Dario Argento e Inferno. Alchimie orrorifiche – Cap. 1

Perché rivedere ancora il film successore di 'Suspiria'
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“A fuoco, sta andando tutto a fuoco… è già accaduto un’altra volta…” (Mater Tenebrarum, durante la scena finale di Inferno)

Inferno. Non si potrebbe pensare a un termine più appropriato per descrivere il pianeta terra, oggi, deturpato com’è dai suoi tanti e troppi “inferni”, quasi tutti di matrice umana. Quello narrato nel 1980 da Dario Argento è per molti versi un inferno largamente più affascinante, impenetrabile, ma dov’è ancora il Male, in fin dei conti, a essere protagonista. “Dopo le streghe [di Suspiria, N.d.R.]”, scriveva così il regista nella sua autobiografia Paura (Einaudi, 2014), “pensai che per raccontare il male ancora più in profondità, l’unica scelta che avevo a disposizione era mettere in scena la Morte, perché sopra di lei non può esserci più nessuno. Per rappresentare la sua personificazione, e anche per ottenere altri giochi ottici, ebbi il privilegio di lavorare con Mario Bava, i cui effetti speciali ancora oggi – a distanza di così tanto tempo, e persino con l’avvento del digitale sono invidiati da mezzo mondo; il film segnò anche l’inizio della mia collaborazione con suo figlio Lamberto, che fece l’aiuto-regista”. La Morte in questione Argento l’avrebbe fatta apparire nel suo settimo lungometraggio, tra macerie lussuosamente fiammeggianti, sotto forma di donna. A interpretarla, un’affascinante Veronica Lazar la quale, sempre nel film, è in realtà Mater Tenebrarum, la Madre delle Tenebre, la più giovane e crudele delle Tre Madri, divinità degli inferi che si celano una a New York (la stessa Mater Tenebrarum), una a Roma (Mater Lacrimarum), l’altra a Friburgo (Mater Suspiriorum). L’idea delle Tre Madri, da lui riadattata, Argento l’aveva tratta da Suspiria de Profundis, raccolta di saggi (risalente al 1845) dello scrittore inglese Thomas de Quincey e da cui già derivava un primo spunto per il caso del suo film precedente, l’imperituro Suspiria (1977). Sia quel film sia Inferno farebbero parte di una supposta trilogia (insieme a La Terza Madre, del 2007), ma che si scelga o meno di attenersi a quella idea, sarebbe certamente ingiusto far passare Inferno per un semplice sequel del film che cronologicamente lo precede. Esso infatti non è, tanto per intenderci, un “Suspiria II” (titolo che per assurdo fu usato dai giapponesi per distribuire Profondo Rosso nel Sol Levante), sebbene non manchino elementi che in più di un modo parrebbero collegarlo allo stesso, a partire dal cast. Alida Valli, che in Suspiria interpretava l’austera e sgargiante Miss Tanner, riappare in Inferno ma con un aspetto decisamente differente, volutamente sobrio, come a spezzare una qualsivoglia ipotesi di continuità col suo personaggio precedente.


