Roger Corman

Intervista a un personaggio nella sfera del mito
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Parliamo dell’inizio della tua carriera… 

Tutto iniziò  quando ero studente di ingegneria all’Università di Stanford e scrivevo per il giornale del campus. Mi attirava il fatto che i critici avessero i biglietti gratis per andare al cinema! Quindi, dopo aver scritto un paio di recensioni, fui promosso a critico cinematografico. Ecco come è iniziata la mia carriera nel cinema… Comunque, più scrivevo articoli sul cinema, più ne ero interessato e intenzionato a lavorarci. Dopo essermi laureato, trovai un impiego alla 20th Century Fox come fattorino. Credo di essere stato l’unico laureato della mia facoltà  a essere felice di poter fare il fattorino. Da lì sono riuscito a farmi assumere nel “reparto sceneggiature” e, qualche anno dopo, mi sono trasferito in Inghilterra per un corso di letteratura inglese all Università  di Oxford. Tornato in America, ho iniziato a fare una serie di lavori di vario tipo, tra cui l’agente letterario. Ho venduto un mio racconto a un produttore e invece di essere pagato, gli ho chiesto di poter lavorare come produttore associato. Così da farmi un po’ di esperienza. Negli anni ho perfezionato questo mio ruolo di scrittore e produttore, mettendo da parte un po’ di soldi. A quel punto, ho deciso di fare il mio primo film da regista, che si chiamava di It Stalk the Ocean Floor. Il produttore però volle cambiare il titolo in Monsters from the Ocean Floor (1954) perché quello originale gli sembrava un po’ pretenzioso. Questi, insomma, sono stati i miei inizi.

Perché come regista hai deciso di fare film horror?

Sono sempre stato un appassionato di storie dell’orrore e di fantascienza, il mio primo amore, da ragazzo, furono i racconti di Edgar Allan Poe. E poi gli autori classici della fantascienza, come H.G. Wells, senza dimenticare i grandi scrittori moderni, tipo Heinlein, Bradbury e via dicendo…

I tuoi adattamenti cinematografici delle opere di Poe sono considerati ottimi…

Io ero abituato a fare film in bianco e nero, da girare in 10 giorni, con un budget di circa 50/ 70.000 $. A quei tempi gli Studios per cui lavoravo, tipo la AIP, avevano la consuetudine di proiettare insieme due di queste pellicole nello stesso cinema, accoppiandole per genere, quindi due film di fantascienza o due film dell’orrore, da vedere con un biglietto solo. Ero io a dirigere queste coppie di film per la AIP, ma a un certo punto mi sono stancato, perché era diventata una prassi ripetitiva. Un giorno chiesi se potevo fare un film a colori, da girare in 15 giorni, con 200.000 $, invece di due in bianco e nero. Volevo fare I vivi e i morti (The Fall of the House of Usher, 1960). Inizialmente erano titubanti, ma visto che si trattava di una società giovane e dinamica, li ho convinti ad alzare  il tiro con le loro produzioni. Gli proposi Vincent Price nel ruolo di Roderick Usher e Jim Nicholson, allora presidente della AIP mi fece fare il film. Come stabilito, lo girai in 15 giorni e andò  benissimo. Anche le critiche furono molto favorevoli. Poi feci Il pozzo ed il pendolo (Pit and the Pendulum, 1961) e altri cinque o sei adattamenti dei racconti di Poe. La AIP voleva che continuassi a farne altri, ma mi ero stufato e volevo fare qualcosa di diverso.

Il rapporto con Vincent Price e con Barbara Steele, come fu?

Scelsi Vincent Price per il ruolo di Roderick Usher perché il personaggio doveva essere un vero gentiluomo, molto colto e raffinato. Secondo me, Vincent era perfetto per rappresentare queste qualità. Quando abbiamo iniziato la nostra collaborazione, ho capito subito che Vincent non solo era un grande attore, ma era anche una persona simpaticissima e alla mano. Inoltre, era anche un grande esperto e collezionista d arte. Non potevo che avere ammirazione per un uomo così. Barbara Steele, invece, la scelsi per Il pozzo e il pendolo dopo averla vista in La maschera del demonio (1960) di Mario Bava. Aveva un volto interessantissimo ed era una grande attrice. Dopo aver lavorato con lei in quel film, abbiamo continuato a collaborare.

25pit-and-the-pendulum-vincent-price-barbara-steeleHai citato Bava: cosa ne pensi dei registi di horror italiani?

Ho sempre amato i film di genere italiani, specialmente gli horror. Mario Bava o Dario Argento hanno realizzato alcune tra le migliori opere in assoluto di questo genere.

