Pietro Germi, un regista alla siciliana
Un carattere umorale e passionale, che lo faceva sentire vicino alla gente del Sud
Chi lo ha conosciuto, lo descrive come un uomo schivo e scontroso, il genovese Pietro Germi, che se ne è andato cinquant’anni fa, lasciandoci orfani di un autore geniale. Ma Germi aveva anche un carattere umorale e passionale, e tali suoi tratti caratteristici lo facevano sentire vicino alla gente del sud, le cui contraddizioni, i difetti, i pregiudizi, ma anche le loro qualità innate, è riuscito mettere in scena magistralmente, in tante pellicole. Si narra che Dino Risi, uno dei padri della commedia all’italiana, avesse coniato un epiteto per ciascuno dei suoi illustri colleghi che riassumevano alcune loro peculiarità artistiche, da Visconti a Fellini ad Antonioni a De Sica, nessuno si sottraeva a tali giochi di parole, tutti tranne uno e cioè Pietro Germi, che Risi definiva semplicemente “un grande regista”, a dimostrazione dell’ammirazione e della stima che l’autore de Il Sorpasso aveva per le qualità registiche del maestro genovese, giudizio che lo stesso condivideva con Federico Fellini, come ricorda il figlio Marco Risi in una recente pubblicazione dal titolo Forte respiro rapido. In particolare, Germi da direttore di attori, nell’arco di ventisei anni di carriera, ha filmato diciannove film, di cui cinque in Sicilia (più un altro girato nel sud Italia), narrando storie che ne ritraevano il contesto storico, sociale ed antropologico dell’epoca, con un cinema di qualità, fieramente popolare. Tuttavia, Pietro Germi era un cineasta a tutto tondo, che ha saputo alternare, con la stessa efficacia, l’attività di regista a quella di sceneggiatore e di produttore, ma anche di attore, con la quale iniziò la sua parabola artistica, avendo un viso ruvido e virile, che lo rendevano adatto a ruoli dal carattere forte e determinato, anche se sono solo tre le pellicole in cui recitò da protagonista, quelle da lui stesso dirette, e cioè Il Ferroviere (1956), L’uomo di paglia (1958) e Un maledetto imbroglio (1959). In altri film, Germi fu diretto, in ruoli minori, da alcuni dei suoi più acclamati colleghi, fra i quali Alessandro Blasetti, Mario Soldati, Damiano Damiani, Mauro Bolognini ed anche dal regista statunitense Martin Ritt, (Jovanka e le altre 1960), il quale qualche anno più tardi dirigerà anch’egli, come il regista genovese, il primo mafia movie in terra americana, dal titolo La fratellanza (1968), girato in Sicilia, nei borghi di Godrano e Mezzojuso, che anticipa di qualche anno l’opera di Francis Ford Coppola, Il Padrino ed i suoi seguiti, che diventerà seminale, ridefinendo gli stilemi del genere.
