L’ALDIQUÀ – The Substance e l’Oscar al make-up da non sottovalutare

Verifiche sull’horror di oggi. Una rubrica di Emanuele Di Nicola
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L’Oscar è un pianeta oscuro e misterioso. Per muoversi su di esso, senza farsi fagocitare, serve un lungo libretto di istruzioni: non a caso negli Stati Uniti proliferano gli oscarologi, quelli che conoscono la storia dell’Academy a memoria, fanno complessi calcoli e statistiche, formano le quote per le scommesse, in definitiva sono gli unici in grado di dare previsioni sensate. Un misto di analisi e calcolo delle probabilità, un cocktail di spirito del tempo, premi precedenti (BAFTA, Golden Globes…) e tradizione, per esempio la consuetudine quasi fissa che chi vince il miglior montaggio vince anche il miglior film. Tranne eccezioni, certo. Insomma un ginepraio difficile da districare: in Italia un ottimo oscarologo è Carlo Valeri che commenta le statuette su Sentieri Selvaggi.

La notte degli Oscar dello scorso 3 marzo ormai la conosciamo tutti: dopo il tramonto Emilia Pérez, per le note polemiche, il duello a due era principalmente tra Anora e Conclave, con The Brutalist come possibile fattore di disturbo, e si è risolto nel trionfo totale del film di Sean Baker (la maggiore sorpresa è Mikey Madison come miglior attrice – meritato). Ma, entrando in casa nostra, ossia nelle cose nocturne, il grande underdog dell’Oscar era The Substance di Coralie Fargeat: una presenza clamorosa – come spiegano gli oscarologi – visto che il capodopera della Fargeat non doveva nemmeno stare lì. Sarebbe una presunta vittoria, dunque, la sola comparsata in smoking nella sera dorata; non c’erano reali possibilità che portasse a casa il miglior film, anche l’amata Demi Moore spinta dal suo fandom era piuttosto stretta tra Mikey e Fernanda Torres, malgrado una flebile speranza fino all’ultimo. The Substance però un Oscar l’ha vinto: il miglior trucco, che tecnicamente si chiama “Best Make-Up and Hairstiling” (c’è dentro anche l’acconciatura). Ed è un premio non banale.

L’Academy da sempre ha un brutto rapporto col cinema horror, per ragioni che vanno da sé: il “grande film americano”, ciò che si vuole impalmare, non può cedere troppo ai codici di genere – non sia mai! – ma deve rifarsi soprattutto al filmone solido, quadrato, per tutti, che rima col suo tempo, in pieno stile della Hollywood neo-classica (anche qui ci sono le eccezioni alla Parasite, ma è un’altra storia). Basti sfogliare la storia per verificare una sottovalutazione endemica e a tratti imbarazzante: a parte le esclusioni clamorose alla Shining, per dire, Rosemary’s Baby di Polanski nel 1968 si porta a casa solo l’attrice non protagonista (Minnie Castevet), L’esorcista di Friedkin nel 1970 viene congedato con due contentini, sceneggiatura non originale e sonoro, Alien di Ridley Scott nel 1979 si intasca i miglior effetti speciali… E così via.

Per questo la vittoria di The Substance assume un sapore particolare e da non sottovalutare. Prima di tutto perché supera altri make-up obiettivamente autorevoli, soprattutto Nosferatu di Robert Eggers e A Different Man di Aaron Schimberg, anch’esso un lavoro straordinario; ma anche perché è un Oscar “giusto” per il tipo di impegno che il film profonde. La squadra di Pierre Olivier Persin, al comando di Fargeat, ha inventato principalmente effetti analogici e ha puntato sul trucco prostetico, come evidente dalle lunghe sessioni della Moore già condivise sui social. Per allestire la lotta simbolica tra due versioni della stessa donna, quindi, c’è stato un rifiuto quasi radicale della computer grafica, nel senso che la CGI interviene in alcuni momenti del racconto – inevitabile – che però resta centrato sul trucco costruito dall’uomo.

Modelli in argilla e silicone, forme di plastilina, teste fatte di gelatina, tutine in latex e marionette riempite di schiuma. Tutto concorre ad accompagnare la metamorfosi di Demi Moore e Margaret Qualley, lo scivolamento graduale nel deforme e nel mostruoso, insomma un’ipotesi di nuovo body horror che culmina nel finale degno di Brian Yuzna. Un Oscar “giusto”, dicevo, perché in The Substance il make-up è un personaggio, una pratica con un ruolo preciso e decisivo nello sviluppo della storia. Sapete chi l’ha fatta in Italia una cosa simile? Carlo Diamantini con gli effetti prostetici di The Well. Che non correva per nessun Oscar. Intanto, però, valutiamo giustamente la vittoria di The Substance e il peso imprescindibile del make-up nella riuscita di un grande horror di oggi.

LE PUNTATE PRECEDENTI
#1 L’ELEVATED HORROR DOPO NOSFERATU
#2 WOLF MAN, LA BELVA È DENTRO
#3 “QUESTO NON È UN HORROR”
#4 HORROR E AI, C’È UN PROBLEMA