
La città proibita
2025
La città proibita è un film del 2025, diretto da Gabriele Mainetti.
Ci meritiamo Gabriele Mainetti. Noi, la gang di Nocturno, ce lo meritiamo senza dubbio. Perché Gabriele è uno di noi, è nocturniano di lungo corso: ebbe a dirmelo lui stesso, in totale, spontanea franchezza, quando ci incontrammo per la prima volta anni fa, dietro le quinte del Bifest. Era in gara con Lo chiamavano Jeeg Robot, sezione Opere Prime e Seconde. Il suo film era ancora di là da diventare quel cult che poi è diventato. Gabriele si definì nocturniano, e nelle parole che ci scambiammo fece riferimento ai dossier di questa rivista, a quell’unicum che in continuum ha marcato la differenza, nei decenni, con l’editoria di settore di questo Paese. Sparuti, a dire il vero, i casi simili anche nel resto del mondo. Là fuori, o là sopra, gli altri a prenderci per disadattati o, peggio, per necrofili, se non per feticisti. Necrofili siamo, e pure feticisti, perché questo serve, serve il disseppellimento del rimosso, la difesa, in alcuni casi la genesi di una memoria altrimenti cancellata, lo sguardo nuovo eppure classico, classicamente nocturniano, su filoni e tendenze così come su meteore, schegge impazzite, fenomeni ai limiti dell’inguardabilità (che non si hanno da guardare, per decisione di terzi). Mainetti nocturniano, quindi, in una delle infinite accezioni del termine. Consumatore compulsivo di cinema di genere, con una curiosità morbosa verso le cinematografie orientali e con il cervello pieno zeppo di what if. E se facciamo una storia di supereroi di borgata a Roma? E se facciamo combattere dei freaks mutanti contro i nazisti, sempre a Roma? E se… e se? Idee grandi, la volontà di realizzare opere high concept, non minime né minimali, perché lo spettatore – e il regista è il primo dei suoi stessi spettatori – si devono divertire, si devono entusiasmare. A grandi pensieri corrispondono, fortunatamente, grandi disponibilità: Mainetti è uno che rischia in proprio, è il primo finanziatore dei suoi film. Questo gli è valso surplus di invidia e di acredine da parte degli addetti ai livori, specie per il suo secondo film, Freaks Out. Gente che guardava ogni giorno i dati del botteghino, compiacendosi che gli incassi restassero sotto il budget di produzione; a questo, spesso, si è ridotta la critica italiana, a un esercizio di bassa contabilità. Senza fraintendimenti, resta inoppugnabile che il buon esito di un’opera di intrattenimento, rivolta a un pubblico diffuso, dipenda dal riscontro che ne dà il pubblico medesimo.
Altrettanto inoppugnabile è che il pubblico vada anche sfidato, malgrado tutto e tutti. A proposito di Freaks Out, Marco Giusti, uno che la sa e che la vede lunga, così scriveva: “Filmone, anzi firmone. Ve lo dico subito. Come in Italia è raro farli e vederli. Uno spettacolo, magari non sempre al massimo, magari non sempre originale, ma un vero e proprio spettacolo che non ti stanchi di vedere. Come fosse un film di Guillermo Del Toro o di Alex De La Iglesia, come fosse insomma un grande film internazionale strambo e ricco con effetti speciali ed effetti visivi finalmente riusciti e un po’ di picaresco monicelliano. Che punta però molto in alto, con coraggio e faccia tosta, come da tempo ci siamo augurati tutti di fare, senza i borghesi di Prati alla Moretti o i poveri tristi che fanno cazzate e piacciono così tanto ai rampolli emergenti del cinema italiano”. Mainetti come De La Iglesia, o come Del Toro, dice Giusti senza iperbole, e si riferisce alla sua visione di cinema. Due anni fa, in qualità di sherpa per quei pazzi del ToHorror Film Fest, ho provato a contattarlo per una masterclass sul cinema di genere, da tenere al Museo del Cinema di Torino. La risposta non è stata positiva, come invece mi sarei aspettato, ma il periodo era sbagliato, Mainetti era immerso nel progetto del suo terzo film, che è questo La città proibita. Il terzo dei suoi what if: e se facessimo un film di (più corretto con) kung fu, e lo ambientassimo a Roma? Operazione ai limiti del sadomasochistico per tanti versi, non ultimo per l’accento sul kung fu che ha un retrogusto vintage, mentre la moda internazionale, quella dei John Wick e non solo, si orienta su contaminazioni tra judo, ju jitsu, krav maga, muai thai. La sfida del kung fu quindi è una roba dannatamente pericolosa, ed ecco il primo colpo da maestro. Mainetti va in Cina, con la sua squadra, per provinare una vera atleta, con pregressa esperienza da stuntman in film pure importanti (il live action di Mulan), ma nessun ruolo