Miei cari assassini
Luoghi, tendenze e sinergie del giallo all’italiana, da Sei donne per l’assassino a Fatal Frames
C’è un momento di Reazione a catena dove tutto diventa un gioco di società, in cui assassini e vittime si scambiano i ruoli. Allora tutti sono colpevoli proprio perché nessuno è innocente. Non è innocente il conte Filippo Donati (Giovanni Nuvoletti), uxoricida che tenta di mascherare il suo crimine con un suicidio, né lo è il giovane guardiano della baia, Simone (Claudio Camaso) , responsabile della morte di Donati, né lo è l’architetto Franco Ventura (Chris Avram), che vuole speculare sulla baia, e tantomeno lo sono la figlia di Donati, Renata (Claudine Augier) e il di lei marito Alberto (Luigi Pistilli). Neanche il mite entomologo Paolo Fossati (Leopoldo Trieste) , che con passione sadica trapassa con un ago da cucito quei poveri e indifesi insetti. E che dire dei ragazzotti che non pensano ad altro che a ballare, fare baccano o fornicare ovunque gli capiti? Se la stupidità fosse un crimine, sarebbero dei pluri-pregiudicati e tanto basta per renderli colpevoli. Ma se tutti sono colpevoli e il male è la norma, vuol dire che sono tutti innocenti. Ed è infatti l’innocenza che nel finale della pellicola trionfa, quando i due bambini, per gioco, uccidono i genitori con una fucilata. Lucio Fulci lo aveva detto, citando Henry James in Quella villa accanto al cimitero: “Nessuno saprà mai sei i bimbi sono mostri o i mostri bambini”. Troppe volte la purezza dell’infante può venire corrotta e trasformata in una macchina diabolica, veicolo del peccato e della perdizione. E che cosa può fare un uomo retto, uno sposo di Maria devoto al Signore, di fronte a questo spettacolo di corruzione, se non estirpare la pianta del male, uccidere l’innocenza fin quando è tale e preservarla così nei secoli dei secoli? «Non è per me che lo faccio – confessa Don Alberto (Marc Porel) in Non si sevizia un paperino, mentre accompagna la sorellina Martina al precipizio da cui vuole lanciarla –, è per loro. Non posso lasciare che mi fermino: io li amo come fratelli e non abbandonerò i miei fratelli. Crescono, cadono in braccio al peccato, bisogna impedirglielo… e ancora sono peccati che Dio perdona facilmente, ma domani, quali sordidi atti commetteranno, quali colpe non verranno più a confessarmi. E allora sì che saranno morti, morti per sempre…».
Don Alberto è, in fondo, un angelo “caduto” , che cerca di combattere il peccato con il peccato, e proprio in quanto “angelo caduto” alla fine, metaforicamente precipiterà giù da quel pendio dove voleva uccidere la piccola Martina. Don Alberto è solo uno dei tanti uomini del Signore corrotti dal peccato che covano nei loro cuori, dalle colpe che non riescono a confessare, dall’impossibilità di adempiere alla missione che Dio ha affidato loro. Sotto la tonaca, infatti, palpita il cuore di un uomo che ha perso di vista la giusta proiezione del mondo, che vive uno sdoppiamento di personalità perché costretto a una vocazione che non è la sua. Proprio come accade al padre James (Alessandro Haber) di Chi l’ha vista morire (1971), che sotto l’abito talare nutre passioni omosessuali e pederaste. Anche per padre James l’ unico sfogo a tanto tormento è l’annientamento dell’innocenza, quell’innocenza che turba le sue notti insonni, quell’innocenza che può essere così facilmente macchiata dall’onta del peccato, proprio come la neve si macchia di rosso nel momento in cui il maniaco, con un sasso, sfonda il cranio della ragazzina. Ma peccato chiama peccato e la rigida morale cattolica impone una pena per contrappasso e anche questo angelo caduto, annichilito dal ricordo di una madre puttana, precipiterà, avvolto in un rogo purificatore, dal campanile della chiesa verso il suo inferno personale. Come del resto dal campanile precipita anche il Don Paolo (Craig Hill) di Solamente nero (1978), prete, stupratore e assassino, ossessionato dal ricordo di quel primo peccato, quella violenza carnale consumata in età giovanile. Un così forte senso del peccato non può che scaturire da una cultura fortemente mediterranea, e particolarmente italiana. Se anche esempi di preti assassini ci giungono dall’estero (La Casa del peccato mortale), infatti, è il nostro bel Paese, la vera fucina del Diavolo, per registi e sceneggiatori che in un periodo di chiara influenza esterofila ambientano le loro storie gialle nell’entroterra italiano. Del resto, si sa, dove è maggiormente presente il sacro è altrettanto presente il profano, non c’è bene senza male, né redenzione senza peccato.