Vediamo, allora, quali sono i film del maestro ligure ambientati nel meridione d’Italia, concentrandoci su alcuni aspetti che rendono peculiari questi prodotti, non solo nella sua filmografia, ma pure nel panorama del cinema italiano. Il primo film di cui occuparsi è certamente In nome della legge, girato nel 1949, che si può considerare l’antesignano dei mafia movie italiani. Ed infatti, l’incontro tra il cinema italiano e la mafia lo si deve proprio a Pietro Germi, che con la citata pellicola ha saputo comprendere e restituire in immagini il controverso habitat isolano. Dopo di lui, sia pure con qualche esitazione, anche il cinema italiano ha cominciato a prendere contezza ed a approcciarsi al fenomeno mafioso, all’inizio con sporadiche opere d’autore che guardavano prevalentemente alla realtà siciliana, poi con un proliferare di titoli che arrivano fino ai giorni nostri. Sennonché, In nome della legge offre una rappresentazione ancora fortemente stereotipata della Sicilia e della mafia, considerata una “forza eslege ma con profonda aspirazione alla legge, alla giustizia, e dunque disponibile per una trasmutazione in forza d’ordine” (Sciascia). Una visione ispirata da un ottimismo di fondo, in larga parte dovuto alla convinta adesione del “primo” Germi ad istanze socialdemocratiche (che, peraltro, nelle pellicole successive lasceranno spazio ad un crescente disincanto), che riduce l’opera – per dirla con le parole del grande Guido Aristarco – ad una sorta di auspicio del regista in una futura pacificazione della mafia con la legge dello Stato. Il film, tratto dal romanzo Piccola Pretura di Giuseppe Guido Lo Schiavo e sceneggiato dal regista con Federico Fellini e Mario Monicelli, adatta le trame neorealiste imperanti in quel periodo alla forma ed agli umori del western di scuola fordiana, del quale il regista era un cultore, il cui registro espressivo risulta congeniale, nella prospettiva di Germi, alla particolare “Frontiera” italiana rappresentata dalla Sicilia ed in particolare calato nel territorio di Sciacca, dove il film fu girato.
La storia del giovane pretore (Massimo Girotti) che, giunto in un paese dell’entroterra siciliano, si scontra con l’omertà di una popolazione intimorita dal capo mafia Turi Passalacqua (il francese Charles Vanel), è narrata con un veemente romanticismo che si dispiega, soprattutto, nel tratteggio dei personaggi. Altra considerazione a margine, se quindi In nome della legge è il primo film italiano sulla mafia, la caratterizzazione del personaggio di un capo mafia, per la prima volta rappresentato sugli schermi italiani, lo si deve ad un attore francese. È curioso, peraltro, che In nome della legge – primo film a parlare apertamente di mafia in Italia – rechi nei titoli di testa la classica formula di disimpegno secondo cui “i personaggi, gli avvenimenti e i luoghi descritti in questo film sono immaginari”. Un’iscrizione, questa, che non sorprende più di tanto ove si consideri: per un verso, che la pellicola di Germi non si preoccupa di descrivere con precisione sociologica la realtà effettuale della mafia siciliana ma mira, piuttosto, a veicolarne l’idea corrente nella società del tempo (Sciascia); e per altro verso, che probabilmente si pensava (o si temeva) allora che la società (ed il cinema) italiano, non fossero ancora del tutto pronti a vedere rappresentata sullo schermo una storia cinematografica che parlasse di mafia. Per completezza filologica, va detto che In nome della legge non costituisce l’unica incursione nel mafia movie da parte del cineasta genovese, il quale l’anno successivo scriverà il soggetto della pellicola Contro la legge (1950), diretta da Flavio Calzavara, un apprezzabile poliziesco ante litteram, che lambisce marginalmente il territorio mafia, con un plot che vede un rampollo di buona famiglia (interpretato da un giovane Marcello Mastroianni, al suo primo ruolo di rilievo), che fa da intermediario fra grossi clan mafiosi e i suoi compaesani, accusato di un omicidio mai commesso, da cui riesce infine a discolparsi. Il film è sicuramente il più riuscito nella filmografia del regista veneto, allievo di Blasetti e attivo durante il regime fascista del secolo scorso, autore fra gli altri del melodramma Carmela (1942), che si ricorda per aver innescato una singolare disputa fra la sua interprete principale, la diva dell’epoca Doris Duranti, la quale si mostrò a seno nudo e la collega Carla Calamai, anche lei apparsa in una scena analoga nella precedente pellicola La cena delle beffe (1942) di Alessandro Blasetti. Non potendo rivendicare il primato temporale della prima scena di nudo in assoluto del cinema italiano, la Duranti si è sempre attribuita la preminenza della migliore postura, essendosi lei mostrata eretta, mentre la Calamai era stata ripresa sdraiata, differenza, a suo dire, di non poco conto. Ma in realtà, nel cinema italiano la prima attrice a denudarsi davanti alla mdp, fu Vittoria Carpi, l’anno prima ne La corona di ferro diretto sempre da Alessandro Blasetti, tuttavia, a differenza delle due dive che erano le protagoniste delle rispettive pellicole, lei ricopriva un ruolo secondario.
