Matrix – Vent’anni dopo
Le profezie pop di un cult che ha lasciato il segno
C’è una puntata di Ai Confini della Realtà che lascia una sensazione di inquietudine viscerale, si tratta di Immagine allo specchio (il titolo originale era Mirror Image). Tutto l’episodio si sviluppa sul tema del doppelgänger e sul senso di alienazione e ansia che segue nel constatare che il doppio della protagonista, Millicent, si sta sostituendo a lei. Paranoia, paura, disgregazione della propria identità per colpa di un io ombra che decide per lei e per la sua vita. Non è d’altra parte un’oscura previsione del presente in cui viviamo? Una abdicazione forzata all’identità in nome di una collettiva mediata e avvallata dai social? L’anno in cui esce Immagine allo specchio è il 1960, proprio a pochi mesi di distanza in cui Philip K. Dick pubblica Tempo fuori di sesto che avrà una influenza, come altri suoi romanzi, sulla cultura popolare degli anni ’90. Uno specchio oscuro che nasconde una gamma infinita di possibilità, siano esse positive e negative. Siamo ancora distanti dagli anni in cui Dick parla della nostra realtà come una simulazione creata da una macchina, eppure c’è già parte di quel retaggio patrizio che i fan di Matrix rivendicano quando si parla della trilogia. Dalla corrente letteraria Cyberpunk (Neuromante di William Gibson è un testo di riferimento, basti pensare all’incipit coi suoi “cieli dal colore del televisore sintonizzato su un canale morto”) passando per le intuizioni sociologiche di Jean Baudrillard, fumetti, anime (Ghost in the Shell, Akira), i film di kung fu, telecinesi, multiculturalismo, moda fetish, ambientalismo, taoismo, gnosticismo, libero arbitrio per arrivare, tra le tantissime cose, al mito di Cristo e della Redenzione. Tutto questo è confluito in una incubatrice in cui si persero per anni Larry e Andy Wachowski (oggi rispettivamente Lana e Lilly). Supportati dall’impossibilità di fare altro nell’epoca postmoderna se non citare, Matrix è la risultante di una spinta verso le narrazioni transmediali. Non è un caso che l’Ententeriment Weekly definì il 1999 l’anno che cambiò il cinema (soprattutto riferendosi a The Blair Witch Project). Molto del fascino di Matrix, quanto buona parte del suo carattere superficialmente impenetrabile, è costruito dalle continue allusioni che si affacciano nelle scene: la copia nello scafale di Neo di Simulacri e Simulazioni di Baudrillard, o il numero del suo appartamento che è lo stesso della stanza delle torture in 1984 di George Orwell. Un gioco di scatole cinesi dove lo sforzo del singolo è perennemente frustrato, ma quella stessa frustrazione ha dato la spinta a ciò che oggi chiamiamo “intelligenza collettiva”. Il film, per citare Henry Jenkins, ha funzionato sia da attivatore perché “stimola l’interpretazione del prodotto” che da attrattore culturale perché “unisce diversi gruppi”.