Morte in Vaticano si intitolava un inquietante film di Marcello Aliprandi, e proprio la presenza del Vaticano fa dell’Italia il Paese per eccellenza dove ambientare queste storie di morte e di peccato, perché il peccato scaturisce dalla religione e dall’ignoranza. Si pensi all’arretratezza culturale del paesino del Sud dove è ambientato Non si sevizia un paperino, in cui gli abitanti non esitano a lapidare una donna solo perché la credenza popolare la ritiene una megera; e si pensi a quell’ entroterra emiliano dove Pupi Avati ha girato il suo La casa dalle finestre che ridono (1976), un film che la sa lunga sul peccato e sulla morte. Il prete del film all’ improvviso lascia fuoriuscire un seno dalla tonaca e scopre la sua blasfema identità, prima di brandire l’arma che nasconde tra le vesti sacre. Incesto, malattia e morte: sono questi i colori con cui Avati, il pittore Buono Legnani e le sue due terribili sorelle dipingono un quadro di assoluto delirio (una casa dalle finestre che ridono) intorno allo scettico Stefano (Lino Capolicchio). Di peccato mortale si macchia anche il coraggioso prete antimafia (Fabrizio Bentivoglio) che in Pianese Nunzio quindici anni a maggio confonde l’amore per il Signore con la passione per un ragazzino e rimane stritolato da una cultura impermeabile alle sue debolezze. Ma se il prete è l’assassino non dimentichiamo che il bambino è la vittima. Ma è proprio vero che il bambino è sempre la vittima? È ancora Fulci che cerca di dare una risposta a questo dilemma e se non basta la citazione da Henry James ecco che in Voci dal profondo (1991) è proprio la mano di un bambino che, inconsapevolmente, diventa lo strumento di morte per eccellenza, quando per gioco trita delle scaglie di vetro nel contenitore del ghiaccio. Nel bambino purezza e corruzione convivono nella dimensione del gioco. Nicoletta Elmi, la bambina più sfruttata del cinema della paura italiano, è vittima in Chi la vista morire? di Aldo Lado e carnefice in Profondo rosso (1975) di Dario Argento quando con sadismo tortura un’indifesa lucertola; e ancora, è sia vittima che carnefice nel thriller soprannaturale di Massimo Dallamano, Perché (1975), dove nel finale si avvinghia al genitore in un abbraccio incestuoso e mortale. Come si diceva, è la dimensione del gioco che permette ai bambini di sublimare insieme il bene e il male, fondendoli in una cosa sola. Non a caso uno dei più bei film di Lamberto Bava, come Fulci autore molto sensibile al tema del bambino/mostro mostro/bambino, si intitola proprio Il Gioko (1989), in cui anche lo stupro e l’uccisione di una ragazzina da parte dei suoi compagni di scuola si trasformano in un gioco innocente e perverso allo stesso tempo. Come innocente e perversa era anche la bambina che in Macabro (1980), sempre di Lamberto Bava, si divertiva a nascondere il lobo mozzato dell’ orecchio di un cadavere nella zuppa della madre. Anche lei, come tutte le vittime del peccato, ha Un diavolo nel cervello.
