Erotic dreams of Cleopatra
Realizzato come film di recupero dell’ Ars amandi di Walerian Borowczyk, Erotic Dreams of Cleopatra ripropone in chiave sexploitation la figura della regina d’Egitto che fece impazzire Giulio Cesare e Marcantonio...
Cleopatra – che in Italia pronunciamo alla greca, con l’accento sulla a, e non invece alla latina, con l’accento sulla o: etimologicamente “Gloria del padre”. Tutti la conoscono e persino l’ignorante più greve e turpe sa che si diede la morte con il morso di un aspide che si fece portare – dicono – insieme a un piatto di fichi (anche se oggi la meccanica del suicidio viene messa in forse e probabilmente trapassò sorseggiando lo stesso veleno che aveva ammazzato Socrate, l’aspra cicuta). Più che bella, sensuale, nonostante la campagna stampa di Ottaviano l’avesse trasformata in una virago dalla libidine smodata, lupigna, predatoria, Cleopatra era la donna che si presentò a Cesare avvolta in un tappeto, srotolato il quale, eruppe nella sua maestosa nudità, e che Marcantonio vide la prima volta sulla prua di una nave, adorna solo di gioielli e dell’ambratura croccante della pelle. Una figura che lavora e macina sull’immaginario collettivo, potentemente, nei secoli dei secoli. Il cinema la fa subito sua, perché nella storia della figlia di Tolomeo XII Neodioniso detto “Il Flautista”, c’è tutto: guerra, amore, passione, sesso, intrigo, perfidia, politica, arte, dramma, farsa. Siamo oltre la sessantina di film dai tempi del muto. I sogni erotici di Cleopatra sta intorno alla quarantesima posizione e Marcella Petrelli, l’interprete che sveste i panni della regina d’Egitto nata nel 69 avanti Cristo e uscita di vita 39 anni più tardi, il giorno precedente le Idi di Agosto, si trova a raccogliere idealmente il testimone di Helen Gardner, Vivien Leigh, Elizabeth Taylor, Hildegard Neil, Geneviève Bujold, per limitarsi a qualche nomone.
Sulle antecedenti, Marcella Petrelli, carne ancora abbastanza fresca, piccolina, tipo ipertiroideo, begli occhi soprattutto con il ripasso esotico del cajal, in un film che in francese si intitola Le Nuits Chaudes de Cleopatra, accusa un solo vantaggio: che lei fa in scena, apertamente, ciò che la Taylor praticava con particolare frequenza nel privato e magnificava con la frase: «Il gioiello più gradito per una donna sono un paio di ginocchia dietro le orecchie». La Cleopatra della Petrelli, per farla breve, scopa. Scopa con gli uomini, scopa con le donne – soprattutto con le donne, dato che è una bi, ma più lesbo che etero – e scopa anche con le bestie: si trastulla nel suo letto per mezzo di un serpentone – vero, non un attrezzo di scena –, usato come vivente godemiché, e pratica a un cavallo bianco un massaggio penieno impostole dal lussurioso Giulio Cesare, che mentre Cleopatra mena l’affare dello stallone si ingroppa la medesima; e lei, innamorata com’è del di lì a poco divus Iulius, accetta di prostrarsi nella stalla ad angolo retto, mugolando: «Obbedisco!». Ecco detto subito, in dieci righe, perché valga la pena recuperare e vedere questa quarantesima Cleopatra, messa insieme tra l’Italia e la Francia, che i produttori Ugo Tucci e Camillo Teti, della 2T Produzione e distribuzione cinematografica, decisero di realizzare con il solo fine di piazzare un secondo film sopra ai costi di realizzazione e costruzione scenografica dell’Ars Amandi di Walerian Borowkzyk – un eros d’arte che come eros funzionava poco, tant’è che convocarono poi Aristide Massaccesi per aggiungervi qualche salutare, mitologica, ingroppata. I sogni erotici di Cleopatra – il titolo così non esiste in italiano, è solo una traduzione di quello internazionale Erotic Dreams of Cleopatra; l’Anica lo registra come Le vestali del peccato, passato in censura tardissimo, nell’agosto del 1987, cioé quasi quattro anni dopo che era stato fatto (inizio riprese dichiarato al 27 giugno 1983, come Gli ultimi giorni di Cleopatra) e due anni dopo essere uscito in Francia (dall’8 maggio 1985, secondo il CNC) – riesuma la vetusta filosofia del recupero, dello “spendi uno per avere due”, della legge “delle polpette”, con scene di massa e di movimento che Tucci attinse da uno dei dei tanti antichi romani che stavano nel catalogo Variety.