Negli anni ha seguire, Germi ritornerà ancora ad occuparsi delle stesse tematiche, ma con storie e registri diversi, anche con altri due film che sono Divorzio all’italiana (1961) e Sedotta e abbandonata (1964), il primo ambientato nel comune immaginario di Agromonte, in realtà girato ad Ispica, il secondo che adotta le location di Sciacca (oltre ai borghi di Caltabellotta, Santa Margherita del Belice e Siculiana), quali ideali sfondi per la storia. Le due pellicole, pur non parlando espressamente di mafia, hanno contribuito a lumeggiare il contesto socio-antropologico in cui essa si è sviluppato, attraverso dei plot che diventano specchio di alcuni fenomeni fra i più retrivi della nostra storia giuridica e di costume, rappresentati con toni ironici e grotteschi che è la cifra stilistica che ha contraddistinto i suoi ultimi lavori, e cioè il delitto d’onore, l’indissolubilità del vincolo matrimoniale in ambito civile, oltre alla scriminante del matrimonio riparatore in seguito alla fuitina. Peraltro, questi due film ambientati in Sicilia, per chi studia il cinema del regista genovese, non possono prescindere da un terzo titolo, che è Signore e Signori, girato da Germi nel 1966 e calato nella realtà di una provincia veneta (Treviso), a conclusione di una (sua) ideale trilogia sulla società italiana ed i sui costumi, con la quale ha voluto descrivere, in maniera sarcastica ed a tratti paradossale, i tanti vizi e le poche virtù dell’essere italico dell’epoca, a prescindere dalle latitudini geografiche in cui sono ambientate le storie. Qualche anno dopo aver girato la pellicola tratta dal romanzo Piccola Pretura di Giuseppe Guido Lo Schiavo, Germi torna a posizionare la mdp nelle location siciliane (Belmonte Mezzagno) per dirigere il meno riuscito Gelosia (1953), anche questa una trasposizione cinematografica da un romanzo, Il marchese di Roccaverdina di Luigi Capuana, eccessivo e cupo melodramma che narra, con toni (troppo) enfatici, dell’ossessione amorosa di un nobile siciliano verso una contadina, che lo porta ad ucciderle il marito. Per certi versi, allora, rispetto a questo film, il successivo Divorzio all’italiana (1961) costituisce una sorta di nemesi, sia per la cifra stilistica adottata (i toni da commedia in luogo di quelli drammatici), sia con riguardo agli snodi narrativi, poiché in quest’ultima pellicola il delitto d’onore del barone Cefalù è motivato da una gelosia solo di facciata, che nasconde altre mire poco nobili.