Non è sempre vero che La Morte non ha sesso e il connubio eros e thanatos trova il suo giusto equilibrio nello Strano vizio della signora Ward e Nelle pieghe della carne delle Ragazze che sapevano troppo, negli abbracci saffici delle Lucertole con la pelle di donna, nei morsi proibiti delle Iguane dalla lingua di fuoco, più semplicemente, nei Vizi morbosi di una governante. L’amore è quasi sempre della vittima, ma non è mai puro. E un sesso deviato quello che porta Rosalba Neri ad avvinghiarsi stretta stretta a Barbara Bouchet in Alla ricerca del piacere (1972) di Silvio Amadio, o Edwige Fenech a soffermarsi sul seno nudo (al silicone) di Anita Strinberg in Il tuo vizio è una stanza chiusa… e solo io ne ho la chiave (1972) di Sergio Martino. E la signora Julie Wardh (Edwige Fenech), protagonista dell’ omonimo film, non si risparmia in fatto di vizi e con il suo amante George (George Hilton) dà vita ad una delle sequenze più calde di tutto il cinema giallo all’italiana, alla faccia del marito cornuto. Non che il marito sia poi uno stinco di santo, visto che proprio con George aveva organizzato un complotto ai danni di Julie. Innegabile la carica erotica che lega i due uomini (l’amore è sempre qualcosa di deviato e deviante per vittime e carnefici) e che Sergio Martino per pudore non evidenzia mai, cosa che invece farà Antonio Bonifacio nel remake La strana storia di Olga O. (1995). Ancora più viziosa e perversa di Julie Ward (che dalla sua aveva almeno un apparenza di rispettabilità) è invece la Jane (Edwige Fenech) di Tutti i colori del buio (1972) sempre di Sergio Martino, che viene coinvolta da una vicina di casa in una serie di riti satanici a sfondo orgiastico. Anche la Floriana (Edwige Fenech) di Il tuo vizio è una stanza chiusa… e solo io ne ho la chiave (1972) possiede la carica erotica necessaria per scatenare pulsioni e passioni nel già precario rapporto di coppia tra Oliver (Luigi Pistilli) e Irene (Anita Strinberg). Il sesso è in questo caso, come sempre, la molla che dà inizio alla tragedia. Il sesso è pruriginoso e peccaminoso, lascivo e deviato e, come tale, ricettacolo di tutti i vizi, tra i quali quello per eccellenza è sicuramente l’ omicidio. In Nude per l’assassino (1975) di Andrea Bianchi, il sesso è il vero protagonista della vicenda, il responsabile di ogni dolore e sofferenza. Per colpa del sesso una ragazza ha dovuto abortire clandestinamente ed è morta durante l’operazione. Per vendicarla, Patrizia, la sua amante (perché il sesso è sempre devianza), fa strage delle ragazze di un agenzia di modelle che sembra più che altro un postribolo. Nel finale, poi, Carlo (Nino Castelnuovo) al momento di concludere dignitosamente la sua storia d’amore con Carla (Edwige Fenech), opta per un rapporto anale in modo da non rischiare un nuovo, pericoloso aborto.
E l’aborto (l’ eliminazione prematura del frutto del peccato, che quasi sempre è punito da Dio con terribili effetti sulla madre assassina) è l’elemento scatenante degli assassinii di Cosa avete fatto a Solange? (1972) di Massimo Dallamano, dove un padre che si è visto menomare psicologicamente la figlia durante, appunto, un aborto clandestino, decide di eliminare le giovani compagne di scuola che l’hanno aiutata, conficcando loro un coltello nella vagina, come a voler punire quel ricettacolo di vizi e passioni. È un po’ quello che fa il killer maniaco di Giallo a Venezia (1980) di Mario Landi, che assale una prostituta nei pressi di una discarica e la prende a forbiciate nel sesso. Nello stesso film, tra l’altro, Flavia (Eleonora Fani) si libera una volta per tutte del marito Fabio (Gianni Dei) che la costringeva a sottomettersi a ogni più bieca perversione, colpendolo mortalmente nei testicoli con un paio di affilatissime forbici. Il sesso si trasforma in tragedia quando una ragazza rimane uccisa durante un amplesso erotico un pò troppo audace con un fallo di legno in Enigma rosso (1978) di Alberto Negrin e anche in questo caso si tratta di una studentessa, proprio come quella Ragazza tutta nuda assassinata nel parco (1972); mentre in La Sorella di Ursula (1978) di Enzo Milioni, l’assassino si serve di un pene posticcio dalle dimensioni smisurate per compiere i propri delitti. L’eros, come abbiamo visto, è inscindibilmente legato alla morte (non a caso I Corpi presentano tracce di violenza carnale); ma la cosa interessante da notare è che il connubio rimane tale anche quando l’ ultimo anelito di vita ha abbandonato il corpo della vittima, come dimostra il cadavere nudo dal volto orribilmente sfigurato di La Ragazza dal pigiama giallo (1978) di Flavio Mogherini, o quello diafano di Anna (Cinzia Monreale) che il fidanzato Francesco (Kieran Canter), in Buio omega (1979) di Aristide Massaccesi, trafuga dal cimitero e imbalsama per averlo sempre a portata di mano. Perché il vizio, oltre ad avere le calze nere, non muore mai.
