Il lato oscuro di Hollywood – Parte 1
La Hollywood malvagia nel cinema: dalla genesi nera ai grandi autori di pasaggio
Il processo di auto-beatificazione, con i suoi Oscar, la sua scritta sulle colline e la sua epica della realizzazione; la Fabbrica dei sogni non può prescindere dalla feticizzazione del lato oscuro di Hollywood. La locazione geo-culturale della capitale del cinema è di per sé un simbolo: ultimo avamposto prima dell’oceano e della fine, perduta e filo-giudaica Babilonia (come vorrebbe il sempiterno Kenneth Anger) nel limes del timorato paese dei pellegrini calvinisti. Hollywood, California, alfiere morale di giustizia liberal (come ama presentarsi oggi, vedasi l’omonima serie di Ryan Murphy), e coacervo di purghe fascio-maccartiste fin dai suoi ambigui padri fondatori, da Disney a DeMille. Terra dei sogni delle small town girls, e macelleria spietata delle stesse. Secondo Zizek, l’America dei consumi ha bisogno di fare proprio un certo elemento di autocritica, generando di contrasto gli anticorpi ad ogni dissenso autentico, esterno e realmente pericoloso. Nei media, nella pubblicità, e ovviamente nel Cinema: “l’arma più forte dello Stato” secondo qualcuno. Mostrandosi al contempo accusato e accusatore, in un processo continuo di lavaggio di mani e coscienza, la film industry esorcizza il pericolo di una messa in discussione strutturale ai propri valori, reiterando invariata la propria esistenza. Dal primo A Star is Born (1937), che attraversando ottant’anni ha resistito invariato fino all’altro ieri, una narrazione al negativo scorre a compensare le luci della ribalta; parallelamente, un costante lavoro di ripulitura di immagine cancella gli orrori della Storia politica dagli annali dei grandi studios. E così, tutto è costantemente distrutto e ricostruito, per sopravvivere invincibile ai decenni e ai secoli. Nata nel pettegolezzo scandalistico, dal secondo dopoguerra in poi la narrazione al nero di Hollywood diventa Mito. Il solito Anger ne scrive l’anti-Bibbia di (inventate) mostruosità, l’industria finge di commuoversi per i “rimasti indietro” della prima Golden Age e del muto, i registi noir fissano stilemi destinati a farsi archetipi. Ma ci si mette anche la letteratura, quella scandalistica di Confidential e quella hard-boiled del magazine Black Mask e di Chandler, dove il poliziesco polveroso e operaista di Dashiell Hammett venne traslato per la prima volta nel mondo borghese di attori, registi, letterati e intellettuali losangelini. Dall’inizio degli anni ’50 in poi è un proliferare di variazioni sul tema, un discorso articolato e ossessivo dello spettacolo americano su se stesso; e come ogni filone, impiega un attimo a ritrovarsi storicizzato in un sottogenere di segni codificati. Hollywood malvagia è un topos, una quinta di teatro o lo sfondo di un set davanti al quale può prendere vita qualunque tipo di rappresentazione. Fare un sunto di queste è impossibile, e una top andrebbe a sbattere sul problema dei criteri di selezione. Proviamo allora a mappare dieci percorsi lungo i quali l’incubo della città dei sogni ha preso corpo, segnando per ognuno un punto di partenza e uno di arrivo: dieci vie, venti caselle intercambiabili, per una tassonomia da frantumare e ricomporre a piacimento.
Genesi nera: doppia vita / Il diritto di uccidere
Il noir americano è di per sé un genere ossimorico; il più caratteristicamente yankee assieme al western, è in realtà figlio diretto dell’influenza di quegli autori europei espatriati in USA nel periodo delle guerre. Furono loro ad importare a forza nel mondo rigido dello studio system quelle influenze espressioniste (dalla Germania) e surrealiste (dalla Francia) che, se in Europa cominciavano a perdere quota in favore dei nascenti neorealismi, negli USA si ibridarono al racconto poliziesco dando vita ad un’estetica interamente originale. In questo volontario e sensazionalista rimestare nel torbido, il mondo-cinema affronta se stesso per la prima volta, in termini sopratutto professionali: Hollywood, con la sua grande scritta e la sua epopea di segni e simboli, ancora non compare, e i temi sono per lo più presi in prestito dal mondo del teatro. Il re del genere George Cukor avvia nel 1947 il discorso sulla destrutturazione della psiche attoriale in doppia vita, filone che sfiderà i decenni; poco dopo, Nicholas Ray spingerà lo psico-thriller verso la grigia categoria degli sceneggiatori con Il diritto di uccidere (1950). Al centro sono ancora le professioni, non ancora il contesto, che emergerà a partire dal decennio successivo.