drammatico pregresso. Si chiama Yaxi Liu, volto che buca lo schermo, e il ruolo principale diventa suo per diritto naturale. Cinesi anche gli altri interpreti\atleti, che affrontano Liu nelle scene di combattimento. Alla coreografia di queste scene, un top player mondiale, Liang Yang (Skyfall, Deadpool e Wolwerine). Comparto internazionale di primissimo piano quindi. Accanto a questo, i migliori professionisti del cinema di genere italiano: quello che è oggi il cinema di genere italiano, quello che si ostina a covare sotto la cenere, più vivo di quanto si dia ad intendere, più vivo dello stesso pubblico che a volte lo tratta malissimo. Professionisti come Matteo Carlesimo, storico operatore di Mainetti, anche sui set de I Mercenari 4, The Swarm, Io Capitano. Come Paolo Carnera, direttore della fotografia, già con Sollima per Acab, Suburra, Adagio. Alla sceneggiatura, poi, non più Menotti e Guaglianone ma Stefano Bises e Gabriele Serino, due sugli scudi per la roboante M – Il nemico del secolo di Joe Wright, anche loro collaboratori di Sollima, per Adagio e per Gomorra. Ecco ricostruito il percorso: la migliore realtà del cinema di genere in Italia, oggi, passa attraverso le produzioni di Sollima in primis, ma anche di Garrone, di Di Stefano, di Sibilia. Si intravede una factory tecnico creativa che può guardare in alto, attraverso la formula di successo del “think glocal”: contestualizzare storie dal respiro globale, internazionale, in contesti locali. Per questo film, il contesto è il quartiere Esquilino, l’ombelico cosmopolita di Roma, la città (Hong Kong? Il Cairo? Calcutta? Istanbul?) nella città.
È qui che arriva Yaxi Liu, alla ricerca della sorella perduta. Ci arriva attraverso una sorta di stargate che è La città proibita, un edificio-mondo, simbolo della emigrazione cinese in Italia e di tutti i pregiudizi che si porta appresso. La città proibita infatti è tratta di schiavi, bordello, bisca e ristorante. Contesto multietnico, e rappresentazione degli stereotipi: roba da far drizzare le antenne, in questo periodo di turbonazionalismi. L’elemento più critico, infatti, è il bilanciamento tra questa Roma invisibile, che pure c’è, e la Roma visibile lì dentro al quartiere, non sempre accogliente e inclusiva. Per dire, in Piazza Vittorio di Abel Ferrara sempre di Esquilino si parlava, mostrando bene bene pure i camerati di Casa Pound dentro lo stabile che occupano da anni. Nel film di Mainetti, la Roma visibile è una taverna, una trattoria tipica come tante, anche questa stargate ma di casi più o meno umani. Il proprietario è un ragazzo buono, con un’attitudine innata alla cura e alla non violenza. È interpretato da Ettore Borello, che è la seconda grande intuizione di casting di Mainetti. Borello, visto in Familia di Francesco Costabile, è un modello di mascolinità inusuale e modernissimo, non il solito bamboccione narcisista ma una figura dolente e romantica, capace di portarsi addosso gli aspetti più sentimentali e più comici del film. La storia d’amore che nasce tra l’erinni e il ragazzotto si sviluppa su due grandi perdite – la sorella per l’una, il padre per l’altro -, ma anche sul confronto con i due grandi villain del film. Uno è Marco Giallini, il boss di quartiere, che pare pure romanaccio dal cuore d’oro, ma in fondo è un razzista pezzo de mmerda. L’altro è il cinese padrone de La Città Proibita, personaggio grottesco e tragico, non integrato, ripudiato dal figlio che è nato a Roma e canta la trap in romanesco (interpretato dal cantante Maggio). Abbiamo scritto che è un film con kung fu, e non di kung fu. Ci sono infatti tre momenti di azione salienti che segnano il percorso dell’eroina, e che corrispondono all’evoluzione dei tre principali stati emotivi (la rabbia, la disperazione, la nemesi). Combattimenti di largo respiro, creativi, fatti per essere guardati nell’interezza del loro svolgimento plastico. Allo stesso livello di importanza, con un approfondimento pari alla cura messa per i colpi, ci sono le relazioni tra i personaggi, le riprese in scenari inediti (i sotterranei di Roma Termini), le atmosfere, che per volere di Mainetti si rifanno addirittura ad Hong Kong Express. La città proibita è un gran film, è l’opera matura, pienamente consapevole di un regista che si ostina a essere un visionario. A chi gli chiedeva dei debiti creativi verso L’ultimo combattimento di Chen, Mainetti ha risposto menzionando L’odore della notte di Caligari, e poi il tailandese Chocolate e il coreano The Villainess. Gobble gobble, Mainettione of us, one uf us!