Ritorno al cervo sacro. Il passato è l’unica giustizia

In occasione dell'uscita del Leone d'oro di Yorgos Lanthimos, Povere creature! in sala dal 25 gennaio, torniamo a riflettere su un'opera fondamentale del regista greco
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Il ritmo incessante della vendetta scandisce l’incedere ineluttabile dell’essere umano verso il proprio destino. All’interno di questa meccanica universale, trasversale al tempo e ai luoghi, risiede il significato ontologico de Il sacrificio del cervo sacro che costituisce la vetta raggiunta da Yorgos Lanthimos, uno dei talenti più fulgidi in circolazione sia nell’utilizzo della macchina da presa che nella capacità di disegnare un impianto narrativo solido ed espressivo.

Nel cinema del regista greco il simbolismo – tra metafora e allegoria – e le figure retoriche si dispiegano come architrave ed essenza del racconto, senza tuttavia mai sconfinare all’interno del perimetro della retorica pura. La violenza è connaturata all’indole dell’uomo e, nonostante si tenti puntualmente di superarla all’interno di un processo di maturazione, non la si può eludere poiché riaffiora all’improvviso. Bisogna infatti misurarsi sempre con il proprio passato, ruvido e irresponsabile. Proprio come succede a Steven Murphy, rinomato cardiologo che ritiene di aver saldato un errore fatale di anni prima, mentre esercitava la professione. Conduce una vita agiata, ad alto gradiente di benessere, che si muove all’interno di uno spartito armonico e apparentemente privo di sbavature: la splendida moglie e i due figli sono protagonisti di un contesto familiare ineccepibile.

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Tuttavia Ifigenia incombe e la carica mitologica si appresta a manifestarsi in tutta la sua impetuosità, inchiodando Steven dinanzi agli effetti delle sue azioni passate. Yorgos Lanthimos affresca l’idea del sacrificio come unico strumento ipotizzabile per bilanciare i propri errori e come unico percorso per anestetizzare il passato e renderlo il meno contagioso possibile rispetto al presente. Il sacrificio del cervo sacro è il complemento ideale di The Lobster: ‘odi’ il primo e ‘amo’ il secondo. Un incastro perfetto sia a livello formale che figurativo, una sorta di rimbalzo emotivo e letterario tra piacere e dispiacere. Entrambe le pellicole si saldano, però, tramite un denominatore comune che si traduce nella chimica della tentazione.

L’appetito può essere represso, recondito e inconscio e, se non assecondato. rischia di trasformare, letteralmente, in un animale come avviene durante il soggiorno dell’hotel di The Lobster. Ma può diventare anche il canto della sirena che attrae e ammalia, da cui occorre tenersi a distanza, che alla fine abbraccia dolcemente e divora ferocemente chiunque, come nel caso di Anna e Kim in Il sacrificio del cervo sacro. Un cedimento che, ovviamente, costerà caro e imporrà di sacrificare qualcun altro. Perché il cinema del regista greco vive e si nutre di una sequenzialità logica minuziosa e quasi maniacale, che si mescola e si amalgama organicamente ad un universo spesso immaginifico, in cui la composizione visiva rimanda spesso a una pittura dominata da equilibrio geometrico e dettaglio cromatico.

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Gli eventi si snodano e sviluppano senza mai liberarsi da quel dolore malinconico di chi in fondo è consapevole, ma ha sempre preferito convincersi che volgere il pensiero e la volontà al futuro è più rassicurante che misurarsi con il proprio regresso. Colin Farrell, Nicole Kidman e gli altri interpreti sfoderano una performance strepitosa che – con i loro sguardi perennemente corrucciati e trafitti dall’ombra – si muovono lungo la direttrice narrativa tracciata da Lanthimos, come se danzassero tenendosi tutti la mano un ballo tenebroso e mortifero.

“Non so se quello che sta succedendo è giusto, ma è l’unica cosa che mi viene in mente che si avvicina alla giustizia”, la frase pronunciata con sguardo imperscrutabile da Martin, incarna e condensa idealmente significato e significante che animano il film. Allo stesso tempo, la frase stessa può essere assunta sia come metafora che come espressione esplicita di tutta la carriera del cineasta greco. Un aforisma dal sapore di epica greca, declinato all’interno di uno squallido tugurio mentre il ragazzo mangia in canottiera un poco invitante piatto di spaghetti. È proprio questa continua ricerca ossimorica, questo gioco di corrispondenze  baudelairiane, all’interno di un costrutto crudo ma con una progettazione stilistica scrupolosa, che colloca Yorgos Lanthimos nel gotha del cinema. Perché, oltre a dirigere gli occhi e il pensiero verso il futuro, a volte bisogna anche sapersi accostare al proprio passato affinché non finisca per deflagrare nel presente.

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