Soldado
2018
Soldado è un film del 2018, diretto da Stefano Sollima.
L’idea creativa e commerciale di Soldado è dello sceneggiatore Taylor Sheridan, uomo d’arte e di mestiere, che dopo una vita passata da interprete globetrotter di serie tv si è scoperto scrittore di buon livello, sfornando in successione Sicario, Hell or High Water, Wind River e Soldado. Sheridan oggi va per la maggiore ed è latore di una cifra stilistica peculiare. Sembra un Paul Haggis di frontiera, intreccia cioè storie ad alto tasso di adrenalina e suspense con le tematiche sociali ed antropologiche del confine, il border degli Stati Uniti. Un confine, quello sud, quello nord, selettivamente permeabile, secondo i punti di vista. Il punto di vista di Sheridan, appunto, è moraleggiante se non moralistico, pare risentire di alcune scorie della nueva ola messicana – Inarritu su tutti – e del modo di intrecciare la grande storia e le piccole storie, proprio ad esempio di Guillermo Arriaga. Con un pensiero ed un occhio più votato all’azione, certo, ma con intenti edificanti tutto sommato anacronistici. E’ una questione di Zeitgeist, è lo spirito del tempo: nel 2015 era ancora l’America di Obama, gli yankees facevano le guerre sporche ma battendosi il petto, la distruzione procedeva di pari passo con la contrizione. Ora, nel 2018, Regna Trump, ed è tutto più semplice, pane al pane e vino al vino, occhio per occhio, dente per dente. L’America mostra i muscoli, anzi, ne mostra uno solo, quello erettile, e i sensi di colpa sono banditi, non più blanditi.
Ecco quindi che Sheridan ha bisogno di Stefano Sollima, avvezzo a rappresentare il grigio piombo nelle terre di frontiera, siano esse la Magliana, la Suburra, Scampia. Collaborare, tagliare, concentrare, tirare fuori il nucleo del film. Il nucleo è una favola nera, un film di genere, anzi plurigenere: una spy story, un film di guerra, un kidnap movie, un western, un romanzo di (de)formazione. Poliedricità che si raggiunge puntando tutto sulla velocità, sul tempo uniformemente accelerato. La grande idea in Soldado è l’immanenza del male, che assume varie forme ma che resta non rappresentato nella sua essenza. La caccia pare essere a Carlos Reyes, boss del cartello chicano dominante, sospettato di complicità con l’Isis, ma Reyes è un Macguffin, il combustibile di una storia che si sviluppa tra l’asfalto e la polvere ma è vecchia quanto il mondo. Al centro c’è il ratto di una fanciulla, la figlia di Reyes, che potrebbe essere un cavallo di Troia per i marines in territorio nemico ma che si rivela latrice di sventura, una Cassandra sua malgrado, in quanto agognata e assaltata dalla totalità delle forze in gioco.
Soldado dura due ore, due ore di bocca aperta, pugni serrati e occhi incollati allo schermo, strabiliati. Spicca tuttavia il modo in cui Sollima gira, ad esempio, l’attentato kamikaze al supermercato: i terroristi si sparpagliano nelle corsie, si fanno esplodere in successione da sinistra a destra, la macchina da presa segue la stessa direzione, poi arriva alle superstiti, madre e figlia che compiono il percorso inverso, da destra a sinistra, ringkomposition e attesa del lieto fine con tentativo di uscita dal negozio, ma sulla soglia c’è un altro dinamitardo, e amen. Lo sguardo è azione in Soldado: non a caso, gli unici personaggi che non si muovono, che non agiscono sono quelli incappucciati – dai marines, dai trafficanti –, quindi quelli che non guardano. Il movimento è anche progresso, trasformazione dei personaggi; a volte la trasformazione è prevista, in altri casi è improvvisa e non preventivata. Finisce che gli scugnizzi, i giovani, buoni o cattivi che siano allo stato iniziale, vengano rappresentati come incapaci di intendere o consapevolmente volere. Non è tempo di eroi sembra dire Sollima – i suoi infatti non muoiono, si piegano e non si spezzano, non sono eroi, ma supereroi, quindi non sono reali – non è nemmeno tempo di nuove generazioni. E’ tempo di piombo e di deserto, sterile, mortifero, tombale.