A proposito di La rivolta delle gladiatrici (The Arena, 1974), una tua coproduzione con l’Italia, appunto: da noi il film risultava diretto da Joe D Amato, mentre in Usa appariva il nome di Steve Carver come regista…

The Arena, che trattava di donne-gladiatori nell antica Roma, nasceva da una serie di film che avevo prodotto, con protagoniste Pam Grier, bellissima attrice di colore, e Margaret Markov, una bionda statuaria. Un giorno chiamai Mark Damon, che aveva lavorato per me come attore e adesso faceva il produttore a Roma, e gli parlai di questo mio progetto. Io avrei avuto i diritti per la distribuzione in America, mentre Mark avrebbe tenuto quelli per l’Europa. Accettò e gli mandai subito il copione, proponendo la regia di Steve Carver che aveva già lavorato con me. A Damon stava benissimo, ma disse che voleva, al posto di Margaret Marcov, un’attrice italiana. Quindi rifiutai perché il progetto nasceva proprio dalla coppia Grier/Markov, che insieme funzionavano a meraviglia. Raggiungemmo alla fine un accordo e creammo un terzo ruolo per l’attrice italiana che voleva lui (Rosalba Neri, ndr). Mark dovette quindi accettare di avere come protagonista Margaret e la cosa buffa è che, poco dopo la fine delle riprese, si sposò proprio con Margaret! Non so perché in Italia sia accreditato un altro regista, ma posso assicurare che fu Steve Carver a dirigere il film. 

Per quale motivo si decide di fare un film horror?

Beh, il motivo è molto semplice, per spaventare il pubblico e farlo urlare, no? Quello che è più difficile è riuscirci, perché devi superare le barriere dell’inconscio delle persone. Pensiamo a quando, da bambini, eravamo terrorizzati dal buio, dai lampi dei temporali, dagli eventuali mostri che si potevano nascondere sotto il letto. Poi arrivavano sempre mamma e papà che ci dicevano che non c’era nulla di cui preoccuparci, che eravamo al sicuro e ci calmavano. Dentro di noi, però, una vocina ci diceva che c’era lo stesso qualcosa per cui essere preoccupati. Da adulti non abbiamo più paura di queste cose, ma da qualche parte della nostra mente ci sono le tracce di quel bambino spaventato. Ecco, un buon film del terrore deve superare la barriera del pensiero razionalee raggiungere quella parte remota del nostro inconscio.

Sei stato l’artefice di diversi film del genere sexy-blaxploitation…

Ci sono varie teorie sulla nascita del cinema blaxploitation. Di sicuro, negli anni 70, il numero di spettatori di colore era maggiore di quello che indicavano le statistiche. Gli Studios non avevano capito che quel pubblico costituiva una grande risorsa di guadagni al box-office. Io, invece, questa cosa l’avevo intuita e girai con Pam Grier The Big Doll House (1971), che poi cambiò titolo in Women s Penitentiary. Quel film ebbe un enorme successo e mi aiutò a consolidare l’immagine della casa di produzione che avevo da poco fondato, la New World Pictures. Ricevemmo un sacco di lettere da parte dei fan, indirizzate quasi esclusivamente a Pam, e così decisi di fare altri film con lei, affiancandole come comprimarie delle attrici bianche. In questo modo potevo rivolgermi a un pubblico più vasto. Quindi, sono rientrato nel filone blaxploitation ma solo fino a un certo punto, perché insistevo a creare coppie formate da un’attrice di colore (dopo Pam arrivò Jeanie Bell) e una bianca.

In un certo senso hai contribuito anche alla nascita del filone women in prison, che è considerato un vero sotto-genere… 

Non so dire con precisione come e quando sia nato questo sottogenere. Posso solo dire che dopo il successo di The Big Doll House, feci altre pellicole che trattavano di donne in prigione. Sì, forse anch’io ho contribuito alla nascita di questo filone… 

Piranha era un film dal forte contenuto politico: quando leggesti il copione di John Sayles eri consapevole di questo sottotesto politico o pensavi solo a un modo per sfruttare il successo di Lo squalo? 

