Echi dal passato cyberpunk: alla riscoperta di Hardware – Metallo Letale, di Richard Stanley
Il cult cyberpunk
«Nessuna carne verrà risparmiata.»
– M.A.R.K. 13 –
Richard Stanley è sempre stato un tecnofobico dichiarato. Lo era già nel 1990, all’epoca in cui esordì nel lungometraggio, con pochissimi mezzi e in giovanissima età (ventiquattro anni), tirando fuori, forte di un’eloquenza espressiva già ben tratteggiata, questo piccolo gioiello permeato di concezioni apocalittiche. Per descriverlo lo si è accostato a Terminator, Mad Max 2, Alien, Hellraiser, Videodrome; ma tutto questo dire, per quanto non improprio, sfugge all’immenso e peculiare talento per la materia visiva che è invece unicamente ascrivibile al regista in questione.
Stanley, osservandolo ancora oggi, con quel suo look che lo fa sembrare una specie di dark, ma filtrato attraverso un paragrafo di Tolkien, sembrerebbe davvero arrivare da una dimensione altra. Sulla sua biografia, mettendo da parte per un istante il film che abbiamo scelto di raccontare, bisognerebbe scriverci un volume intero. Nasce in Sudafrica da una professoressa di Antropologia, facoltà che sceglierà anch’esso di seguire, all’Università di Città del Capo, lavorando contemporaneamente presso l’archivio del South College Of Music. Ma è scortando la madre nelle di lei perlustrazioni etnologiche che il giovane Rick ha l’opportunità di sviluppare una fervida passione per la stregoneria e per le storie di folklore. Giunto a Londra per sfuggire all’arruolamento nella guerra civile di Angola, comincia a imprimere le sue visioni interiori in formato super 8 e 16mm, realizzando lavori già interessanti quali Rites Of Passage (1983) e il mediometraggio Incidents In An Expanding Universe (1985), per poi darsi alla regia di alcuni videoclip per artisti come PiL e Fields Of The Nephilm, gothic rock band guidata dalla voce cavernosa di Carl McCoy. Dopo aver seguito un gruppo di guerriglieri musulmani in Afghanistan e aver messo seriamente a repentaglio la propria incolumità, si mette finalmente a lavorare alla pre-produzione di Hardware, film che comincia proprio con l’apparizione dell’anzidetto McCoy. Il cantante, agghindato come se stesse per fare uno shooting col suo gruppo, interpreta il Nomade, un wanderer che si aggira serpentinamente lungo lande rossastre e desolate e con indosso una maschera antigas, dato che nell’aria filtrano solo radiazioni. Ed è appunto nel medesimo background, da cui raccoglie ferraglia da rifilare a un venditore di cianfrusaglie nano, che egli rinviene i resti metallici di uno strano androide, il cui cranio può ricordare a prima vista quello di un Darth Vader appestato.
Del robot ne diventa suo malgrado acquirente un tale di nome Moe (Dylan McDermott), che lo trasforma in un regalo natalizio per la sua ragazza, Jill (la bella Stacey Travis), la quale vive all’insegna di una specie di eremitaggio forzato tra claustrofobiche mura domestiche, lavorando con la fiamma ossidrica e con arnesi vari a degli strambi progetti artistici. Sino a che, quest’essere metallico, che si scoprirà chiamarsi M.A.R.K. 13 (ispirato a un passo biblico del libro di Marco) non comincia a rigenerarsi, stuzzicato dall’amplesso notturno della coppia, per mettersi all’opera nel progetto per cui era stato originariamente programmato: sterminare ogni essere vivente che gli si para dinnanzi. Da qui in avanti il ritmo di Hardware comincia a incalzare alla grande e Stanley dimostra davvero di saperci fare, regalando allo spettatore bordate cyberpunk che non concedono cadute di tono. Le splendide, claustrofobiche ambientazioni sanno evocare percezioni che affiorano solamente leggendo un racconto di Philip K. Dick, con certi sprazzi umoristici e imperdibili ai limiti del trash.
Nello scenario di Hardware, affrescato con colori di fascinosa cupezza oppressiva, la vita è un soffocante supplizio per chi ancora arranca in un pianeta ridotto all’abbandono, e la legge, dopo aver imposto il controllo delle nascite, ha dato il via all’apertura di centri di sterilizzazione. Attraverso il tubo catodico filtrano solamente immagini sadiche e brutali, mentre alla radio la fa da padrona una stazione dal nome profetico, W.A.R., da cui trasmette uno cinico speaker invisibile di nome Angry Bob (la voce di costui, che sfugge al doppiaggio italico, è quella del mitico Iggy Pop). Una desolazione che in un certo senso ci ricorda quella della nostra epoca corrente, dove il quotidiano degli individui, tra surriscaldamento e sovraffollamento, al di là dell’apparente agio appare sempre più subordinato ai voleri indecifrabili di quel qualcosa di oscuro chiamato algoritmo.
Il film si basa sostanzialmente sul racconto Shok! della serie a fumetti di Judge Dredd, originariamente pubblicato da 2000 AD, settimanale antologico britannico di fumetti sci-fi. Hardware viene pertanto citato come il primo spin-off in assoluto attribuibile a 2000 AD, anche se in realtà, Stanley ha sempre citato come influenza primaria per il suo film Soylent Green, di Richard Fleischer, negli anni divenuto un cult minore della corrente fantascientifica, uno dei primi utopici del genere, che sul territorio nostrano uscì con il titolo di 2022: I Sopravvissuti. Stanley lo vide al cinema a dodici anni e ne rimase impressionato per i temi trattati, in cui viene dipinto un pianeta terra devastato, dove la natura è spirata e il clima è perennemente torrido. Un po’ come nel Ballard de Il Mondo Sommerso, anche se in quel caso il deserto post-apocalittico è quello acquatico delle lagune.
Nonostante i pochi denari, Stanley potè in definitiva realizzare un lavoro convincente, forte di un certo estro artigianale (M.A.R.K. 13, ad esempio, fu realizzato in animatronics), potendo altresì contare, per la distribuzione in America, sull’appoggio dei fratelli Weinstein, di cui uno dei due è lo stesso divenuto noto, oggi, come “il re delle molestie”. Non possiamo lasciarci, però, senza aver segnalato un ultimo cameo d’eccezione, quello del grande Lemmy Kilmister, il compianto leader dei Motörhead, che nel film interpreta il ruolo di un improbabile tassista acquatico che ascolta la famosa Ace Of Spades della sua band alla radio. Sentirlo parlare con la stessa voce che si occupava di doppiare in italiano l’attore Robin Williams è un’esperienza alquanto surreale. In VHS, dalle nostre parti, il film uscì anche con il titolo di Hardware – I robot non muoiono mai. Uno dei rari casi in cui i distributori italiani, i quali sono soliti affibbiare titoli random ai film stranieri, ci avevano visto lungo (anche se scoprendo l’acqua calda).