Io sono uno zombi
Lucio Fulci a proposito di se stesso
I produttori Fabrizio De Angelis e Gianfranco Couyoumdjian volevano fare un piccolo film horror per la regia di Joe D’Amato e chiesero un aiuto a Ugo Tucci della Variety Film, che era una persona intelligente e capì subito che da quel piccolo progetto poteva nascere una cosa interessante. Tucci un giorno mi telefonò per convincere Mario Merola a prendere parte a un film di Umberto Lenzi. Sapeva che Merola aveva molta stima di me, perché avevo fatto una sceneggiata di grande successo per la televisione napoletana, che si intitolava Lacrime napulitane e in effetti, quando chiesi a Merola di partecipare al film di Lenzi, accettò subito. Così, per ringraziarmi, Tucci mi offrì di fare Zombi 2, dandomi quattro soldi e una percentuale sugli incassi. Quando Dario Argento scrisse che Zombi apparteneva a lui, io gli risposi con una lettera in cui gli dimostravo, citando almeno dodici film, che gli zombi nacquero prima ancora di Tourneur, prima di Ho camminato con uno zombi. Lo zombi appartiene ad Haiti e a Cuba, mentre Argento non possiede nulla dello zombismo. Dopo feci Paura nella città dei morti viventi, un film che i critici hanno definito “lovecraftiano”. Io non ho affinità con Lovecraft. Lovecraft ha il suo proprio universo fantastico, un mondo molto nordico. Il mio universo fantastico, invece, è all’opposto, un mondo caraibico. Gli zombi sono il prodotto di un incrocio tra il voodoo e il cattolicesimo.
Per L’aldilà, ci scatenammo con la stessa troupe che aveva fatto Zombi 2 e che lavorò con me per i cinque miei film, diciamo, storicizzati. Una troupe straordinaria! Andammo avanti in perfetta armonia con un ottimo produttore, Fabrizio De Angelis della Fulvia Film, il quale si preoccupava solo di vendere bene il film, del resto non gliene importava niente. Non rompeva mai le scatole e ci concedeva di fare quello che volevamo, perciò io tentai di fare questo film artaudiano, ricollegandomi a un mio vecchio western che si chiama Tempo di massacro. Non c’è trama, ma visioni, sensazioni, incubi. Il Mare delle Tenebre è il nostro inferno interiore. Un mondo immobile in cui ogni orizzonte è identico, un mondo assoluto, artaudiano. È curioso: io, pur essendo cattolico, non riesco a immaginarmi l’esistenza del paradiso. Forse Dio mi ha abbandonato? In compenso, ho rappresentato spesso l’inferno, forse perché viviamo in una società tale che soltanto l’inferno è percepibile. L’inferno è la frustrazione, come in quella celebre pièce di Sartre, Huit-Clos: una camera in un albergo, con tre persone. All’epoca mi aveva scioccato, ma adesso ho finalmente capito che è il paradiso a essere indescrivibile. L’immaginazione è molto più forte, sotto la pressione dei terrori dell’inferno.
Non nascondo che esistono dei rapporti tra me e Dario Argento. Anche lui ha studiato Artaud e i nostri due film, Inferno e L’aldilà, sono accomunati dalla mancanza di una struttura, che è una cosa intenzionale. Sono film che rifiutano le convenzioni, le logiche tradizionali del cinema. Si dice sempre che è difficile interpretare un film senza trama come L’aldilà, ma è facilissimo interpretare i film che hanno una trama. Qualunque imbecille può capire una commedia. Anche Fuga da New York di Carpenter è facile da capire. Mentre L’aldilà – e riconosco che Inferno di Argento rappresenta un altro tentativo analogo – è un film assoluto. Di Quella villa accanto al cimitero amo soprattutto Freudstein, la sua voce, che è una voce di bambino. Come il vagito di un neonato. Il personaggio di Freudstein fu influenzato da Gli orrori del liceo femminile, di Narciso Ibanez Serrador, che racconta di un ragazzo che uccide le donne per creare la propria femmina ideale, a partire dai pezzi delle sue vittime. I lamenti di Freudstein sono scambiati dagli adulti per quelli del loro bambino. È in questo modo che la creatura riesce a ingannarli e ad attirarli. Ma pochi lo hanno capito. Nel film ci sono due temi chiave: quello dei bambini e quello del mostro che, come gli extraterrestri di L’invasione degli ultracorpi, resta in vita mutilando gli esseri umani, nutrendosi dei loro corpi.
Lo squartatore di New York non è, come ha scritto qualcuno, un film realista. Racconta la storia di un uomo che uccide perché sua figlia è condannata a essere una perdente, in un Paese votato al culto del successo. C’è quindi una motivazione spirituale nei suoi atti. Ogni eccesso, nello Squartatore, è un eccesso di immaginazione, di stravaganza. Ciascun personaggio è estremo nel film: il poliziotto che va con le prostitute, il perito forense interpretato da Paolo Malco, un omosessuale dedito all’onanismo. Un critico americano aveva scritto che è un film “senza speranza”. Per questo credo che sia un film “spirituale” assai più che un film “realista”. Manhattan baby era l’ultimo film che io dovevo fare con la Fulvia. De Angelis mi aveva fatto quattro contratti non dicendomi che in America andavo forte. Presi due lire, mentre il produttore è diventato miliardario. Feci il film su una sua idea, in cinque settimane, il che non significa però che lo presi sottogamba. La scena degli uccelli è quella che preferisco di un film altresì modesto. La inventai non pensando ad Hitchcock, anche perché i miei erano uccelli imbalsamati. Mi divertiva l’idea che il personaggio venisse ucciso dagli animali che aveva costretto a stargli intorno. Comunque vi ringrazio e dico semplicemente che, per mia sottovalutazione, sottovalutazione che mi onora, perché è stato sottovalutato per anni Bava, almeno mi hanno scoperto in “articulo mortis”. Io sono uno zombi.