Il lato oscuro di Hollywood – Parte 2
Dalla parodia alla Hollywood Body Horror
Dopo il primo capitolo, chiudiamo il viaggio nella fabbrica di incubi con la second parte del lato oscuro di Hollywood.
La deflagrazione parodica: Scream 3 / Tropic Thunder
“Rivendico il diritto alla cazzata”, urlava Ugo Tognazzi autoproclamatosi capo delle BR in combutta con i ceffi de Il Male; e griderebbe probabilmente la stessa cosa il compianto Wes Craven, quando arrivato al culmine del successo con la sua personale meta-saga, abbatte in maniera definitiva ogni grado di separazione dalle nascenti parodie del genere, abbracciando definitivamente il comico becero. Tra Scream e Scary Movie, arrivati ad un certo punto, la demarcazione non è più chiara; il terzo film della serie ha attori, nei ruoli di attori, con nomi di attori veri (modificati), parodie di altri attori intenti a girare il film di Scream. Siamo oltre il cortocircuito e direttamente nel calembour filmico, come sono calembour gli spoof movies che più o meno da qui riprenderanno quota. L’horror era solo il punto di partenza; partendo dalla traccia slasher, il macchinario di Craven e Williamson può muoversi parallelamente ad una velenosa chiamata in causa dell’industria stessa del sottogenere: dietro le continue frecciate al vecchio Roger Corman, Scream 3 anticipa con nonchalanche l’incubo Weinstein (produttore!) di due decenni. “Lo sappiamo tutti, tutti hanno sempre saputo, così va il mondo, ridiamoci su”, sembra esserne l’epilogo beffardo. Da lì a pochi anni la maschera dell’horror non servirà neanche più: nel 2008 Ben Stiller farà la stessa identica cosa con Tropic Thunder, riconducendo definitivamente la parodia nella realtà.
David Lynch: Mulholland Drive / Inland Empire
Una voce non poteva che meritarla lui, il guru di tutto quanto di oscuro e sommerso sia mai passato invisibile davanti all’occhio cieco dell’obiettivo cinematografico. Il lavoro di David Lynch è da sempre filmare il non filmabile, costruire con pezzi di quotidiano una rappresentazione tangibile e credibile di movimenti inconsci liminali; “onirico” non è un aggettivo nel suo caso, ma un vero e proprio modus operandi. Un processo di fabbricazione dell’irreale che è in fondo quello del Cinema tutto: Lynch se ne rende conto, e da un certo punto in poi questi entrerà a più riprese nella sua opera. Ma nel dittico 2000-2006, per il pacato santone del Midwest il sistema californiano è foriero di qualcosa di più, e di peggio, rispetto ai fumosi discorsi su sogno e rappresentazione; da Mulholland Drive a Inland Empire, il mondo della recitazione e di Hollywood (che Lynch ama, come ne ama i miti classici che continuamente distrugge, reiterando il paradosso) non può che essere per lui un teatro degli orrori; qui è dove la possibilità zen e bucolica della sua adorata suburbia torte e caffè viene spazzata via dal ciclone del vizio, e della frantumazione delle identità.
Compravendita di anime: Starry Eyes / Vox Lux
Il patto faustiano come metafora del successo personale a condizioni immorali: fin troppo facile. Ma la maniera in cui questo ritorna, anche tra queste righe, fa pensare ormai a qualcosa di più che una figura retorica: si tratta di un vero e proprio archetipo psicanalitico, capace di trovare in Hollywood la sua più naturale manifestazione storica. In maniere ovviamente diverse, la dannazione dell’anima si è riaffacciata in diversi film recenti ambientati nelle spire dell’industria dello spettacolo; in un debutto notevole, Kevin Kolsh e Dennis Widmyer presero di petto tale parallelo, portando la demonologia nel sottobosco losangelino degli aspiranti attori, categoria umana maltrattata come mai ce ne fu una. Il percorso della protagonista di Starry Eyes (2014) verso il successo si interseca implacabilmente con quello della dannazione, metaforica e letterale. Resta invece sul piano del paradosso la sorta di Celeste Montgomery-Natalie Portman, la popstar protagonista dell’ermetico e incredibile Vox Lux (2018) di Brady Corbet. Il successo della sua star (musicale, ma siamo lì) è per Corbet legato in maniera invisibile alla nascita del nuovo millennio, battezzato nel sangue e scandito da stragi e traumi incisi nella psiche di una cristologica starlette, un po’ dottor Faust un po’ Messia in glitter. Lo showbiz ci ha condannati, ma lo showbiz ci assolverà, e ancora amen.
Cronenbergs: Antiviral / Maps to the Stars
Che dire di Cronenberg? Il cognome è talmente un marchio, talmente un aggettivo, che non c’è quasi più bisogno che il nome che lo preceda sia David. Il giovane Brandon, figlio del genio canadese, ha da otto anni avviato la propria carriera in scia a quella del padre. Abbastanza a sorpresa, lo ha fatto senza recidere il cordone, anzi ripercorrendolo a ritroso, tornando a fondersi nella poetica del genitore in un intreccio filmico-biologico che emozionerebbe il padre in primis. Antiviral (2012) è Cronenberg puro, il Cronenberg degli esordi, in cui la facciata da film giallo e poliziesco sfuma in un racconto sconvolgente di desideri devianti e corruzione della carne. La novità, per così dire, è l’irruzione del Cinema in quanto tale, come contesto e universo, a sostituire i labirinti medici e tecnologici che caratterizzavano i primi film paterni. L’interesse del clan Cronenberg è ora collettivo e sociale più che intrapsichico; deve pensarla così anche il patriarca, vista l’uscita, quasi in contemporanea, di Maps to the Stars (2014): ad oggi il suo ultimo film, una commedia nera-nera su star mentalmente disturbate e attricette sul punto di rottura psichico. Di padre in figlio.
Vecchi nuovi postmodernismi: The Neon Demon / Under the Silver Lake
Chiudiamo la carrellata con la fine di tutto, il vituperato, analizzato, scomposto e ridimensionato in ogni direzione postmodernismo. Che di moderno non ha ormai più nulla, ma che continua ad affascinare autori contemporanei come Nicolas Winding Refn e David Robert Mitchell; trent’anni dopo, ancora impegnati ad espandere ed estremizzare i diktat tarantiniani della frantumazione dei generi e dei riferimenti. Nei rispettivi giochi di cut-up ispirati alla pop culture di ieri e oggi, Refn e Mitchell guardano sempre, esclusivamente al passato; alfieri a modo loro di un cinema consapevole di esistere sopratutto come ultimo capitolo di un libro infinito, con infiniti capitoli già scritti da altri prima di loro. La loro visione di Hollywood, del noir e dell’horror, è una visione spettatoriale: così, il personale Suspiria del danese (il vero, pedissequo remake del capolavoro argentiano, come non era l’originalissimo film di Guadagnino) non poteva che mollare la danza per il cinema e l’Europa per Los Angeles, rimettendo in scena una vecchia nuova narrazione fotografica di perdita dell’innocenza e culto della bellezza. Mitchell, che allo stesso Refn doveva tantissimo già dal fortunato It Follows (2014), porta la sua destrutturazione nell’hard-boiled, imponendogli una ambiziosa direzione-Pynchon forse troppo ostica persino per l’autore stesso. Ogni narrazione sul presente ormai non può che poggiarsi su una foresta di segni già scritti da altri, ci dicono questi film; e ad averli scritti è Hollywood stessa, che ha già assistito alla propria condanna migliaia di volte, e altrettante volte l’ha filmata, ridendone.