Piranha fu uno dei maggiori successi della New World Pictures. Se parliamo dei paragoni con Lo squalo, mi viene in mente la recensione che Vincent Canby, critico del NY Times, fece al film di Spielberg. Lui disse: “In fondo, cos’è Lo Squalo? Un film alla Roger Corman fatto con un budget più alto”.  E secondo me aveva ragione, anche se Lo squalo era migliore della gran parte delle mie produzioni. Per Piranha, comunque, decisi di stanziare un budget maggiore del solito e trovai una co-produttrice giapponese, Chako Van Leeuwen. Lei aveva un po’ di soldi da investire e i diritti della sceneggiatura. Dopo aver letto il copione che aveva, le dissi che era veramente brutto e le proposi di riscriverelo. Allora, lo story editor che lavorava con me, Francio, mi fece il nome di John Sayles, che aveva già pubblicato romanzi e racconti, ed era interessato a scrivere sceneggiature. Assumemmo John e Joe Dante come regista. Insieme lavorammo alla sceneggiatura e nacque Piranha, che ebbe un notevole successo. Decisi di mettere in cantiere un sequel, Piranha Paura (1981), che fu affidato a un produttore italiano (Ovidio Assonitis, ndr), con cui Chako era in società. Come regista, io suggerii James Cameron, che aveva già lavorato per me come effettista e regista della seconda unità. Dopo una settimana, il produttore licenziò James, dicendo che era un incompetente e finì lui di girare il film. James, però, mi aveva confidato di avere il sospetto che il produttore volesse dirigere il film dall’inizio…

33-i-vivi-e-i-morti-1960-roger-cormanQuali sono stati per te i più importanti horror, sotto l’aspetto della critica sociale?

Secondo me, i film horror sono più orientati all’aspetto psicologico che non a quello strettamente politico. Se proprio bisogna trovarci una componente di critica sociale, direi che viene fuori quando ci chiediamo se l’organizzazione della nostra società è veramente salda o qualcosa di esterno può infrangere le nostre certezze. Se questo avviene, allora si scatena l’orrore. Io la vedo così. Credo, comunque, che sia il cinema di fantascienza a lasciare più spazio a considerazioni di ordine politico.

Anno 2000 – La corsa della morte (Death Race 2000, 1975) di Paul Bartel è  un altro film che hai prodotto e che conteneva un forte messaggio di critica sociale, ironizzando sulla violenza nello sport e nella televisione…

Alla base di Anno 2000 c’è un racconto che avevo comprato, intitolato The Racer, che narrava di uno sport del futuro in cui piloti di macchine velocissime si sfidavano in duelli mortali. Inizialmente, tentai di svilupparlo come un copione serio, ma il risultato non mi piacque. Pensai allora di puntare sull elemento satirico, ricordandomi di un capolavoro come Il Dottor Stranamore (1964), che affrontava temi delicatissimi con un tono molto ironico. Chiamai il mio amico Bob Towne e gli affidai la scrittura del copione. Al centro della sua sceneggiatura c’era questa gara che si snodava tra New York e Los Angeles, dove i piloti ottenevano punti a seconda della velocità, ma anche in base ai pedoni che riuscivano ad uccidere. Questo era l’elemento satirico, ma il film conteneva anche una forte critica alla società e al governo. C’erano poi dei richiami ai gladiatori dell antica Roma. Beh, a proposito della domanda su La rivolta delle gladiatrici, credo di avere un po’ una fissazione per i gladiatori! 

L’uomo dagli occhi a raggi X (X-The Man With X-Ray Eyes, 1963) è considerato da Stephen King come il film che segna l’inizio del cinema horror moderno… 

L’uomo dagli occhi a raggi X era una mia idea e parlava di un uomo che riesce a vedere attraverso la superficie della realtà. La storia conteneva anche un messaggio sociale su come le cose siano differenti da come ci appaiono in superficie, ma l’ho sempre considerato come una buona combinazione tra horror e fantascienza. Ebbi qualche difficoltà a sviluppare questa idea di partenza. Di solito non scrivevo sceneggiature, ma solo trattamenti e per quel film avevo scritto un trattamento di tre o quattro pagine, in cui raccontavo di un musicista jazz drogato: a un certo punto, sono le droghe a sviluppare in lui un potere straordinario. Rilessi il trattamento e dissi:  No, così  non va, è una schifezza. Capii che non mi piaceva perché avevo trasformato il personaggio originale, il classico scienziato, in un musicista jazz, per allontanarmi dai soliti stereotipi. A quel punto, mi resi conto che doveva essere uno scienziato.

