HARVEY A PEZZI – Seconda parte
Anatomia del caso Weinstein
DALLA SEXPLOTATION AL NUOVO CINEMA INDIE
Il cinema è fatto di due cose: ego e avidità di denaro, in questo i fratelli Weinstein sono perfetti: il rumoroso Harvey è l’ambizione per il cinema d’autore mentre il più silenzioso e razionale Bob segue i prodotti più commerciali.
Peter Biskind, Down and Dirty Pictures
Harvey Weinstein, un uomo che ha fatto della sua passione per il cinema un impero, ma anche un carattere irascibile con cui è facile litigare. Vestito di nero (che come si sa dovrebbe snellire), viene solitamente descritto con una Diet Coke in una mano e un pacchetto di sigarette nell’altra, o con una busta di M&M’s, causa, a sua detta, del carattere irascibile dovuto a squilibri con il glucosio. Se perplime il fatto che qualche dolciume di troppo sia l’origine di un carattere così furente, non vi è alcun dubbio che la feroce ambizione di quest’uomo abbia cambiato il panorama del cinema indipendente americano su tutti i fronti: prodotto, produzione e distribuzione.
I PRIMI ANNI DELLA MIRAMAX E IL PANORAMA INDIE AMERICANO
Con l’inizio degli anni ’80 la creatura nata da Harvey e Bob Weinstein chiamata Miramax, compiva i primi passi nell’ambito della produzione, con un horror low budget,The Burning, slasher di cui si è ampiamente parlato nel capitolo precedente. Parallelamente iniziarono i primi tentativi ufficiali nel campo della distribuzione: i fratelli comprarono i diritti di Goodbye Emmanuelle al Festival di Cannes, per proiettarlo in cinque sale differenti nell’area di Buffalo. Naturalmente il terzo capitolo della serie erotica basata sul romanzo di Emmanuelle Arsan era vietato ai minori di 17 anni, fatto che scaturì curiosità di spettatori e stampa, una mossa di marketing prevista dallo sguardo imprenditoriale dei Weinstein. C’è da dire che lo stesso sguardo era decisamente anomalo rispetto a quello dei colleghi che lavoravano nello stesso settore, in America. Perché nessun altro se non i Weinstein, motivati dal trattare quei film che nessun altro toccherebbe, avrebbe distribuito negli States una pellicola di Bruno Mattei come Emanuelle e le porno notti nel mondo n.2. Comprare economiche pellicole straniere soggette a censura per poi rivenderle a un distributore homevideo o a canali via cavo, permise ai fratelli di tirare su i primi soldi. In questi anni il panorama dei film low budget americani era decisamente incerto, i registi della American New Wave si dirigevano verso il mainstream, come Lucas, altri venivano marginalizzati, come Altman. Nonostante film di genere come Halloween o The Kentucky Fried Movie avessero riscosso successo al box office, opere art house come Northern Lights lottavano per avere un po’ di audience. A parte qualche associazione che offriva fondi per permettere a filmakers indipendenti di agire al di fuori del sistema hollywoodiano (come la Independent Filmmaker Project), non esistevano circuiti o festival prestigiosi come quelli europei, dedicati a questo modo di fare cinema. In questo panorama prese vita il Sundance Film Festival, con la speranza di far crescere una nuova generazione di registi indipendenti che scaturisse lo stesso interesse e successo al box office delle pellicole di Bergman, Fellini e Truffauts, agendo al di fuori dell’imponenza delle major. Nello stesso periodo si formarono alcune aziende come la Cinecom o la New Line, distributori orientati verso prodotti low budget come documentari, film stranieri importati, o narrativamente sperimentali. Quello che permise alla Miramax di sopravvivere negli stessi anni in cui altre realtà interessate al panorama indi fallivano, è stato saper abbinare prodotti low budget a mirate strategie di marketing, puntando su prodotti di qualità.
