Nosferatu
2024
Nosferatu è un film del 2024, diretto da Robert Eggers.
Secondo alcuni, l’elevated horror è il genere che più ha vivificato il cinema del XXI secolo. Secondo altri, è stato una sciagura, per il genere e per gli spettatori. Alcuni dicono che l’elevated horror sia vivo e vegeto, altri che non sia mai veramente nato. In effetti, ravanando in Rete, se ne trovano natali incerti, più o meno convergenti su Blood Story, il remake americano di Lasciami entrare. Una storia di vampiri guarda caso. Un remake guarda caso, con la gloriosa Hammer Film tra le case di produzione. Se l’individuazione dell’origine, al pari della presunta patente di autorialità, è tema da onanismo critico, assodati invece sono i maestri – o i discepoli? – dell’elevated horror: Mitchell per esempio. Kent, per esempio. Peele. Aster uber alles. E Robert Eggers. Eggers, che è pure sinonimo di A24, casa di produzione che ha marchiato gli stili e le tendenze le più avanguardiste del cinema commerciale americano, e non. Eggers e l’elevA(24)ted horror, dunque. Eggers ha all’attivo 4 lungometraggi, ma l’unico che rientri a pieno titolo in questo discorso è il primo. The Witch: a New England Folktale. Folk horror naturalista, con una originale visione del contesto georgico – l’America dei Padri Fondatori – nelle sue conseguenze venefiche su una famiglia di coloni, puritani integralisti, timorati di Dio e soprattutto del diavolo. Diavolo che panicamente si cela in una casa nel bosco, ma anche dietro un caprone nero, il più famoso della storia del cinema (Black Philip), per esplodere nel desiderio, nella sessualità, nella insubordinazione di una adolescente terribile al proprio destino, quindi al patriarcato. The Witch è del 2015, due anni prima del #metoo.
Dopo questo, Eggers gira The Lighthouse, una sorta di kammerspiele in bianco e nero desaturato, con Willem Dafoe maschio-fu-alfa ad attentare, in tutti i sensi, alla virilità di Robert Pattinson, recitando entrambi in un inglese desueto, marinaresco, facente il verso alla Ballata del Vecchio Marinaio di Samuel Taylor Coleridge, cui il film si ispira nei modi e nell’epoca. Opera programmatica, difficile da digerire in sala, espressionista negli intenti e nella resa. È ai tempi di Lighthouse che Eggers comincia a vagheggiare di una personale riesumazione di Nosferatu, con Dafoe protagonista. Il suo terzo film tuttavia segue un’altra traiettoria, approda nelle terre norrene ed è una pugna vichinga, audacemente ispirata al medievale Gesta Danorum, l’ur-Amleto del leggendario storico Saxo Grammaticus. Pugna vichinga sì, ma rappresentata in modo essenziale, rigoroso, pauperista persino, malgrado un budget di produzione da grande saga (90 milioni di dollari, dicitur). Con The Lighthouse, che non è un horror, Eggers comincia a mettere davvero paura a pubblico e critica. È che sembra intenzionato a confondere, a sviare, sembra crogiolarsi in una filologia tutta personale, in visioni ineccepibili, pregne di stile ma povere di afflato narrativo, a detrimento del coinvogimento dello spettatore. Eggers come un cineasta selettivamente permeabile. Dopo The Northman, finalmente, Nosferatu. Eggers gira in Europa: nei Barrandov Studios di Praga, poi in un castello lì vicino, poi anche a Lubecca ed in Romania. Fedele alla sacralità del film cui si ispira, ambienta la sua storia a Wisburg, città tedesca ottocentesca, baltica, di finzione. Infedele alla sua stessa ortodossia, fa recitare i suoi personaggi in inglese, concentrando il suo purismo sul gergo parlato dal vampiro, il conte Orlock. Orlock si esprime infatti in una lingua morta, un antico dialetto della Dacia, alternandolo ad un inglese di grottesca pronuncia balcanica.