Ha incentivato le comunità grassrots (movimento di persone che si dedicano a un particolare tema) non solo a condividere le informazioni in possesso, ma le ha spinte a riempire i vuoti tra i media perché Matrix ha un trama troppo complessa per esaurirsi unicamente sul grande schermo: trilogia cinematografica, antologia d’animazione (The Animatrix), videogiochi (uno su tutti Enter the Matrix) fino ad arrivare ai fumetti. Una specie di “blockchain” mutabile dove il gruppo è passato dalla condivisione di personali elaborazioni e scoperte, a svilupparsi in modo ipertrofico attorno all’ideologia nascente della Pillola rossa (Red Pill) staccandosi così dalla sua matrice. Le fan community che seguivano il calvario dell’hacker Thomas Anderson furono un ottimo esempio di come al suo meglio internet potesse colmare le differenze in nome di una comune passione e/o fantasia. D’altra parte, però, ha incoraggiato la polarizzazione di opinioni premiando spesso e volentieri quelle bovine; quando si condividono in partenza le stesse idee l’utopia tecnologica tanto agognata da Pierre Lévy potrebbe mostrarci soltanto i denti. Ma cos’è Matrix? E cosa è rimasto dell’ultimo fenomeno mediatico del XX secolo? Matrix è un cult, nell’accezione più pura quando parliamo di cinema: un film cult deve avere una struttura enciclopedica, deve essere ricco di informazioni e citazioni in modo da far sì che chi guarda crei un legame emozionale con l’opera e al contempo si senta un “eletto” nel condividere un linguaggio comune con gli altri fan. Matrix è un franchise riuscito grazie alla sinergia tra le parti in causa capaci di creare una narrazione transmediale: i registi sono riusciti a espandere il loro mercato includendo il pubblico dei collaboratori con cui hanno deciso di lavorare. In questi giorni si è parlato molto del progetto di animazione Love, Death & Robots prodotto da David Fincher e disitribuito da Netlflix, ma pensate agli autori incredibili coinvolti per The Animatrix, all’epoca accolto piuttosto tiepidamente dalla critica benché sia un gioiello da riscoprire; se il nome di Shinichirō Watanabe non vi dice nulla (Cowboy Bebop) allora, ci dispiace per voi, vi siete persi gli appuntamenti con MTV Anime Night alla fine degli anni ’90. La supervisione e allo stesso tempo la completa libertà data agli autori coinvolti nell’universo di Matrix, ha permesso ai fan di seguire la storia attraverso diversi media accentuando la fidelizzazione e donandole una sfumatura sentimentale. Matrix è un’opera figlia del suo tempo con tutti i pregi e i difetti del caso: dalla soundtrack dai sapori nu metal, industrial ed elettronica che svolge la sua funziona diegetica e ammicca a un certo tipo di cultura underground (ma non gli fa giustizia), alle atmosfere new age e un sincero omaggio alla tradizione cinematografica di Hong Kong, che negli anni 2000 abbiamo subito in diverse misure e declinazioni al cinema.
Matrix è anche l’antesignano del modo in cui fruiamo dei film oggi e non parliamo solo della grandezza dello schermo o della sacralità della sala cinematografica: scoprire gli universi dentro il film richiede un lavoro di scomposizione, una ricerca archeologica non lineare, un vero e proprio“bullet time” della visione, la frammentazione dell’immagine in immagini. Non è la stessa tendenza che abbiamo visto tra i cinefili su Tumblr negli ultimi dieci anni? Rimettere in discussione il sistema di segni attraverso l’estrapolazione dei frame? Non andando troppo lontano è quello che ha fatto su Reddit il pubblico di Twin Peaks, il Ritorno: ha scomposto ogni singolo episodio, auto-alimentando la propria fantasia desiderosa di dettagli, veri o presunti. Chi a suo tempo non ha analizzato ogni singola immagine di Matrix supportato dal formato DVD? Matrix non sarà stato il primo, ma sicuramente è l’opera che ha preteso ad alta voce l’immaginazione al servizio di un intrattenimento completamente immersivo. Questo tipo di immersività ha reso alcuni di noi, o almeno alcuni di noi credono sia così, capaci di distinguere il tipo di informazioni vere, o almeno utili, per rafforzare il proprio punto di vista, diversamente da quelle false che ci propina un fantomatico “sistema” contro cui ci scagliamo ogni giorno a suon di tweet, hashtag e meme. La rivista Time proprio nell’anno di nascita di Facebook, il 2004, divise l’elettorato tra “Verità Blu”, ossia chi sosteneva Bush junior, e “Verità Rossa”, ossia tutti gli americani che volevano cacciarlo a pedate dalla Casa Bianca. Col tempo il cosiddetto risveglio tanto agognato da Zion non è diventato sinonimo di un’evoluzione consapevole e illuminata, bensì ha rivelato la sua natura ambigua; la pillola rossa, così come lo specchio che Alice attraversò, sono stati deformati dallo schermo dei nostri apparecchi elettronici, tanto che oggi la famosa pillola di Morpheus è sinonimo del Men’s Rights Movement coi suoi centinaia di migliaia di seguaci (nel 2016 è un uscito un documentario diretto da Cassie Jaye che vi consigliamo di recuperare). The Matrix oggi è la tanto agognata profezia che si autoavvera, le cui manifestazioni quotidiane, in apparenza semplici, trovano apocalittici e integrati pronti a rispondere tra entusiasmo e sospetto. Un esempio? Le tecniche di machine learning si stanno evolvendo e non abbiamo ancora modo di capire come i programmi “addestrati” al machine e al deep learning giungano a determinate conclusioni. Una manifestazione pop dei passi avanti dell’AI è di certo Google Duplex: la rete neurale addestrata per creare conversazioni telefoniche realistiche in arrivo sugli smartphone della linea Pixel (in seguito su Android e iOS), instillando molti dubbi etici. Soprattutto da quando il deepfake sta diventando una realtà user-friendly. È famoso il video dove Jordan Peele, in collaborazione con Buzzfeed, ha fatto il “ventriloquo” su un video di Barack Obama avvertendoci della pericolosità dei deepfakes; per contrastare tale tendenza il centro di ricerca Darpa con il programma Media Forensics si è messo in moto con lo scopo di identificare foto e video manipolati. Pochi giorni fa è uscita la notizia del tentato suicidio di Paris Jackson dopo le accuse rivolte al padre nel documentario Leaving Neverland. Suicidio smentito dalla stessa Paris attraverso i social, ma ciò non ha fermato i media che hanno continuato a diffondere una fake news per le successive 48 ore.