Ma che cosa s’intende precisamente con l’aggettivo “indipendente”? Un prodotto che prende vita al di fuori delle dinamiche legate agli studios, spesso con tematiche assorbite dal periodo della Nuova Hollywood, un’estetica, insomma, anti hollywoodiana. Se Hollywood pullula di registi, il panorama indipendente è abitato da filmakers; se i primi creano movies, i secondi fanno film; se Hollywood rinuncia a soggetti controversi il cinema indipendente li abbraccia, se Hollywood sforna film su commissione, il panorama indi si concentra sulla sensibilità individuale. Tra il gruppo dei registi indipendenti formatosi negli anni ’80, alcuni come Richard Pearce, John Sayles e Spike Lee, prendevano spunto dalla lotta ai diritti civili e dai movimenti di protesta contro la guerra nati nei ’70. Altri affrontavano argomenti legati al sesso ritenuti dei tabù, come Gus Van Sant, altri ancora come Jim Jarmush percorrevano scelte estetiche non convenzionali o sperimentavano una sensibilità ironica e intelligente come i fratelli Coen. Così come aveva fatto la Nuova Hollywood con i suoi anti-divi (come Robert De Niro, Al Pacino e Dustin Hoffman), il nuovo panorama indi introduceva una generazione di attori come Steve Buscemi, John Turturro, Tim Roth, Joaquin Phoenix, e attrici come Lilyy Taylor, Catherine Keener, Janeane Garofalo, Gwyneth Paltrow e Uma Thurman; alcune di queste anni dopo ringrazieranno o malediranno Harvey Weinstein. Nonostante la spinta verso un cambiamento radicale della produzione e distribuzione americana, durante gli anni ’80 nessun film indipendente riusciva a sfondare davvero al botteghino, il cambiamento era intellettuale, mentre dal punto di vista del marketing questi prodotti erano destinati a far parte di circuiti di nicchia. Harvey e Bob già allora erano assetati di successo e soldi, ma non avevano ancora sviluppato quell’aggressiva strategia di marketing che li differenzierà solamente alla fine del decennio. Interessati alla musica rock, soprattutto Harvey che aveva lavorato precedentemente come organizzatore d’eventi musicali, iniziarono a distribuire film o documentari che parlavano proprio di questo mondo: pellicole come Rockshow (1980) con Paul McCartney, The Genesis Concert Movie (1977), The Concert of Kampuchea (1980). Il profilo dell’azienda, inizialmente, era basso, spesso si occupava di montare trailer, puntando su prodotti mainstream home video o televisivi, destinati a un pubblico composto da famiglie e adolescenti; lavori realizzati in un piccolo appartamento sulla 57esima di New York, primo ufficio della Miramax, condiviso con il socio Robert Newman (ora agente di celebrità come Scorsese, Danny Boyle e del Toro) più una segretaria. Nel 1981 Harvey comprò The Secret Policeman’s Ball, la registrazione di uno spettacolo dell’Amnesty International con sketch teatrali di Monty Python e performance musicali di Eric Clapton, Sting e Phil Collins. La tenacia del futuro uomo di successo iniziava a rivelarsi: quando seppe che il produttore della pellicola, Martin L. Lewis, stava lavorando ad un sequel (The Secret Policeman’s Other Ball), iniziò a telefonargli ogni settimana per avere novità a riguardo, logorandolo al punto di convincerlo a vendergli il film, ma non solo. Harvey, indirizzato verso un montaggio che riducesse la durata dei film in modo da renderli più appetibili al pubblico (motivo alla base di furenti litigate che avverranno nel corso degli anni), persuase Lewis a montare i due film insieme creando un’unica versione da 100 minuti. “Sarò grasso ma non sono stupido”, e in effetti si rivelarono argute tutte le sue mosse, soprattutto quella di puntare su un film il cui spot televisivo sarebbe stato censurato. Si da il caso che nel 1979 la Moral Majority, lobby conservatrice statunitense di matrice evangelica, iniziò una campagna contro l’irriverente film Brian di Nazareth, interpretato da Monty Python; non appena l’organizzazione seppe dell’imminente uscita di TSPOB, iniziò un’altra campagna di censura televisiva. Un invito a nozze per i fratelli Weinstein, che dissero all’incredulo Lewis “Lascia che ci censurino, questo non farà altro che aumentare l’hype del prodotto”. Il risultato fu sorprendente: un incasso di 6 milioni di dollari fruttati da un investimento di appena 180000. Che l’Amnesty International vide ben poco di questa somma è un’altra storia.
