Nocturno per David Lynch

I redattori e collaboratori ricordano il grande regista scomparso
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È il modo in cui le figure umane emergono dal buio nei film di David Lynch, quasi come se fosse l’oscurità stessa a plasmarle, che mi ha sempre colpito, intimamente, del suo cinema. Ora quella oscurità lo ha accolto per davvero, e in quelle tenebre può darsi che qualcuno lo condurrà, attraverso misteriosi tendaggi rossi, in una stanza dal pavimento a zigzag, dove un nano danzante gli rivelerà segreti indicibili. Forse per mia predisposizione naturale, o per miei trascorsi personali, ho sempre navigato tra le acque oscure dell’inconscio: abitare le immagini oniriche che scaturivano dal mondo interiore di Lynch è stato dunque per me più che naturale. Abbandonarmi alla sua oscurità è come fare una nuotata in quelle acque profonde di cui egli parla nel libro omonimo. La sua scomparsa mi priva dolorosamente di ciò che Lynch avrebbe potuto realizzare in futuro ma so che, in qualsiasi momento, potrò ritrovare quelle immagini, magari cercandole stavolta un po’ più a fondo del solito (Claudio Gargano).

Impossibile per chiunque condensare in uno scritto David Lynch, a meno che lo scritto non si protragga tutta una vita. Impossibile come lui, la sua opera, pittorica, fotografica, televisiva e cinematografica. Lui che ha fatto dell’impossibile e dell’inconscio collettivo una sand box dove ci invitava a giocare tutti, indiscriminatamente, il più democratico tra gli autori, un gigante Star Child in un mondo di nani. Quindici anni fa scrisse su un social che sentiva di avere una connessione con la Luna. Io ho sempre pensato, dalla morte di Badalamenti, che sì, l’uomo è arrivato sulla luna, ma solo Lynch con Angelo è riuscito a metterci piede. Chissà se in queste ore di dolore, che noi chiameremo il più grande tra i cliffhanger della nostra vita (scusaci Laura Palmer), i due non si siano ricongiunti a un altro David e al suo Major Tom. See you space cowboy (Maria Eleonora C. Mollard).

Per me David Lynch è stato colui che ha scompaginato, completamente ribaltato e poi ri-elevato all’ennesima potenza i parametri culturali, sociali e pop del mio essere spettatore della serialità americana e non solo. Twin Peaks, come un invisibile e quieto tornado ha portato la perversione nel nido ovattato delle soap operas (che fino a quel momento avevano “osato” al massimo con Dallas e Dynasty) e la mia stessa quotidianità da allora è cambiata. La cherry pie del mitico diner è entrata nel menù della mia famiglia (e ci dannavamo perchè il ripieno non veniva rosso sangue come il loro!) e persino il familiar magazine Tv Sorrisi e Canzoni pubblicò come inserto Il diario segreto di Laura Palmer (che conservo tuttora), inserito nella rivista a testa in giù (a mo’ di oggetto satanico) e nel quale si leggeva di Laura : “…Venivo costretta a tenere tra le mani quell’appiccicaticcio…”, dopo che il mefistofelico Bob aveva eiaculato. 1990: Boom! Lynch ha generato un riverbero di iconici sussulti pop  che ancora oggi influenzano il mio e nostro modo di approcciarci alla Tv e al cinema. Ha cambiato tutto (Enrico Ferri).

Twin Peaks - Fire Walk With Me

Per me David Lynch ha rappresentato un modo di fare cinema inaspettato. Ci sono quei momenti, per chi coltiva una passione per l’arte a 360 gradi, in cui si viene letteralmente folgorati. Una delle mie comunque molteplici e diverse “vie di Damasco” è stata senza dubbio la visione di Cuore Selvaggio: un’opera impossibile, o almeno così la giudicavo al tempo, per il modo in cui aveva rielaborato un classico della mia infanzia come Il Mago di Oz. Rendendolo di fatto ancora più magico. Il film inoltre è del 1990, come me: altro dettaglio che mi affascina. E il fascino del cinema di Lynch, spesso descritto come rarefatto, simbolista e grottesco, è invece insito in una potenza visiva e d’atmosfera che in pochi hanno raggiunto dalla nascita della settima arte. Guardando con attenzione, ci si poteva immergere nella concretezza dei suoi racconti: momenti perturbanti, personaggi di candida purezza e altri di perfetta malvagità, il mondo e la sua vita tra il vecchio e il nuovo. Ci si poteva perdere e infine ritrovare, come l’agente Cooper (Francesco Belliti).