Il tassista (interpretato da Fulvio Mingozzi) che ancora in Suspiria scorta in taxi Jessica Harper fino all’accademia di danza di Friburgo, è anche colui il quale in Inferno fa salire a bordo del medesimo mezzo Eleonora Giorgi, vista in questo film come una sorta di “Bella Addormentata” che pungendosi un dito uscendo dal taxi, “entra in una specie di mondo parallelo incantato e maledetto dal quale non tornerà mai più indietro” (Paura, Einaudi, 2014). Daria Nicolodi e Gabriele Lavia, che nulla c’entrano col cast di Suspiria (Nicolodi aveva però doppiato Helena Markos/Mater Suspiriorum) – diversamente da Profondo Rosso, dove i due interpretavano la prima la briosa giornalista Gianna Brezzi, il secondo il pianista alcolista Carlo -, svolgono qui in Inferno parti minori e alquanto anonime, ma gli omicidi di cui sono vittime sono fra i più memorabili del cinema di Dario Argento (lo stesso non si potrebbe dire della fine che viene fatta fare a Leopoldo Mastelloni, cui vengono cavati gli occhi con un effetto splatter non dei migliori). Il coinvolgimento in Inferno della cara Nicolodi (poi scomparsa tristemente nel novembre 2020 all’età di settant’anni), fu maggiormente significativo per ciò che concerne l’ideazione stessa del concept del film, pur non essendo stata ufficialmente accreditata in questo senso, dal momento che fu anche grazie a lei se Argento tornò a riabbracciare tematiche misteriche col suo cinema. Di grande ispirazione, ai fini del componimento di Inferno, fu nello specifico uno studio da lui compiuto in Francia concernente le simbologie delle cattedrali gotiche, cui già l’alchimista Fulcanelli aveva interpretato secondo un’ottica ermetica ed esoterica. Non per nulla, stando allo stesso Argento, Inferno sarebbe disseminato di enigmi che disporrebbero di una chiave di lettura alchemica (enigmi che tuttavia, ha così spiegato, non vengono appositamente rivelati allo spettatore). Ciò che è invece facilmente deducibile è che l’architetto alchimista che descrive nel film, Emilio Varelli, progettista e artefice delle tre dimore delle Madri, chiama in causa sin dalla facile assonanza col nome lo stesso Fulcanelli (figura altresì menzionata in altre due pellicole minori dell’orrore come La Chiesa, di Michele Soavi, e Zeder, di Pupi Avati), dandone una sua interpretazione perlopiù sadica, nonché immaginandone persino il laboratorio, che ricostruisce con grande prestigio scenico. Sulla reale identità del Fulcanelli, ancora oggi vi è grossa speculazione, a partire dal fatto che il suo nome non era altro che uno pseudonimo segreto riconducibile, per accostamento fonetico, alla combinazione dei termini vulcano ed helio (in sé due elementi che rimanderebbero ai fuochi alchemici). Al Fulcanelli sono comunque sia attribuiti ufficialmente tre testi, ancora oggi reperibili in italiano: Il mistero delle cattedrali (e l’interpretazione esoterica dei simboli ermetici della Grande Opera), Le dimore filosofali (e il simbolismo ermetico nei suoi rapporti con l’arte sacra e l’esoterismo della Grande Opera), e quindi Finis Gloriæ Mundi, la cui autenticità, in quest’ultimo caso, è stata più volte messa in discussione da una certa quantità di studiosi di esoterismo.

La configurazione caratterizzante di Inferno

Per creare la sceneggiatura del film, Argento scelse di barricarsi in una camera dell’hotel St. Moritz di New York, presso Central Park, nel cui noto lago avrebbe ambientato una delle sue scene più deliranti e al contempo criticate. Siffatta scena è quella in cui l’ambiguo antiquario zoppo Kazanian (l’attore Sacha Pitoëff), affoga alcuni gatti “malvagi” – nessun vero felino fu però urtato durante le riprese – venendo a sua volta attaccato da un esercito di famelici roditori durante un’eclissi di luna, perdendo poi definitivamente e assurdamente la vita grazie alla coltellata sferratagli da un venditore di hot dog. (Così come il film stesso fu girato in larga parte a Roma, anche un pezzo di questa sequenza fu salvato usando un laghetto artificiale ricostruito dentro gli studi De Paolis del capoluogo italiano). Kazanian è poi un elemento chiave rispetto allo sbocciare della trama del film, poiché è attraverso la sua figura che tutto il mistero ha inizio. È lui a vendere il misterioso tomo The Three Mothers, redatto dal Varelli – a prima vista uno dei tanti, secondo Kazanian, a narrare il tema delle “case maledette”-, alla giovane poetessa Rose Elliott (Irene Miracle), la quale traducendone le pagine dal latino, si lascia morbosamente avviluppare dalla storia che si cela all’interno. Rose comincia a compiere alcune indagini private, convincendosi attraverso la lettura del testo di star alloggiando nel palazzo di una delle Tre Madri. Tale palazzo di stile neogotico, ove una targa affissa all’esterno reca la passata residenza del filosofo e mistico armeno Georges Ivanovič Gurdjieff, è in effetti la residenza della Madre delle Tenebre (l’imponente condominio fu reso tale grazie a un trucco operato dal grande Mario Bava – originariamente di pochi piani, fu ampliato con una piccola scultura da lui costruita; parimenti, altre vedute urbane che si notano nel film sono in realtà grattacieli da tavolo costruiti ancora da Bava artigianalmente, sfruttando semplici cartoni del latte ricoperti di fotografie). Da New York, quindi – ma parliamo di una New York surreale e immaginifica -, Rose scrive una lettera al fratello Mark (Leigh McCloskey), che risiede a Roma, narrandogli a proposito di alcune sue presunte deduzioni, che ai fini dello svolgimento del film sono sufficienti a mettere in atto una catena di delitti e a liberare al contempo un’ondata invisibile di energia negativa che si abbatte sui protagonisti. Qualcosa che, a ben vedere, sembrerebbe trovare una specifica regia nella luna, come se questa, distante ma al contempo sorprendentemente vicina, osservasse l’inferno prendere forma sulla terra; una luna inquietante e minacciosa, a più riprese inquadrata lungo il minutaggio del film, e della cui presenza certamente Rose prende coscienza.