Per introdurre gli altri film di cui ci si occuperà in questa tematica trattazione, occorre fare riferimento ad un personaggio siciliano fra i più famosi, nell’immediato dopoguerra, il cui nome era Salvatore Giuliano, facendo necessariamente una incursione in quello che potremmo definire il cinema sul banditismo, anch’esso strettamente legato alla realtà siciliana ed al cinema di Germi. La vasta aneddotica sulla vita del bandito di Montelepre, ha alimentato, infatti, film di ogni genere: opere autoriali e pellicole minori (persino un porno), documentari e grandi produzioni americane, che contribuirono a perpetuare il mito di un bandito intelligente, dinamico e moderno celandone la natura di assassino spietato e a sangue freddo. Ebbene il primo film liberamente ispirato al bandito siciliano risale al 1950, anno che coincide anche con l’epicedio di Salvatore Giuliano. Si tratta de I fuorilegge, diretto da Aldo Vegano e interamente ambientato nel territorio di Piana degli Albanesi, dove appena tre anni prima gli uomini di Giuliano avevano aperto il fuoco sui lavoratori in festa a Portella della ginestra. Regista e sceneggiatore, Vegano aveva iniziato la carriera scrivendo numerosi soggetti per la commedia borghese degli anni ’30, il cosiddetto cinema dei telefoni bianchi, ma avrebbe esordito alla regia soltanto nel 1938 con Pietro Micca, film che racconta con enfasi le proverbiali gesta eroiche del soldatino sabaudo durante l’assedio di Torino del 1706 e di cui, oggi, sopravvive solo uno spezzone. Più tardi, sulla cresta dell’onda neorealista, Vegano avrebbe diretto altri film, fra cui appunto I fuorilegge, una sorta di istant movie, considerando che al momento della sua realizzazione, Giuliano era stato da poco ritrovato morto, nel cortile di casa del suo avvocato. La citazione di questo film, ci si potrebbe chiedere cosa c’entra con il regista genovese di cui ci stiamo occupando, ma la risposta è semplice: è anche grazie a Germi che il film contiene un impianto drammatico efficace, poiché la prima sceneggiatura è stata ampiamente rimaneggiata dal cineasta genovese, alla quale lavorò quando si accingeva a dirigere il ben più riuscito In nome della legge. A Germi si deve, quindi, la capacità di aver saputo manipolare e combinare in modo fantasioso alcuni episodi della vita di Giuliano. La pellicola, che inizialmente avrebbe dovuto intitolarsi Montelepre, si segnala, poi, per la scelta di affidare il ruolo del bandito Turi, ispirato a Salvatore Giuliano e protagonista della vicenda, a un giovane Vittorio Gassman, a quei tempi al cinema impiegato in parti melodrammatiche.
Altro divo allora in voga e particolarmente adatto a personaggi dalle forti caratterizzazioni passionali era Amedeo Nazzari, che verrà scelto per interpretare il ruolo di un ufficiale dei bersaglieri dal maestro Pietro Germi, che nel 1952 firma un’altro dei film più riusciti sul fenomeno che ha riguardato ed afflitto il Sud Italia ancora rurale, vale a dire il brigantaggio strettamente legato alla questione meridionale. Il titolo del film di Germi a cui si fa riferimento è Il brigante di Tacca del Lupo (1952). Come nel primo mafia movie italiano, l’ambientazione della pellicola è quella a lui più congeniale e quindi, facendosi ispirare dai western americani dell’epoca ed in particolare dalle opere di John Ford, narra la storia del Comandante Giordani, alla guida di una compagnia di Bersaglieri, impegnata nell’attività di repressione del brigantaggio e, segnatamente, nella missione di liberare l’area di Melfi infestata da una banda di criminali, capeggiata dal brigante Raffa Raffa. Quest’ultimo è un nome di fantasia, ma ad ispirare la sua figura di criminale è stato il brigante Carmine Crocco, nominato Donatello, il quale è stato, in epoca risorgimentale, il capo indiscusso delle bande del Vulture Melfese, gli stessi luoghi in cui è ambientata la pellicola di Germi, anche se molte scene sono state girate in Calabria. La storia criminale di Carmine Crocco ispirerà, diversi anni dopo, anche il regista partenopeo Pasquale Squitieri, il quale dirigerà la pellicola dal titolo evocativo Li chiamarono….briganti! (1999), ambientata all’epoca in cui visse e operò Crocco, interpretato da Enrico Lo Verso, a capo della sua banda di briganti, le cui gesta verranno narrate sotto la lente deformante di un poco convincente revisionismo storico. Infine, l’ultimo film da inserire in questa immersione cinefila nei contesti siciliani dell’opera di Germi, anch’esso ampiamente debitore del cinema fordiano, è Il cammino della speranza (1950), scritto e sceneggiato insieme ad un giovane Federico Fellini, che racconta di personaggi che per riscattare la loro condizione di precarietà economica e lavorativa, si affidano a loschi individui, i quali organizzano un viaggio clandestino, dietro un compenso in denaro, che gli permetterà, dopo tante peripezie, di raggiungere l’agognata meta, al di fuori dei confini del loro Paese, che possa consentirgli di vivere meglio.
