Il Signore degli Anelli – La Guerra dei Rohirrim
Riflessione sul film d'animazione di Kenji Kamiyama
La Guerra dei Rohirrim rappresenta un interessante esperimento nell’ambito della saga de Il signore degli anelli. Visivamente affascinante e narrativamente coerente, complessivamente anche più convincente della serie Gli anelli del potere, il film animato – in stile anime, scelta discutibile ma non priva di charme – si inserisce nel franchise grazie a riferimenti espliciti e collegamenti tematici, ma fatica, forse, a essere percepito come parte integrante del mondo che Peter Jackson ha portato sul grande schermo dalle pagine di Tolkien.
Questo, forse, accade perché si basa su accenni e appunti, piuttosto che su una narrazione strutturata. Il risultato è una storia che, pur essendo efficace, potrebbe adattarsi a qualsiasi saga fantasy, senza necessariamente richiamare l’opera originale. O forse anche perché si tratta di una vicenda squisitamente umana, che lascia fuori le razze peculiari come elfi, nani e hobbit e anche gran parte degli elementi fantastici, a esclusione, forse del bestiario.
La recensione potrebbe anche finire qui, se non fosse che la questione dell’equilibrio tra il mondo narrativo e i personaggi iconici è una sfida comune a molti grandi franchise. Quanto è importante il mondo rispetto ai personaggi che lo popolano? Può un universo narrativo prosperare senza gli eroi che lo hanno reso celebre?
Ha senso, in definitiva, un prodotto marchiato Signore degli Anelli senza la presenza di Sauron, Gandalf, Frodo e l’entourage che contraddistingue le iterazioni più note? O meglio, più che avere senso, come lo riconosciamo?
C’è qualche volto noto, è vero. Ma si tratta di comparsate, per lo più verso la fine della pellicola.
Prendiamo Star Wars, per esempio. Le iterazioni recenti, come Rogue One e The Mandalorian, hanno mostrato che è possibile raccontare storie al di fuori della saga degli Skywalker, ma non senza difficoltà. Mentre Rogue One è stato accolto positivamente, ha comunque scelto di legarsi agli elementi più riconoscibili della saga, con apparizioni di Leia e Darth Vader. Andor, invece, ha puntato su un approccio più distante, ottenendo un prodotto di qualità ma che talvolta fatica a essere associato all’universo creato da George Lucas.
Lo stesso dilemma si presenta con Terminator. Arnold Schwarzenegger è stato una presenza costante in quasi tutti i sequel, spesso più per necessità commerciale che per una reale esigenza narrativa. Questo ha impedito al franchise di rinnovarsi e di esplorare altre sfaccettature del suo mondo distopico, tranne forse, nell’ultimissima e abbastanza riuscita serie Terminator: Zero, anche questa animata e anche questa in stile orientale (sarà un trend?). Il pubblico e i produttori faticano a concepire un Terminator senza volti familiari, come quello rassicurante del T-800 di Schwarzy o di almeno uno dei Connor.
E che dire degli spin-off? Serie come Gotham o film come Joker dimostrano che è possibile esplorare nuovi punti di vista all’interno di un universo consolidato, ma i risultati sono spesso altalenanti. La presenza tangibile o implicita dell’eroe principale è quasi sempre necessaria per mantenere un senso di coerenza. Batman è un’ombra costante in Gotham, anche se non compare direttamente. E Joker… beh, ha funzionato a metà, crollando miseramente – almeno in termini di gradimento generale – alla prova del primo sequel.
La questione diventa ancora più complessa con i mondi costruiti su scale epiche, come Dune o, appunto, Il signore degli anelli. In questi casi, il mondo è un protagonista a tutti gli effetti, eppure il rischio è di perdere il pubblico se mancano punti di riferimento familiari. La Guerra dei Rohirrim, con un risultato gradevole, ma non del tutto convincente dal punto di vista della crescita del franchise.
Alla base di queste difficoltà c’è un problema teorico che deriva dalla proliferazione di universi condivisi e prodotti crossmediali.
Quando si poteva produrre un film ogni cinque, dieci anni, probabilmente il problema non se lo sarebbe posto nessuno. Se c’era un sequel, era scontato che usasse gli stessi protagonisti del precedente. La tendenza a espandersi nel “mondo narrativo” era decisamente limitata dalle possibilità economiche e tecnologiche.
La capacità di un franchise di espandersi senza snaturarsi richiede un equilibrio delicato tra innovazione e tradizione. Raccontare nuove storie è necessario, ma è altrettanto importante mantenere i tratti distintivi che rendono unico un universo narrativo.