AVVENTURE E DISAVVENTURE
La prima avventura nel campo del cinema artistico straniero avvenne con Erendira, pellicola brasiliana del 1983 diretta da Ruy Guerra, scritta da Gabriel García Márquez; durante la distribuzione di questo lavoro si plasmò una prima strategia di marketing tagliente, studiata nei minimi dettagli. Innanzitutto il poster originale del film, in cui figurava Claudia Ohana, esotica fanciulla protagonista della storia, venne modificato triplicando la profondità della scollatura, per seconda cosa Harvey convinse prontamente la rivista Playboy a dedicare una copertina all’attrice brasiliana. Quella dei Weinstein era una doppia strategia: puntare sul prodotto intellettuale straniero, coinvolgendo in un tour pubblicitario lo stesso Gabriel García Márquez, e al contempo creare un alone sexy attorno a una trama che puntava su ben altri fronti, sfruttando l’immagine della giovane Ohana per attirare un pubblico composto non solo da giovanissimi. “Un premio Nobel per la letteratura e un po’ di sesso, un film facilissimo da promuovere”, affermava in quel periodo Harvey; Erendira non ebbe un successo stratosferico al box office, ma fu certamente un gradino in più verso una concezione imprenditoriale di un prodotto low budget. Nel 1986 la filosofia della Miramax iniziava a essere sempre più nitida, concretizzandosi con la distribuzione di Working Girls – Le professioniste del peccato, film indipendente diretto da Lizzie Borden che seguiva la quotidianità di tre prostitute borghesi in un bordello di Manatthan. La pellicola, presentata al Sundance, riscosse successo al botteghino, lo stesso Bob disse a riguardo “La nostra forza è il marketing, riteniamo sia l’ingrediente fondamentale di tutti i nostri film. Con Working Girls siamo riusciti a parlare di prostituzione nei quartieri alti, rendendo l’argomento accessibile a tutti. Con un gran marketing arrivano ottime recensioni”. Nello stesso anno i Weinstein sperimentarono anche la regia, con una commedia musicale dal titolo Rock Hotel Majestic (Playing for Keeps), che scrissero e co-diressero a quattro mani.
Si tratta di una storia alla John Hughes in cui un gruppo di adolescenti trasforma un vecchio hotel in una sala per concerti rock, trama ispirata alla vita stessa dei due fratelli, precisamente al periodo in cui producevano concerti a Buffalo. Tra i protagonisti compariva anche la giovane Marisa Tomei, che pochi anni prima aveva partecipato alle riprese di The Toxic Avenger. Quell’esperienza fu un incubo per troupe e attori, lo racconta Jeff Silver, producer manager che abbandonò il progetto esasperato. Silver descrive i due fratelli come due uomini iracondi con cui era impossibile lavorare, due tiranni che urlavano in faccia a tutti ogni santo giorno, mandando in lacrime anche le attrici protagoniste. Prodotto dalla Miramax e distribuito da Universal Pictures, il film ottenne parecchia pubblicità da MTV, grazie alla colonna sonora che comprendeva artisti come Phil Collins, Peter Frampton, Arcadia e Pete Townshend, amico di Harvey, che per il suo film compose appositamente la canzone Life to Life. La passione dei Weinsten si rivelò inversamente proporzionale alla qualità del film, che risultò un flop a livello d’incassi e venne duramente stroncato dalla critica, esperienza che insegnò ad Harvey e Bob a lasciar perdere personali guizzi creativi per concentrarsi sul mercato dell’acquisizione. Ma il lupo perde il pelo, non il vizio. Selezionando le protagoniste del suo film Harvey incontrò Tomi-Ann Roberts, aspirante attrice appena vent’enne, arrivata a New York con il sogno di fare carriera nel mondo dello spettacolo. Attirata dai discorsi imprenditoriali