Nel 2001 avevo 17 anni. Decisi di andare al cinema a vedere uno strano film: Mulholland Drive. Sapevo chi era Lynch, avevo sbirciato qualche puntata di Twin Peaks e avevo letto del successo al Festival di Cannes, anche se Moretti gli aveva soffiato la seconda Palma con La stanza del figlio. All’epoca andavo a scuola, ovviamente non scrivevo di cinema, mi limitavo a scribacchiare qualcosa di incomprensibile: ma già vedevo molti film, ero un nerd compulsivo nutrito di VHS e cineforum scolastici banditi da qualche docente illuminato. Convinsi un mio compagno di classe ad andare al cinema: mentre si faceva gruppo per vedere Fight Club o c’era l’ammucchiata casalinga per guardare Trainspotting e farsi le canne, Lynch era troppo strano e nessuno si fidava. Allora: andiamo in motorino in una sala di pomeriggio, perché di notte non potevamo uscire, e vediamo questo film di 147 minuti. Alla fine ci alziamo spaesati, senza parlare: per cinque minuti al buio non riusciamo a trovare l’uscita della sala. Procediamo a tentoni, apriamo la porta dei bagni e sbattiamo sulle sedie, alla fine usciamo, ci guardiamo negli occhi e diciamo: Ma che cazzo abbiamo visto? (Emanuele Di Nicola).

“Il cinema è una bella bugia che ci racconta la verità”. Così David Lynch, autore, regista e alieno che amò in maniera intensa e turbolenta Isabella Rossellini, descrive con questa sintesi perfetta l’arte cinematografica, forte della disinvoltura e della cultura di chi ha saputo entrare nell’invisibile della mente. Nelle sue opere ne cattura l’essenza attraverso mondi onirici e disturbanti ma al tempo stesso rivelatori. Il tormentone “Chi ha ucciso Laura Palmer?” tratto da Twin Peaks è più di una semplice domanda: è un portale narrativo che ha rivoluzionato la serialità televisiva, anticipando di decenni il modo in cui oggi viviamo e consumiamo le serie. Il lavoro di Lynch non è solo un’opera monumentale: è un’esperienza che ha ridefinito i confini tra il reale e il surreale, lasciandoci in un “altrove” carico di significati da scoprire. Di noi, di tutto. D’altro canto anche Federico Fellini sosteneva che l’unico vero realista fosse il visionario (Elisabetta Rossi).

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David Lynch è parte fondamentale della mia vita. C’è sempre stato, sin dalle scuole elementari dove, impaurito e affascinato, parlavo con gli amichetti di classe di quella paurosa pubblicità che passava la sera prima su un misterioso telefilm chiamato Twin Peaks, dove la conturbante voce di Pino Locchi domandava ad una nazione intera “Chi ha ucciso Laura Palmer?”. Ha accompagnato la mia adolescenza tenendomi sveglio la notte dopo le visioni del VHS noleggiato di Eraserhead. Mi ha fatto piangere con Elephant Man, innamorare con Velluto blu e, detto tra noi, eccitato con Mulholland Drive. Sono diventato adulto attraverso i capolavori di Lynch, spesso ingarbugliati ma proprio per questi motivi meritevoli di più e più visioni. Per non parlare della fase adulta, dove ho potuto finalmente trovare molti altri appassionati di questo grandioso artista con cui poter condividere, in modo assiduo, tutte le sue opere. David Lynch ha pitturato i nostri cuori con le sue meraviglie e non se ne andrà mai (Luigi Tenzi).

Per me David Lynch è sempre stato un gigante sulle cui possenti spalle orde di nani della celluloide e del tubo catodico han campato di rendita senza spesso proferire nemmeno un “grazie”. Lynch è quell’Uomo che cadde sulla Terra facendosi carne, sangue e addirittura aggettivo; capace di tracciare una nuova via attraverso quelle Strade perdute che, ancora imberbe, assai m’inquietarono e affascinarono al punto da farmi comprendere come un Altrove, tanto nella vita quanto nell’arte, fosse davvero possibile. Lynch è stato l’ultimo vero creator a tutto tondo: così yankee nell’animo ma pure così neo rinascimentale nel suo saper e voler saggiare di tutto e un po’; decantando e distillando a tal punto la sua brulicante fantasia da lasciaci di fatto poche (ma buonissime) tracce del proprio passaggio rispetto a ciò che ancora avrebbe potuto essere e su cui ora possiamo solo favoleggiare. Ma, in fin dei conti, questo è stato, è e sempre sarà per me David Lynch: una bellissima, appassionante ed onirica favola che mi ha cresciuto e che non smetterò mai di sfogliare. Una favola che, tuttavia, forse non ci siamo meritati abbastanza di leggere sino in fondo (Matteo Vergani).