Una scritta pseudociceroniana ci introduce: “Nel 46 avanti Cristo Cesare condusse a Roma Cleopatra e suo figlio Cesarione, ma i romani erano ostili alla regina egiziana. Risiedeva in un palazzo oltre il Tevere, dove era costretta a condurre un’esistenza riservata, a dispetto della sua natura ardente. Trascorreva i suoi giorni nell’ombra per mantenere l’unica cosa che considerasse preziosa: Cesare. Benché la forza vitale della città fosse enorme, la Morte regnava intorno a lei”. Cleopatra, nell’ideazione di Rino Di Silvestro – che scrive la sceneggiatura associato, per ragioni di burocrazia, al nome di Marcel Albertini, un nizzardo che con la Naja Film aveva coprodotto l’Ars amandi di Boro e che tornava di mezzo anche in questo – è preda dell’incubo che l’amato Cesare venga lardellato di pugnalate e che la sua mano, di lei Cleopatra, si intrida di quel sangue. L’incubo è proprio un incubo, senza metafora, in cui di volta in volta i misteriosi pugnalatori che calzano maschere bianche svelano il volto. Bella scena. Un sogno mantico. Ma anche intorno a Cleo è un proliferare di serpi – stavolta con metafora – tra le quali spicca Rita Silva che per una buona parte del film sembra la vera protagonista (tant’è che si finge la regina ed è truccata e acconciata come lei) e la Petrelli una comprimaria. Il personaggio ha nome Kelmis, sovrintende al compartimento schiave di Cleopatra, ed è una scopatrice indefessa: tra le gambe le passa tutto l’entourage maschile che va e viene dalla villa al Gianicolo dove la regina si è acquartierata; a partire da un certo fustacchione, Spurina, guardia del corpo di Cleopatra (lo interpreta Andrea Coppola), per arrivare agli alti ranghi romani, al roccioso Marcantonio ben reso da Paul Branco e a Dolabella, il genero di Cicerone, che Venantino Venantini (il suo nome non appare da nessuna parte, forse si vergognava) caratterizza come un sessuomane, spione e origliatore: in una sequenza clou, bilanciata tra un gioco di ombre sul muro e il riflesso di uno specchio, il fedele di Cesare, consul suffectus del 44, è armato di un pene mostruoso che inturgidisce a vista e a dismisura, su cui si gettano con la bocca due ancelle di Cleopatra ma che in risoluzione di scena si scopre un membro fasullo, posticcio, una scultura che nel corso della storia più e più volte attirava lo sguardo di Rita Silva quando era lasciata a secco dai partner – anche la sopracitata masturbazione del cavallo bianco è risolta in una prospettiva di ombre cinesi.
Rita Silva è una di quelle presenze femminili che nel peplum si definivano “perfide con risalto”, e alle donne così tocca sempre una morte che non può essere comune. Di Silvestro – che fu uno dalla perversione creativa – pensa a un tunnel umano di scudisciate, dopodiché Kelmis è costretta a leccare le gambe della sua regina che, finalmente, le somministra una pozione venefica levandosela dalle scatole. La linea principale del plot segue comunque il tentativo di Cleopatra di bloccare la sorte infausta che pende su Cesare e che i sogni le hanno rivelato, anche a costo di andare per lupanari mascherata da sgualdrina, per sfoltire le file dei cospirazionisti. Un Cesare che si vede poco e che ha le fattezze lanuginose e piuttosto improbabili di Jacques Stany. Ma a proposito di interpreti: l’identificazione di alcuni non è per niente agevole, perché trattasi di avventizi, rapsodici, mordi e fuggi che si vedono solo in questo film: la serva lesbica innamorata di Cleo, ad esempio, chi sarà? Laura Merit Mori, come si legge in fonti tedesche, o qualcun’altra della quota Francia? E l’ispirato sacerdote di Iside con gli occhi azzurri un po’ a palla pure lui, come Cleopatra? Forse è Jac Perac? Monika Zanchi, parruccata di nero, si contorce in una scena di sesso a tre, con Coppola e un’altra ancella di Kelmis, figurando ai generici come Monica Ciprari. Epilogo: i congiurati sono troppi e potenti e alle Idi di marzo si compie ciò che era scritto si compisse. Cesare cade trafitto dai pugnali (fuori scena: d’altra parte lo abbiamo visto morire venti volte nell’incubo delle maschere bianche che la fotografia di Giovanni Bergamini rarefa, sovraesposto e caliginoso) e a Cleopatra non rimane altro che prendere la fuga da Roma, facendo vela verso l’Egitto dai palmeti di Fogliano.
Da toccarsi, infine, il tema caldo: “Chi lo ha diretto?”. Il dubbio è stato posto, infatti, che dietro lo pseudo Cesar Todd, non sia nascosto il Di Silvestro, ma si celi il produttore Camillo Teti. Sarebbe stato lo stesso Di Silvestro a smarcarsi dalla responsabilità della regia, sostenendo che lui si era limitato a scrivere il copione e che lo aveva poi ceduto, senza più alcun coinvolgimento, a quelli della 2T. Il principio “Se lo ha detto Di Silvestro, allora è vero”, si scontra con quanto riportato nei documenti ministeriali, in cui la regia figura solo sua; e con quanto Monica Zanchi raccontava, ovvero che sul set ebbe a litigare aspramente con Di Silvestro, regista, che insisteva perché si girassero scene non previste in sceneggiatura. Teti firmò la sua prima regia ufficiale solo nel 1986, I vizi segreti degli italiani quando credono di non essere visti, che forse significa poco o forse molto, visto che qui eravamo tre anni prima. Quel che è certo è che lo “stile” rimanda esplicitamente al Di Silvestro, a cominciare dalla fissa per l’illustrazione dei rapporti lesbici che nel film, come già detto, reggono la parte del leone. Venne realizzato anche con del porno? “Tra due spiegazioni a contrasto onde giustificare un certo fenomeno, dovrebbe vale la più semplice”, teste Occam e il suo rasoio: dunque, se Nadine Roussial esce ai generici di coda (come Nadine Raussiel) e nel montaggio noto la pornostar non appare, il motivo più probabile e plausibile è che fosse stata impegnata in scene a luce rossa. E del resto, Di Silvestro da Baby Love (1978) in poi (ma quasi certamente anche prima) per quei tramiti oltrecensura ero uso dirigersi.