Così ridotto all’osso il plot della pellicola, a chi non conosce la filmografia dell’autore genovese, o è troppo giovane per avere sentito parlare del film di cui trattiamo, tale descrizione potrebbe ricordare la sinossi di una recente pellicola pluripremiata di Matteo Garrone, dal titolo Io Capitano (2023), che narra anch’essa di un cammino della speranza da parte di due ragazzi dell’Africa subsahariana (Senegal) che insieme ad altri disperati, dopo un viaggio pieno di insidie e costellato di tragedie, raggiungono l’Italia, dove sperano di avere una vita migliore. Ed è anche per questo che l’opera di Germi ci appare quanto mai attuale, nel narrare di un’epoca in cui gli emigrati eravamo noi, e ciò attraverso l’odissea di un gruppo di solfatari della provincia di Agrigento (Favara), che partendo da questa località, dove il regista ambienta le prime scene, attraversano il nostro Paese e dopo un viaggio illegale, irto di difficoltà di ogni genere, riescono finalmente a raggiungere la Francia, con il miraggio di potere riscattare la loro condizione di precarietà e assoluta indigenza. Come le altre due pellicole citate, anche questo lavoro del maestro genovese è intriso di un lirismo melodrammatico, che edulcorano le istanze neorealiste allora imperanti, prediligendo una narrazione più sobria e compatta, ma al contempo spettacolare, alle volte ridondante, come era nelle corde del suo cinema di quel periodo.
In definitiva, Pietro Germi è stato un cineasta sempre a passo con i tempi, che ha saputo continuamente evolversi ed adattarsi ai mutamenti sociali e culturali del nostro Paese, modificando il suo modo di sentire e mettere le storie in immagini. Lo stesso, poi, ha individuato nel territorio del sud Italia l’habitat ideale per articolare parte delle sue visioni cinefile, dedicandogli un quarto della sua produzione da regista e occupandosi di alcune delle questioni all’epoca più delicate del meridione.
Tuttavia, di un pezzo di Sicilia il regista ligure non ha mai fatto a meno fin dal 1949, l’anno di In nome della legge. Nel cast del primo film di mafia italiano, infatti, compare anche il catanese Saro Urzì, allora già volto abbastanza noto al cinema, abile caratterista in ruoli di siciliano. L’interpretazione del maresciallo Grifò, nella pellicola di Germi, gli valse il primo nastro d’argento della sua carriera, ma principalmente sancì un intenso legame artistico e umano, fra l’attore siciliano ed il regista genovese, che durò fino all’ultima pellicola girata da Germi (Alfredo, Alfredo 1972). Urzì, fin dal primo film girato insieme, fu presenza fissa in quasi tutte le pellicole del regista, anche in quelle non ambientate in Sicilia (ad eccezione di Divorzio all’italiana, di cui però l’attore catanese interpreterà una parodia, dal titolo Divorzio alla siciliana – 1963 – di Enzo Di Gianni), e fra queste il ruolo più importante della sua carriera è quello del pater familias Don Vincenzo Ascalone, ricoperto in Sedotta e abbandonata, con il quale vinse un altro nastro d’argento ed il premio quale migliore attore al festival di Cannes. L’interprete catanese, dopo il ruolo ricoperto ne In nome della legge, continuò a lavorare con tanti altri registi, alcuni anche di talento e non solo italiani (ebbe anche un ruolo in Il Padrino, di Coppola), ma mai nessuno, come Pietro Germi, seppe valorizzarne le doti attoriali, come noto a tutti ed in primis allo stesso Saro Urzì che lo ha sempre riconosciuto e dichiarato.