David Lynch è stato un pittore prolifico, un musicista e compositore, un fotografo e designer e uno scrittore di valore. I suoi quadri, spesso caratterizzati da temi inquietanti, figure deformate e colori scuri, riflettono l’influenza dell’espressionismo. Come musicista ha sviluppato particolare interesse per l’elettronica e il blues. Le sue serie fotografiche includono immagini industriali, paesaggi urbani e ritratti inquietanti. L Nel suo libro autobiografico Room to Dream, co-scritto con Kristine McKenna, esplora la sua vita e carriera attraverso un dialogo tra narrazione biografica e riflessioni personali. E naturalmente era il regista di capolavori riconosciuti come Eraserhead, Mulholland Drive e Cuore Selvaggio, e colui che ha rivoluzionato il concetto di serie tv con Twin Peaks negli anni Novanta, ma questo lo sanno veramente tutti. Al di là di quanto ci si potesse riconoscere nel suo cinema visionario e irrazionale – ma non sempre. Si pensi a The Elephant Man e alla sua schiettezza sul piano narrativo ed emotivo – non gli si può non riconoscere una straordinaria capacita di creare e gestire icone, e renderle immortali. In molti di noi sono già sicuri che lo rivedremo tra 25 anni. (Andrea Guglielmino)

Ha dato ai suoi spettatori una scelta, ma non è stato sempre facile. Mi salta in mente l’idillio apparente della cittadina di Lumberton in Blue Velvet, un film che fece scalpore nel 1986: inquietante, bizzarro, noi fan deliziati da tanta assurda grazia. Quattro anni dopo con Wild at Heart – La storia di Sailor e Lula, avremmo imparato a dissezionare le profondità umane attraverso una storia d’amore che tutti avremmo voluto avere in quel momento, sentirsi Lula e Sailor anche solo per la durata di un lungometraggio è stato un regalo senza scrupoli che solo un visionario come Lynch poteva farci. Nel frattempo Twin Peaks, la serie che ha anticipato di almeno vent’anni quella che sarebbe stata la serialità: una storia che riesce a insinuarsi nella nostra quotidianità, alimentando morbose curiosità e paure non proprio ingiustificate, imponendoci di guardare allo specchio la Laura Palmer che era in noi. Diavolo di un Lynch, che della sua genialità estetica ha fatto il mezzo per poterci rappresentare la frattura dell’io: non ne nascerà facilmente un altro, e il mondo dovrà tenersi stretta la sua eternità. (Maria Capozzi)

Per me David Lynch ha reso interessanti e appassionanti le domande, mostrandoci con la sua arte onirica l’inutilità delle risposte e la banalità del raziocinio a ogni costo della narrativa hollywoodiana classica. Ha svelato ai nostri occhi la bellezza del terrore, l’ammaliante complessità dell’incubo e il fascino dell’illogico, eludendo ogni tentativo di estorsione di una chiave di lettura dei suoi complessi costrutti per rimanere fedele, fino all’ultimo, al potere del sogno. I suoi film, le sue serie, i suoi video, nell’impossibilità di intrappolarli in una spiegazione definitiva, di ridurli a un paradigma governabile e intelligibile, acquistano così una vitalità magmatica che si rinnova a ogni visione. Nel suo modo di vedere il mondo non era importante scoprire chi avesse ucciso Laura Palmer, bensì portarci nei meandri della sua immaginazione, senza una guida, senza un filo rosso. Twin Peaks è la testa di Lynch. (Marcello Aguidara)