I grandi traumi: Viale del tramonto / Che fine ha fatto Baby Jane
Tra il melodramma privato di E’ nata una stella e il noir dei vecchi teatranti dilaniati dal mistero del nascente mezzo cinematografico, l’industria in sé resta però assente dal discorso. Simbolicamente, la scritta “Hollywoodland” prende l’aspetto di oggi solo nel 1949, e la sua comparsa è il più classico battesimo rituale. Esiste la scritta, esiste il nome, e con questo esiste anche il mondo. La prima grande fissa degli studios è ovviamente revisionista, votata alla correzione delle storture passate piuttosto che alla contemporaneità; per gli addetti ai lavori, il trauma recente è ovviamente l’avvento del sonoro, che appena due decenni prima spazzò via un prima generazione di divi relegandoli all’oblio. Il tono di questi film è quello del cautionary tale beffardo, a ricordare al popolo americano le conseguenze del votarsi a valori effimeri come fama e giovinezza. Billy Wilder girò il film-manifesto di un’epoca e di un’epica con Viale del tramonto già nel 1950: negli anni che seguirono, il tema avrebbe assunto mille declinazioni, dal tragico al musical, approdando nel decennio successivo alle prime derive grottesche e auto-ironiche; Che fine ha fatto Baby Jane, in un certo senso, è il primo vero horror di questa tradizione, il primo a guardare con aperto disprezzo le sue ex icone.
Hard-Boiled e letteratura: Il lungo addio / Black Dhalia
L’atavica difficoltà di adattamento filmico dell’hard-boiled letterario mise da subito un freno alle sue riduzioni. L’inferno produttivo del Grande Sonno di Hawks dimostrò presto l’impossibilità di portare un testo di Chandler al cinema in forma integrale; gli altri grandi titoli del genere si misero in coda, arrivando a farsi film solo nei decenni successivi. La chiave fu la rielaborazione: il periodo raccontato era già lontano, la carica scandalistica di attricette assassinate e mogul psicolabili e drogati era già sfumata nella leggenda. Il lungo addio letterario del ’53 va al cinema vent’anni dopo, con Robert Altman, ricollocando la sua melodrammatica storia di delitti passionali negli anni degli omicidi politici e del nichilismo generazionale. Ed è puramente mitologico il lavoro di James Ellroy, che da quella cosmogonia traccia a partire dal 1987 una sorta di colossale Birth of a Nation letteraria, nel cui pantheon è il dittico Hollywood e Morte a recitare il ruolo di genitori dell’America moderna. Come Chandler prima di lui, anche la sua Dalia Nera diventa film con vent’anni di ritardo, in una poco apprezzata ma notevole riduzione di Brian De Palma (2006); stavolta siamo già nel duemila, e il gioco è quello di raccontare il passato secondo gli stilemi stilistici di allora. Perché di puro, lugubre gioco ora si tratta.
Le commedie nere: Il giorno della locusta / I protagonisti
Cosa c’è di più grottesco, in fondo, di un mondo di scappati di casa, personaggi ambigui e pronti a tutto, arrivati in maniera losca ad un successo che non sanno gestire? Hollywood è anche per definizione il mondo dei nuovi ricchi, dei moderni liberti incapaci di rapportarsi al proprio status. Inevitabile che la commedia ne faccia scempio (Hollywood Party è del 1968), altrettanto inevitabile questa prenda i toni della malinconia, del grottesco, della commedia umana di caratteri. L.A. come le alte società del romanzo classico ottocentesco, teatro per questo o quel dramma personale amplificato? Non c’è nobiltà in questi personaggi, che soprattutto agli occhi degli americani scontano l’eterno peccato del successo economico ottenuto tramite l’arte impura del Cinema; un patto con il Diavolo che fustiga se stesso all’infinito mentre ostenta i gioielli presi a prestito da Mefistofele. Il giorno della locusta (1976) è un classico oscuro di questa via, commedia-delirio in cui la città dei sogni si inquina di quegli incubi che due decenni dopo avrebbero preso il largo nelle visioni di Lynch; più lunare e pietista l’affresco di Robert Altman, nel di cui I protagonisti (1991) si intravedono due decenni di sit-com e telefilm sui dolori privati e professionali di milionari tristi.
I grandi Autori di passaggio: Barton Fink / Crimini invisibili
Arrivati ad un certo punto il gioco diventa un teatro di burattini, con il neo-noir degli ultimi decenni a radere al suolo ogni epica, come una sorta di versione spaghetti-western dell’approccio classico. Non c’è più testimonianza personale o ricordo; inizia invece quella che sarà una costante rilettura demistificatoria di queste memorie, ad opera di una nuova generazione di cinici filmmakers. Non sono più i racconti di chi vede o vive un determinato mondo, ma la ri-narrazione di questi ultimi. Il Cinema che si smarca dalla Storia e diventa Storia stessa: un percorso di disimpegno cinephile che affascina i nuovi, grandi registi indie-intellettuali che furoreggiano in America dalla metà degli anni ’80. Barton Fink (1990) è solo il primo di una serie di film che gli ineffabili Coen dedicheranno a questi topoi, e quello maggiormente “sporcato” dai toni oscuri dei loro primi lavori; ma vale la pena citare tra i grandi progetti personali dedicati a questo universo anche quello di Wim Wenders, a metà anni ’90 in piena fase stardom, che con il sottovalutato Crimini invisibili (1997) gioca come un bambinone tedesco di cinquant’anni a rimettere in scena i motivi classici di un cinema ormai preistorico.