L’ALDIQUÀ – L’orrore della celebrità

Verifiche sull’horror di oggi. Una rubrica di Emanuele Di Nicola
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Tre titoli recenti, che oscillano tra il thriller e l’horror, vedono come fulcro una celebrità, una star, una diva o un divo. Partiamo dal più recente, Opus di Mark Anthony Green in sala dal 27 marzo: John Malkovich è un cantante di fama planetaria, un idolo della folla che da trent’anni si è ritirato dalla scena, ma sta tornando con un nuovo album epocale. Invita una serie di esperti, critici, influencer nella sua tenuta per farlo ascoltare in anteprima… Non si può dire oltre per non incappare nello spoiler, preme però sottolineare come Malkovich sia un possibile incrocio tra alcune vecchie star del nostro tempo: indossa una tuta e fa un balletto che ricorda perfino Michael Jackson. Ma soprattutto – ecco il punto – è uno che si crede superiore agli altri, rifiuta l’idea dell’uguaglianza e coltiva un lucido delirio di onnipotenza, si pone come “nobile”, sul piedistallo rispetto al resto dell’umanità; da qui germoglia il thriller-horror con le sue nefaste conseguenze.

Andando all’indietro, abbiamo visto da poco Smile 2 di Parker Finn, che col secondo tassello del suo progetto ha convinto un po’ tutti, anche quelli che arricciavano il labbro guardando il primo. Qui la celebrità viene introdotta in modo frontale: la protagonista è una star, Skye Riley nel corpo di Naomi Scott, che si è appena ripresa dalla morte del fidanzato e sta organizzando il tour del ritorno. Incappa nella maledizione alla base della serie, ovvio, e viene assediata dai “sorridenti”. Lo smiling, il gesto di sorridere, si può leggere almeno a due livelli: da una parte la dittatura del sorriso che governa ogni atto di una celebrità, in quanto personaggio mediatico, iper-esposto e condiviso sui social, che dunque non può mostrare alcun cedimento e deve piegarsi alla retorica della felicità, continuare a sorridere; dall’altra parte anche i fan sono sorridenti, nel senso che loro stessi, in una replica e miniatura della stella che amano, fanno selfie, video, reel stravolti dai filtri in un sorriso eterno ed eternamente inquietante.

Continuando a passo di gambero, ci ritroviamo a Trap di M. Night Shyamalan. Che non è un horror, tecnicamente, ma come sempre usa i codici di genere manovrati dal più grande riscrittore di Hitchcock nel contemporaneo. Stavolta la star è tale Lady Raven, che è addirittura la figlia del regista Saleka Night Shyamalan, una sorta di Taylor Swift più giovane al cui concerto-show si reca il protagonista con la figlia. La diva ha la funzione di MacGuffin, cioè è un pretesto, o meglio lo è il suo il spettacolo: teatro e scenografia per una funambolica caccia al serial killer, con una sorpresa a metà, ovvero la svolta nel ruolo di Lady Raven che esce dalla passività del palco e diventa attiva, partecipa alla storia.

Opus, Smile 2 e Trap formano un tris di stelle oscure. È un caso che proprio adesso il cinema di genere stia rimasticando la figura della star? Io non credo. Seppure con ruoli narrativi profondamente differenti (il villain di Malkovich, la final girl di Naomi Scott, il twist vivente della Shyamalan), lo sguardo sulla celebrità smette di essere adorante e diventa ambiguo, ombroso, sottilmente terrorizzato.

LE PUNTATE PRECEDENTI
#1 L’ELEVATED HORROR DOPO NOSFERATU
#2 WOLF MAN, LA BELVA È DENTRO
#3 “QUESTO NON È UN HORROR”
#4 HORROR E AI, C’È UN PROBLEMA
#5 THE SUBSTANCE E L’OSCAR AL MAKE-UP DA NON SOTTOVALUTARE