A proposito di I maghi del terrore (The Raven, 1963), è noto che ci furono alcune difficoltà nella lavorazione…

I maghi del terrore fu il terzo, o il quarto… non ricordo con esattezza, della serie di film ispirati a Edgar Allan Poe. Io e Richard Matheson, che scrisse la sceneggiatura, sentivamo che questa serie stava iniziando a diventare un po’ ripetitiva e decidemmo di aggiungerci dello humour. Riunimmo un cast formato da Vincent Price, che aveva fatto con me tutti gli adattamenti da Poe, Boris Karloff e Peter Lorre. Fu proprio il differente background di ognuno di questi tre attori a creare qualche problema. Bisogna considerare che venivano da esperienze molto diverse: Boris Karloff era il classico attore teatrale inglese, nato e cresciuto sul palco, mentre Vincent Price aveva molta esperienza teatrale, ma negli anni si era avvicinato al Metodo dell’Actor s Studio e alle tecniche di improvvisazione. Peter Lorre veniva da Berlino, dove aveva lavorato nelle opere di Bertoldt Brecht, quasi esclusivamente basate sull’improvvisazione. Fin dall’inizio, avevo paura che questi tre attori non riuscissero a lavorare bene insieme. Poi, un giorno arrivò Boris nel mio ufficio. Era quasi disperato e mi disse:  “Roger, io così  non riesco a lavorare. Io arrivo sul set preparato, dopo aver imparato a memoria il copione e la mia parte e poi arriva Peter, che ha solo una vaga idea del copione e inizia a dire le prime cose che gli vengono in mente. Devi aiutarmi!”. Li chiamai tutti nel mio ufficio per risolvere la questione. Vincent era l’unico in grado di combinare preparazione e improvvisazione e proposi agli altri due di prendere lui come riferimento. A Boris suggerii di continuare con il suo metodo, ma di essere più  rilassato e aperto a eventuali idee che fossero venute fuori durante le prove, mentre a Peter dissi: “Ti prego, Peter, leggi il copione! Così puoi farti un idea di quello che sta succedendo”. Dopo quella riunione, le cose filarono lisce e si instaurò una grande amicizia tra loro tre.

Raven-1963-5Il serpente di fuoco (The Trip, 1967), fu un film molto importante sotto il profilo psicologico, immerso nella cultura psichedelica del tempo…

Dopo la serie di film tratti da Poe, girati tutti in studio, sentivo la necessità di provare qualcosa di diverso e pensavo a storie più a contatto con la realtà, magari girate per strada o in vere location. Il primo film di questo tipo che realizzai fu I selvaggi (The Wild Angels, 1966), che fu presentato al Festival di Cannes ed era interpretato da Peter Fonda e Bruce Dern. Ebbe un buon successo e decisi di fare subito un altro film che trattasse della gioventù moderna. A quei tempi, la cultura dell LSD e dei Figli dei Fiori aveva raggiunto il suo apice. Per prepararmi meglio, mi feci un trip con l’LSD, che fu veramente incredibile. Mi resi conto, però, che sarebbe stato quasi impossibile riprodurre sullo schermo quel tipo di allucinazioni. Quindi, riunii un gruppetto di persone esperte di queste esperienze, tra cui Jack Nicholson, che scrisse la sceneggiatura di Il serpente di fuoco. Jack aveva già scritto dei copioni per me e in quel momento la sua carriera di attore non andava molto bene. A lui affiancai Bruce Dern, Peter Fonda e Dennis Hopper. Con quel film sperimentammo un nuovo stile di montaggio, che lasciò il segno. Non posso dire di essere stato il primo a fare un film così sperimentale, visto che i maestri dell’Espressionismo tedesco avevano fatto cose incredibili già molto tempo prima, ma per me quello stile di montaggio psichedelico e frenetico era una novità assoluta e se ne accorsero anche i critici cinematografici. Infatti, il film fu presentato a Cannes e riscosse un successo notevole. Se ci si pensa bene, ancora oggi, soprattutto nei videoclip, utilizzano quello stile.