Ho studiato cinema al DAMS di Torino, dove  – tacitamente – se non sbavavi per David Lynch (o Peter Greenaway) non eri à la page. È innegabile quindi che io abbia sviluppato un rapporto d’amore controverso per questa personalità così fuori dalla logica che scoprii molti anni prima di frequentare l’università. Ma questo non è un problema tra me e David, è un problema tra me e i piedistalli. Quando guardai Strade perdute, prima, e Mulholland Drive, dopo, rimasi affascinata e contraddetta, non capivo cosa avevo visto, perchè il senso del cinema di Lynch è quello di non avere UN senso, non va spiegato o necessariamente capito. Lynch mi ha fatto scoprire un modo di raccontare e di recepire inedito, misterioso, perturbante. Cuore selvaggio ha inaugurato la mia storia d’amore con i road movie, Velluto blu mi ha profondamente turbata. Piccola curiosità. Rimasi sconvolta quando intervistai Enzo Sciotti – autore della locandina italiana di Blue Velvet: un biliardo, due gambe semi aperte legate a una stecca, sangue che cola – e scoprii che la disegnò senza aver guardato il film. Oggi è incredibile pensare che nel 91 Twin Peaks batteva gli ascolti di Dallas sui canali di Berlusconi. Anche mia nonna sapeva chi era Laura Palmer, vi rendete conto? Quelle prime due stagioni le ho amate. Non è un caso se in un periodo un pò difficile della mia vita decisi di tatuarmi il titolo del prequel Fire Walk with Me (questa si che è una cosa terribilmente DAMS). Come nelle migliori relazioni di lunga data, non sono mancati i momenti in cui Lynch mi ha fatta arrabbiare, come quando ha tirato fuori la terza stagione di  Twin Peaks. Ma va bene così, non dobbiamo per forza andare d’accordo su tutto. Quel fuoco, comunque, continua ad ardere, anche sul finale, quando ha deciso di spegnersi in mezzo alle fiamme, mentre Hollywood brucia. (Giorgia De Carolis)

Forse è davvero impossibile condensare in mille caratteri ciò che Lynch ha rappresentato per tutti noi. Il mondo così come lui ce lo ha mostrato era di sicuro un mondo parallelo, interiore come i sogni, le immagini del cinema, la garmonbozia, l’inferno e il paradiso, che poi sono un unico purgatorio con le tende rosse. La sua è la morte di un’icona pop, una personalità unica perché ha saputo rimanere fedele a ciò che aveva dentro, qualsiasi cosa sua. Ecco perché il mondo di Lynch era un po’ anche il nostro. La sua scomparsa non è una vera scomparsa, è soltanto andato oltre quelle tende, assieme ad Angelo, Julee, Frank, Margaret, Peggy, altri doppelgänger di un universo splendido, impossibile da decifrare, come la vita del resto. (Simone Bisantino)

Il ricordo più forte che ho di Lynch sono le mie dita affondate nei braccioli della poltrone del cinema alla prima visione di Mulholland Drive. Di rado mi lascio tirare dentro da un film a quel modo, spesso resto un passo indietro e mantengo un distacco. In Mulholland Drive sono invece scivolato senza rendermene conto, a un certo punto c’ero in mezzo e basta. Ricordo poi come Twin Peaks è diventato parte della rete di referenti del gruppo che frequentavo tra la tarda adolescenza e i primi vent’anni. Bob, la Loggia, la garmonbozia, ne parlavamo con la familiarità delle visioni ripetute di un’opera che aderisce al tuo vissuto. Lynch mi ha insegnato che non tutte le stringhe del codice vanno decifrate, non subito, alcune trasmettono il loro messaggio a livelli incontrollati. E dopo la sua Pubblicità Progresso per la città di New York non butterò mai più una cartaccia per strada. (Stefano Tevini)

Provando ad associare liberamente i pensieri al nome di David Lynch, a balzarmi in mente sono un ricordo e una visione. Il ricordo è quello del primo (inconsapevole) contatto con Lynch, avvenuto come per molti nati negli anni ’80 grazie a Twin Peaks o, meglio, alla sigla di Twin Peaks, con l’inconfondibile tema musicale di Badalamenti a catturare l’attenzione del me bambino mentre i miei genitori – non esattamente due cinefili – attendevano con impazienza l’inizio di una nuova puntata su Canale 5, manco fosse L’ispettore Derrick. Un successo, quello della serie nella tv generalista italiana dell’epoca, per certi versi ancora inspiegabile, ma che dovrebbe far riflettere sulla presunta inaccessibilità dell’opera lynchiana. La visione, invece, coincide con la terrificante apparizione del cosiddetto “scary bum” in Mulholland Drive, geniale materializzazione della paura atavica dell’uomo nero in agguato dietro l’angolo. Uno dei tanti momenti di puro perturbante che costellano la filmografia di Lynch e da cui si sprigiona tutto il fascino oscuro e unico di un cinema capace di lavorare sull’inconscio dello spettatore come nessun altro. Per il sottoscritto, un autentico imprinting. (Luca Aloi)