Relic
2020
Relic è un film del 2020, diretto da Natalie Erika James.
Alla fine una cosa buona ce l’ha regalata questa pandemia: uno scossone economico e, vale la pena di dirlo, culturale che ha costretto buona parte delle case cinematografiche a rivedere le proprie politiche di distribuzione. Chi ancora non supportava la dimensione dello streaming digitale si è trovato difatti davanti a un punto di non ritorno. Dopo la Universal, che si era dovuta piegare alle esigenze del Vod lo scorso marzo (con Emma e L’uomo invisibile, fra gli altri), questo luglio pure la A24, impostasi sul mercato proprio per la sua posizione conservatrice rispetto alla distribuzione in sala, ha ceduto al mercato del digital (e infatti First Cow è uscito sul web lo scorso weekend). Una bestemmia per tutti quelli che “o in sala o nulla”? Probabilmente. Un contentino nell’attesa della riapertura del circuito distributivo? Anche, ma in periodo di secca, si sa, qualche sacrificio si è disposti anche a farlo. Ecco quindi approdare sulle piattaforme anglosassoni Relic, debutto dell’australiana Natalie Erika James in arrivo direttamente dal Sundance, dove lo scorso gennaio era stato presentato nella sezione Midnight. Film festivaliero da fruire sul divano: un ponte mediatico che forse, senza il boom digitale degli ultimi mesi, non sarebbe stato possibile.
In diversi lo hanno paragonato ad Hereditary di Ari Aster, ma il parallelismo più facile è probabilmente quello con il Babadook di Jennifer Kent, altro esempio calzante di autorialità horror al femminile (pure quello, guarda caso, made in Australia). Come nel film della Kent siamo anche qui in pieno territorio “terrore emozionale”: protagonista, a questo giro, una famiglia in ricostituzione, con l’anziana matriarca (Robyn Nevin) colpita improvvisamente dalla demenza senile e una figlia di mezza età (Emily Mortimer) che cerca di aiutarla. C’è una qualche presenza paranormale a causare lo strano comportamento della nonna? Nessuna risposta facile è data. Anche in questo caso l’elemento soprannaturale è difatti un pretesto, più che un elemento narrativo vero e proprio, per parlare d’altro: di disgregamento familiare, forse, o di degradazione psicologica. C’è però un’importante differenza nel modo in cui i due film fanno uso dell’elemento fantastico, che è forse il motivo per cui, al di là dell’interessante premessa, Relic risulta un’opera tendenzialmente più modesta. Laddove la valenza simbolica del film della Kent sfociava in un gioco di vedo-non vedo in cui il Babadook del titolo compariva solo a tratti, addensando di fatto la vena ambigua della narrazione, in Relic la presenza dell’entità soprannaturale è chiara ed esplicita sin dai primi momenti.
Un dettaglio piccolo ma significativo: mentre in Babadook la danza dell’orrore era giocata con eleganza su una fertile ambiguità psico-metaforica, in Relic questa ambiguità viene, nel primo atto, eclissata dalla superficie di haunted house movie. Ci sono le ombre misteriose, le poltrone che si spostano e i rumori notturni: un campionario dei cliché di genere invero un po’scontato. Tutto realizzato con grandissima cura e gusto per l’atmosfera, va detto. L’originalità del discorso della Kent, però, sembra stare su un altro livello. Quando Relic abbraccia a pieno il proprio discorso metaforico, allora sì che lo scorcio autoriale si intravede per bene. E infatti l’ultimo, climatico atto è un susseguirsi di sensazionali invenzioni visive, con un paio di trovate simbolico-figurative estremamente efficaci che palesano una riuscita sintesi fra testo e sottotesto. Basterebbe anche solo la conclusione a fare del film un must-watch per chi fosse interessato a questo tipo di produzione autoriale. Limitarsi a considerare l’originalità o meno della pellicola della James, però, è un approccio senza dubbio riduttivo, perché Relic rimane, al di là dei suoi limiti, un esempio fulgido di cinema dell’orrore intelligente e personale (come il climax spaventoso ed emozionante dimostra). Che sia arrivato direttamente sulle piattaforme è, francamente, ancora più impressionante.