Se l’incapacità di andare a controllare le fonti, non solo da parte del pubblico ma anche dai professionisti, ha delle ripercussioni sociali possiamo solo immaginare cosa potrebbe scatenare un video sapientemente modificato. Se, come ci assicura Aayush Bansal della Carnegie Mellon University, il sistema Gan (reti antagoniste generative) è sviluppato da loro principalmente per l’industria cinematografica “consentendo di produrre film più velocemente e a buon mercato”, l’algoritmo potrebbe avere sì un futuro nel campo della robotica (o nel migliorare le prestazioni dei veicoli per imparare a guidare in sicurezza in ogni condizione climatica) ma non è poi così assurdo credere che possa anche influenzare le prossime elezioni presidenziali del 2020. Tutto questo mentre il ray tracing, così come il motore fisico, acquistano pervasività in diversi media, non più monopolio dei videogiochi. Se tutto venisse applicato al mondo social, come un distopico Second Life, chissà quali implicazioni umane riscontreremo nel lungo termine. Uno degli scenari più assurdi è la nostra graduale estinzione oppure, semplicemente, che gli altri smettano di additarci come sfigati se alla sera rimaniamo a casa perché nessuno avrà più amici (fisici) con cui condividere le proprie nevrosi. O ancora, ci aspetterà una sandbox dove un algoritmo così perfetto ci fornirà il tipo di contatto umano, o post-umano, di cui abbiamo bisogno e che abbiamo sempre cercato, e indovinate un po’, avranno tutti l’aspetto delle persone che abbiamo perduto e mollato per strada. Un bellissimo cimitero a circuito chiuso dove crogiolarci nelle profezie pop di Matrix e dimenticarci finalmente di quei terzomondisti di Zion. Non sarà più una questione di ingannare l’occhio con la realtà e la sua simulazione iperreale, ma di iniziare a ridefinire con nuovi termini l’umanità, il suo destino e il modo a cui pensiamo alla società, alle relazioni e al consumo che ne facciamo. D’altra parte quel deserto del reale citato da Morpheus non è solo un’ipotesi fantascientifica ma l’ambiente in cui viviamo sempre meno. Per quello che ne sappiamo un giorno potremo essere intrappolati da una bugia com’è successo a Peter nel film Underground (Emir Kusturica), dove l’amico Marko gli dice che la Seconda Guerra Mondiale è ancora in corso perciò è meglio se rimane nascosto nella sua cantina. E allora rifugiamoci sottoterra come quei poveri figli dell’atomica durante la Guerra Fredda, dove al momento penso abbia trovato asilo quella specie di Dylan Klebold che, col cappotto lungo nero, vent’anni fa si avvicinò a me e a mio fratello al cinema per chiederci se credevamo all’esistenza di Matrix. Gli direi di fare attenzione all’ultima scena, quella dove Neo in una cabina telefonica appende la cornetta dopo un breve monologo, e di leggere le parole di Italo Calvino in Prima che tu dica Pronto: “esiste solo la rete telefonica, mentre chi chiama e chi risponde… forse… non esistono affatto”.