dei due fratelli conosciuti ad una cena, fu ricevuta a casa di Harvey per leggere il copione: naturalmente quando arrivò sul posto vide quest’ultimo a mollo in una vasca da bagno, pronto a invitarla a spogliarsi e rilassarsi con lui, giusto, a detta sua, per parlare della parte a lei affidata. La ragazza fuggì sconvolta dall’esperienza, non ebbe la parte, anzi non fece mai carriera come attrice, in compenso oggi è una famosa psicologa. Intorno al 1986 nell’ufficio della Miramax mise piede una timida biondina, Eve Chilton, assistente personale di Harvey che tutti i giorni trovava delle rose rosse sulla sua scrivania. I due ebbero una relazione (soprannominati ironicamente “la bella e la bestia”) che sfociò in un matrimonio. Il temperamento vulcanico della bestia in questione viene descritto da molti colleghi del periodo, alcuni raccontano di essere stati travolti da un tavolo ribaltato per aver dato un parere discorde, altri di aver timore a metter piede nel suo ufficio, storditi da urla e imprecazioni, o sull’orlo della crisi di nervi perché minacciati di esser licenziati ogni giorno. Verso la fine del decennio arrivarono i primi successi della Miramax, che nel 1988 si aggiudicò il primo Oscar con Pelle alla conquista del mondo, diretto dallo svedese Bille August, comprato un anno prima a Cannes e premiato dall’Accademy come miglior film straniero. Rimasto colpito dal clamore creato attorno al censurato Angel Heart – Ascensore per l’inferno, Harvey venne attirato da Scandal, titolo perfetto per essere distribuito dalla Miramax. Tematiche piccanti e controverse, basate sullo scandalo che coinvolse il ministro della difesa britannico John Profumo, interpretato da John Hurt, Joanne Whalley e Bridget Fonda. Sperando in un divieto ai minori, Weinstein ripeteva costantemente al regista, Michael Caton-Jones, “Micheal, devi farle togliere i vestiti!”, alludendo a Joanne Whalley. L’attrice doveva girare una scena nuda, sul bordo di una piscina, ma il marito Val Kilmer si oppose a questa decisione; naturalmente Harvey, prevedendo quest’eventualità, aveva già trovato una controfigura. La sostituta, in realtà, servì a poco perché a detta della Whalley aveva un fondo schiena troppo grosso, motivo che convinse l’attrice a girar lei stessa gran parte della scena. Anche questa pellicola fu sforbiciata da Harvey Mani di Forbice, per “rendere il film più accessibile al pubblico”, tanto, a detta sua, “Nessuno sa chi cazzo sia Profumo”. Caton-Jones capì che aveva a che fare con un folle.
L’inizio dell’ Era Miramax coincide con l’uscita di Sesso, bugie e videotape (1989), una pellicola che funse da big bang della moderna era indie-blockbuster, introducendo Soderbergh in questa nuova galassia di registi e facendo emergere il Sundance Film Festival, in occasione del quale venne presentato. Una combinazione vincente che, per dirla alla Peter Biskind, “Fa del Festival e della casa di distribuzione lo yin e lo yang dell’universo cinematografico indie, il sole e la luna, Luke Skywalker e Darth Vader”. Con la fine degli anni ’80 non iniziava solo un’era. Secondo le dichiarazioni raccolte con l’esplosione dello scandalo Weinstein, risale proprio a questo periodo un’accusa durissima, addirittura di stupro, ai danni dell’attrice britannica Lysette Anthony. Conosciuta nel periodo in cui l’allora ragazza stava girando il fantasy Krull, i due intrecciarono un rapporto apparentemente d’amicizia, finché una sera Harvey bussò alla sua porta e una volta entrato in casa, senza darle il tempo di reagire, la placcò contro il muro. Un fatto che la vittima preferì dimenticare. Qualche tempo dopo Harvey la incontrò di nuovo, per regalarle un cappotto.