La vergine di cera (The Terror, 1963) è un film a dir poco bizzarro…

Direi uno di più bizzarri che abbia mai fatto, sul quale i critici hanno scritto per anni. Beh, la verità che quel film non ha alcun senso, nella maniera più assoluta. La domenica dopo aver terminato le riprese di I maghi del terrore, mi stavo preparando per andare a giocare a tennis, quando improvvisamente iniziò a piovere. Rimasi, così, da solo, in casa, a due passi dal set di I maghi del terrore e mi venne un idea: perché non riutilizzarlo? Abbozzai una storia in pochi minuti e chiamai il mio amico produttore Leo Gordon; gli dissi: “Ho scritto una storia e cerco di convincere Boris Karloff o Peter Lorre o Vincent Price a rimanere qui per altri due giorni. Io scrivo la sceneggiatura per le scene di questi due giorni di riprese e il resto ce lo inventiamo al momento”. Leo mi rispose che per lui non c’erano problemi. Peter Lorre e Vincent Price, però avevano già preso altri impegni e dovettero partire. Quando chiesi anche a Boris se poteva rimanere per altri due giorni, lui ne fu entusiasta. Subito dopo chiesi a Jack Nicholson, che aveva una piccola parte in I maghi del terrore, se voleva subito fare un altro film. Gli dissi: “Jack, in questo film sarai tu il vero protagonista, anche se Boris risulterà l’attore principale. Giriamo insieme a lui per due giorni e, dopo, faremo in modo di costruire il resto della storia intorno al tuo personaggio”. Lui accettò, a patto che il ruolo della protagonista femminile andasse a Sandy Knight, che all’epoca era sua moglie, perché entrambi avevano bisogno di soldi. Beh, Sandy oltre a essere molto bella, era anche una brava attrice e accettai subito. Quindi, per due giorni, girammo con Boris Karloff e la troupe fornita dal sindacato. Poco tempo dopo, però, detti le dimissioni dal sindacato e questo voleva dire che non potevo più dirigere il resto del film. Scrissi un’altra buona parte del copione e mandai a Big Sur, per continuare le riprese, il mio aiuto regista di fiducia, Francis Ford Coppola. Dopo quattro o cinque giorni di riprese, fu chiamato a lavorare per la Warner, da dove iniziò la sua carriera come regista e io mi ritrovai di nuovo in braghe di tela. Ritoccai un po’ la sceneggiatura e Monte Hellman si disse disponibile a subentrare alla regia. Girò per 5 giorni. Dopo di lui, arrivò  Jack Hill che diresse un altra porzione del film. A quel punto, restava da girare solo la scena finale. Jack Nicholson mi disse: “Roger, mi sembra che qualsiasi idiota con un po’ di tempo libero possa essere il regista di questo film. Perché  non mi fai dirigere l’ultimo giorno di riprese?”. Potevo dirgli di no? Iniziò  il montaggio, che feci insieme a tutti quelli che ci avevano lavorato, ma ogni regista aveva un’opinione diversa. A me, comunque, sembrava che la storia non avesse né capo né  coda. Non sapevamo più che inventarci. Mi sono ricordato che avevo in produzione un altro film tratto da Edgar Allan Poe, che prevedeva dei set molto suggestivi. Decisi che al termine di ogni giornata di riprese, quando gli attori se ne fossero andati, avrei continuato a girare per altre tre o quattro ore, con Jack, Sandy e Dick Miller, delle nuove scene per La vergine di cera. Però, mancava sempre un’idea forte per il finale. Pensai quindi al personaggio del Barone, interpretato da Boris (il presunto protagonista del film) e mi venne l’idea di farlo diventare un impostore, che aveva ucciso il vero Barone e si era sostituito a lui. Magari era un idea buona per far funzionare la storia. Quindi girammo questa scena in cui Jack Nicholson e Dick Miller sono davanti alle mura del castello del Barone. Jack afferra Dick per il collo, lo sbatte contro il muro e dice questa battuta: “Fin da quando sono entrato in questo castello, non mi avete detto che bugie. Adesso voglio la verità!”. A quel punto, Dick gli racconta tutta la storia dell’impostore che mi ero inventato due giorni prima per far quadrare la storia. Insomma, era un film completamente privo di senso, che però andò molto bene.

Hai raggiunto un discreto successo con i tuoi piccoli film prodotti dalla New World. Nel  77, però, George Lucas rivoluzionò  tutto con Guerre stellari e i film di fantascienza divennero produzioni da milioni di dollari. Come vivesti questo momento cruciale per l’industria cinematografica? 

La New World era andata molto bene per tutta la metà degli anni 70, così come erano andate bene tutte le mie produzioni per la AIP. Quando uscì Lo Squalo e, soprattutto, quando Guerre stellari divenne un campione d’incassi, dissi a Joe Dante e altri miei collaboratori: “Ragazzi, siamo nei guai! Le Major si sono messe a produrre le stesse storie che facciamo noi con budget da kolossal. I nostri film sembreranno delle schifezze, in confronto”. In effetti, ci fu un grande cambiamento e i profitti andarono in picchiata. I tempi si erano fatti duri, nonostante cercassimo di rilanciare facendo film più duri come Piranha o dal budget più corposo, come Battle Beyond the Stars (1980), sempre scritto da John Sayles. Ci dovevamo adattare per sopravvivere. Un altro aspetto molto significativo di quel periodo fu che molti produttori o registi di film indipendenti smisero di lavorare. Forse stavano invecchiando, e prevedendo quello che sarebbe successo si dissero: “Beh, ormai abbiamo fatto un po’ di soldi. Andiamo a goderci la pensione a Palm Springs, giocando a golf”. Lasciarono il campo alle nuove generazioni, a ragazzi con idee nuove che seppero come rivitalizzare il genere.