“L’impulso era diventato irresistibile”, avverte Dario Argento sui titoli di testa di Tenebre (1982), “c’era una sola risposta alla furia che lo torturava. E così commise il suo primo assassinio. Aveva infranto il più profondo tabù e non si sentiva colpevole né provava ansia o paura, ma libertà. Ogni ostacolo umano, ogni umiliazione che gli sbarrava la strada poteva essere spazzata via da questo semplice atto di annientamento: l omicidio”. Del resto, il giornalista televisivo Cristiano Berti (John Steiner) ha ben spigato che Tenebre tratta della perversione umana e dei suoi effetti sulla società . In una società consumistica, dove il denaro diventa l’unica fede in cui credo , è facile che il movente coincida con una certa bramosia di possesso come in Sei donne per l assassino (1964). Ma per Mario Bava, padre del giallo all’italiana e di tutti i suoi canovacci classici (mani guantate, passi furtivi nel buio, giochi di luce…), questo è solo l’ennesimo espediente per dar vita alla consueta sfida con il pubblico; quello che interessa a Bava non è tanto delineare la psicologia del mostro, ma costruire una storia a incastri che spiazzi e depisti lo spettatore fino all’ imprevisto finale. Anche il sopra citato Reazione a catena, tutto sommato, non è altro che un simpatico gioco di ruolo che potremmo chiamare giustamente Ecologia del delitto. Diverso il discorso per Argento, che da Mario Bava ha appreso i meccanismi della paura adattandoli, con un indubbia abilità tecnica, alle esigenze del pubblico moderno. Per Argento l’assassino è un anormale, una persona, cioè, che è fuori dalla norma perché qualcosa o qualcuno nell’infanzia ha segnato la sua vita trasformandola in un incubo. E non si può non notare come il mostro per antonomasia secondo Dario Argento sia quasi sempre una donna: la Monica Ranieri (Eva Renzi) di L’uccello dalle piume di cristallo (1970), la Nina (Mimsy Farmer) di Quattro mosche di velluto grigio (1971), ovvero le mogli fedifraghe, la signora Righetti di Profondo rosso (1974), la Mrs. Bunker (Daria Nicolodi) di Phenomena (1985), l’Adriana Petrescu (Piper Laurie) di Trauma (1993), ovvero le madri snaturate e, infine la Anna Manni (Asia Argento) di La sindrome di Stendhal (1996), la figlia perduta. Sono questi i veri mostri del cinema di Dario Argento che, nonostante la motivazione di fondo che le spinge a compiere i delitti, vengono sempre trattate con ferocia rispetto agli assassini maschi che, bene o male, sono trattati con maggior indulgenza. Infatti gli uomini, per Argento, sono quasi sempre vittime involontarie anche della loro stessa follia, proprio come il Carlo (Gabriele Lavia) di Profondo rosso, un ragazzo gay, frustrato, alcolizzato e assassino suo malgrado a causa di una madre pazza che anni addietro aveva ucciso il marito di fronte ai suoi occhi da bambino.
Meno indulgente è invece Armando Crispino che non ha nessuna compassione per Igor (Carlo De Majo), lo psicopatico che non può soffrire le coppiette che amoreggiano davanti ai suoi occhi in L’etrusco uccide ancora (1972). Il motivo scatenante è comunque quasi sempre un trauma infantile, come nel caso di Paulette Stone (Martine Brochard) in Gatti rossi in un labirinto di vetro (1974) di Umberto Lenzi, resa folle dall’aver perso un occhio per colpa di una compagna di scuola. L incapacità di accettare la propria diversità, come nel caso dell’impotente di Passi di danza su una lama di rasoio (1972) o dell’omosessuale di L’iguana dalla lingua di fuoco (1971) di Riccardo Freda. Comunque sia, il motivo è sempre all’ interno del passato del del mostro e si ripercuote nel presente, creando nell’ individuo uno sdoppiamento della personalità e un’incapacità di riconoscere se stesso proprio come capita al folle assassino di Body puzzle (1992) di Lamberto Bava, che cerca disperatamente di ricostruire la sua identità attraverso lo smembramento delle sue vittime e la ricostruzione dell’amante perduto. E più o meno l’evoluzione dello psicopatico interpretato da Michele Soavi in La Casa con la scala nel buio (1983), dove lo sdoppiamento era tale da tradursi anche nell’abbigliamento del maniaco, che uccideva le sue vittime vestito da donna. Anche in questo caso, come sempre, l’origine del male si nasconde nel passato del mostro, nella sua infanzia corrotta, nella perdita di quella purezza che è propria di ogni bambino a causa degli scherni degli altri bambini. E così si torna al punto di partenza. Ma allora chi è l assassino, il mostro, il maniaco, l’ impuro? Semplice: siamo noi spettatori, che da vittime diventiamo carnefici proprio come accade ad Alex (Rick Gianasi), il protagonista di Fatal frames fotogrammi mortali (1997) di Al Festa, che per tutta la durata del film sembra essere il bersaglio prediletto di un feroce maniaco e poi nel finale scopriamo essere lui stesso l autore dei macabri delitti. E qui l’ immedesimazione è totale e lo spettatore si trova d’ improvviso a guardare attraverso gli occhi del maniaco, alla ricerca della Vittima designata.