Lo iato è manifesto sin dall’incipit, che è anche il culmine della visione: Lily Rose Depp, sonnambolica, madida di sudore, rorida di rugiada, a invocare in English protezione dall’alto dei cieli, o dal basso degli inferi, mentre l’ombra del vampiro, parlante antico, si staglia su tende bianche svolazzanti come lenzuola, come seta intima, per ghermirla. Una folgorazione. Effimera, purtroppo. Dopo di essa si dipana il racconto, con la giovane sposa, preda di incubi e deliri, lasciata in balia del suo on(an)irico dal giovane sposo, che per denaro, per ambizione sociale accetta la missione transilvana. Tappa canonica nella taverna canonica, con i gitani musicodanzanti canonicamente inorriditi a sentirlo pronunciare quel nome, quell’Orlock malefico. Eggers qui ha un sussulto di folk horror, e disegna un rituale di devampirizzazione bucolico breve ma intenso, con paletti e vergine a cavallo. I suoi vampiri si ispirano infatti agli strigoi – rsvp The Strain di Guillermo Del Toro – sorta di non morti della tradizione rumena, e non all’opera di Lord Byron o di Bram Stoker. Questo diventa evidente nell’epifania del conte, girata in luce naturale, ca va sans dire, in un castello di pietra disadorna come un oltretomba. Orlock – Peter Skarsgaard – è una figura decrepita eppure possente, con un imprevedibile, foltissimo paio di baffi. Un vampiro, il conte de li conti, con i baffi, ma glabro per il resto. Visione spiazzante, si può dire perturbante? Sono i baffi, e non le mani dalle dita unghiute, prosteticamente ungulate, ciò che impressiona di più, che connota questo vampiro aristocratico ma zingaro, il master degli strigoi con l’eloquio da imbonitore circense. Pare di vedere il Bronson di Tom Hardy, morto e dissepolto. Dalla Transilvania a Wisburg, poi, è un nostos atipico. Eggers appare maldestro e frettoloso nel rappresentare il viaggio del veliero maledetto, con il sarcofago a sprigionare peste e dannazione. Più concentrato, ma ugualmente maldestro, su un esorcismo di suore cristiano ortodosse che mondano il giovane maritino dalla vampirazzione. Si torna a Wisborg dunque, e c’è grande spazio per il ghoul del vampiro, l’immobiliarista che ha venduto una vecchia magione ad Orlock.
L’attore è Simon McBurney, ma sembra Mel Brooks mentre si dimena in overacting, ammazza persone ed animali, sproloquia di morte e di avvento. Interessa poco in effetti, agli spettatori e allo stesso Conte, perché è chiaro che tutto deve portare al redde rationem promesso dal prologo. Con calma, però. Eggers si sbizzarisce, esce dal solco di Murnau con una serie di sottotrame da lui stesso concepite. Tratteggia differenze di classe tra la coppia di neo sposi maledetti, piccolo borghesi, senza figli perché costretti al duro lavoro quotidiano, e la famiglia multiprole degli amici Hardings, ricchissimi da generazioni, che il lignaggio servirà a nulla davanti all’onda del vampiro. Soprattutto, Eggers si sofferma sullo one man show di Dafoe, nelle vesti di medico sciamano, specialista in scienze occulte e nemico dichiarato di Nosferatu. La rappresentazione è una contrapposizione, ciarlatano da unguenti miracolosi vs imbonitore circense, come sopra. Personaggi grotteschi e meschini, quelli maschili, mentre Lily Rose Depp somigliante più che mai a Mercoledì Adams Jenna Ortega cresce di possessione in possessione, mescola i tratti della virago, della ninfa, dell’erinni, tenta di sprigionare tutta l’entropia del suo vorace, innocente desiderio sessuale. È qui, è nel climax che Eggers naufraga. Orlock vissuto come un mea culpa, una conseguenza del mea vulva, mea maxima vulva (Von Trier), è una rappresentazione sì originale ma non straordinaria, cui si arriva per forzature e per lungaggini imprevedibili. Senza disperazione, senza passione. Abbiamo detto tanto, forse troppo, ma il nostro giudizio sul film resta piuttosto desolato, ci pare di aver visto un metafilm, più un’operazione alla Frankenstein Junior che un percorso sui sentieri di Murnau. Ci soccorre quindi una tardiva quanto rivelatoria ammissione del diabolico regista: il suo Nosferatu vuole essere un film che rievoca il modo di fare della casa di produzione Merchant-Ivory, però contaminato, come se fosse un film della Hammer. Ecco spiegato il timbro di voce di Orlock, tra Vincent Price e Christopher Lee. Ecco significato il funerale degli Hardings, sontuoso, magistrale, più Corman de la Tomba di Ligeia che Hammer, a dire il vero. Sciocchi noi, che non lo avevamo capito!