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Rats – Notte di terrore

1984
Titolo Originale:
Rats: Night of Terror
REGIA:
Claudio Fragasso, Bruno Mattei
CAST:
Ottaviano Dell'Acqua (Kurt)
Geretta Geretta (Chocolate)
Massimo Vanni (Taurus)

Il nostro giudizio

Rats – Notte di terrore è un film del 1984, diretto da Vincent Dawn [Bruno Mattei].

Alla metà degli anni Ottanta le campane per il bis italiano sembrano suonare a morto. E se c’è qualcosa che può ancora sopravvivere nel gorgo suicida di tv private e furore home video e che può essere genuinamente definito “cinema di genere”, gran parte di questo qualcosa passa tra le mani esperte di Bruno Mattei. Nel 1984, con Claudio Fragasso (alter ego di Mattei fin dai tempi de La monaca di Monza), il regista romano decide di metter su, con Rats – Notte di terrore, una sorta di romeriana Notte dei morti viventi con dei topi al posto degli zombi e ambientare il tutto in epoca futuribile per sfruttare l’andazzo del momento; e ci riesce, catapultando un’accozzaglia di bikers post-atomici alla scoperta di un territorio dominato dai ratti; ma, allo stesso tempo, riesce a fare di più, sublimando quel gioco al rialzo tipico del periodo: destruttura il sottogenere avvolgendolo in atmosfere orrorifiche, ne rende iperbolici i connotati decretandone, al contempo, la morte. Quando, nel solito futuro post-apocalittico, in cui l’umanità si distingue tra abitanti del sottuosuolo e Primitivi nuovamente scorrazzanti in superficie, la banda di Ottaviano Dall’Acqua esplora al crepuscolo gli edifici fatiscenti degli studi De Paolis, le anomalie, che poi sono puro cinema, alternativa intelligente, capacità di variazione infinita sul tema, saltano all’occhio coinvolgendo contenuti e forma.

L’utilizzo dei ratti, il rispetto quasi perfetto delle tre unità aristoteliche di tempo, luogo, azione, l’ambientazione claustrofobica e notturna, affondano il colpo e fanno tabula rasa di tutto quello che il post-atomico italiano aveva espresso sino a quel momento. A cominciare dalla struttura narrativa, che segue un percorso ben preciso in funzione di un crescendo di tensione: dalla prima parte in cui i presagi di morte annichiliscono l’iniziale entusiasmo dei protagonisti (Ann Gysel Glass scopre cadaveri dilaniati da roditori, Massimo Vanni ed Henry Luciani tastano direttamente l’aggressività dei ratti, a Cindy Leadbetter i resti di un cadavere crollano addosso da un armadio), alla consapevolezza dell’incubo (quando bikers e spettatore vengono colpiti allo stomaco dal ratto che esce dalla bocca di Moune Duvivier dopo averla devastata dall’interno, in un’orrida riproposizione dell’atto sessuale poco prima condiviso col personaggio di Jean-Christophe Brétignière, e quando quest’ultimo, che condivide con Chris Fremont una fine orribile, viene carbonizzato dopo esser stato sommerso da una cascata di topi), sino ad arrivare alla messa in scena di una vera e propria difesa ad oltranza per aspettare l’alba in un mega-ambiente dove ogni porta, finestra, botola, non è mai via di fuga ma anzi restringe sempre più lo spazio vitale dei protagonisti. Ed è forse proprio qui la chiave del film, nell’attuazione, probabilmente inconsapevole, di una diminuzione progressiva ed inarrestabile della possibilità di perdurare (come stava accadendo per il cinema di genere), derivante da una hybris che affonda le proprie radici nei continui tentativi di generare apocalissi, come già preconizzato in Virus, che carica di solida angoscia l’atmosfera che si respira, in cui, finalmente, i pochi superstiti agli attacchi dell’orchestra rattesca scoprono da un messaggio registrato che chi era lì prima di loro, rappresentanti dell’umanità del sottosuolo, era stato spazzato via mentre preparava la risalita in superficie.

Perfetta, in questo senso, è la fotografia quasi espressionista di Franco Delli Colli, cupissima e funzionale al mare di oscurità persistente, avvolgente, “strutturale”, in cui, tra spicchi di luce, si muovono i protagonisti, e che serve a Mattei per frammentare l’inquadratura, rimpicciolirla, ghettizzarla. Come nella bellissima sequenza, visivamente forse una delle migliori di tutto il film, in cui la Leadbetter, tra fasci di luce ed oggetti in primo piano con cui abilmente viene “tagliato” il campo, attraversa alcuni ambienti dell’edificio per arrivare, accompagnata da un’azzeccata musica d’organo, nella stanza esagonale dalla grande vetrata, dove riflessi giallo arancio fungono da cornice infernale e dove, in preda allo sconforto più totale, si lascia andare a un delirante monologo prima di tagliarsi i polsi. La risalita dal sottosuolo di un drappello di indivudui armati di fucili sparagas chiude poi il conto in sospeso con le possibilità di sopravvivenza: Gianni Franco solo per un attimo spera di essere scampato alla furia rattesca, ma è solo l’incubo che cambia forma, assumendone un’altra, dalle sfumature mathesoniane, che si scaglia indifferentemente contro i ratti e contro la vecchia umanità dei Primitivi, che si rende conto, nel modo più traumatico, nell’urlo infinito di Geretta Geretta, di essere infine diventata “leggenda”. Sorte condivisa dal cinema di genere, al quale sembrano appartenere i medesimi destini dell’inerme umanità di Rats: la ricerca disperata di sfuggire all’oblio da vittima predestinata, in quanto meno intelligente, meno organizzata e, in definitiva, meno evoluta.