade l’appartamento, che ricorda forse un po’ troppo da vicino il finale di Lo strano vizio della signora Wardh. Crispino, pur prediligendo L’etrusco uccide ancora, si diceva soddisfatto del risultato e raccontava: «L’idea delle influenze negative del sole nasceva da un articolo di cronaca – che scoprii insieme allo sceneggiatore Lucio Battistrada – in cui si parlava di una recrudescenza di suicidi apparentemente immotivati che si succedevano durante il periodo estivo. Questa tendenza dipendeva in realtà da uno strano fenomeno solare che determinava reazioni parossistiche negli individui psicolabili. Incuriositi, ci informammo attraverso la stampa e decidemmo di scrivere una storia “thriller” imperniata sulla figura di una giovane infermiera che presta servizio in un obitorio, proprio partendo da questo fatto. (…). Ricordo che contemporaneamente alla lavorazione del film fu commesso un omicidio “reale” su una spiaggia, e alcuni giornalisti mi additarono come una sorta di anticipatore dell’ondata di follia collettiva che ne seguì».
Citiamo infine un regista che ha dato il meglio di sé in altri campi e che si è accostato al giallo puro una sola volta, cioè Stelvio Massi, autore di Cinque donne per l’assassino (1974). Il titolo, mutuato dal classico di Mario Bava, in origine doveva essere inspiegabilmente Due occhi d’acqua chiara. Prodotto da Carlo Maietto, 5 donne per l’assassino si inserisce nel filone argentiano mettendo in scena una serie di omicidi a sfondo sessuale in cui le donne uccise sono tutte in “dolce attesa”. Il movente (molto argentiano) è la follia di un’infermiera che non potendo avere figli si vendica nei confronti del genere umano; ma la storia scritta da Gianfranco Clerici e Vincenzo Mannino insieme a Roberto Gianviti (autore di tutti i gialli di Fulci e di Sette orchidee macchiate di rosso), prevede anche un secondo assassino che approfitta della catena di omicidi per liberarsi di un’amante scomoda. Massi viene dalla fotografia e il film è confezionato più che dignitosamente; ma la mancanza di un vero interesse nel genere da parte del regista gli impedisce il giusto coinvolgimento. Gli omicidi sono, ovviamente, tutti compiuti con armi da taglio (in prevalenza un bisturi, ma anche coltelli e accette), e ai classici guanti di pelle nera Massi ne preferisce un paio bianchi, di tessuto, che serviranno anche come mezzo per depistare lo spettatore.